sabato 26 aprile 2025

Gestire l'ansia

Quante volte capita di sentir dire frasi come queste: vorrei una tecnica per gestire l'ansia oppure adesso ho imparato a gestire l'ansia. Cosa significa gestire l'ansia? Tenere a bada, sapere in qualche modo arginare e moderare, non esserne in balia, sapersi difendere da questo sentire così impervio? Casomai per non subirne l'assalto e per non andare in ambascia e in confusione ci si avvale di un lavoro fatto in psicoterapia che all'ansia ha trovato una (presunta) causa o che ha chiarito che è una risposta disfunzionale, frutto di errata visione e percezione, cui non dare perciò peso, seguito e credito, perchè si tratterebbe di una sorta di errore del sentire, di un sentire senza senso e privo di valido motivo, da cui si può solo trarre danno, un sentire che in modo diverso dovrebbe declinarsi per essere funzionale e sano. Insomma l'ansia, questa voce del proprio sentire rimane in ogni caso una minaccia da cui difendersi, una distorsione da non drammatizzare e da imparare possibilmente a smontare e comunque a tenere sotto controllo. Il proprio sentire rimane dunque sotto vigilanza, anzi sotto diffida. Che questo confermi la separazione e la tenuta a distanza e sotto giudizio delle espressioni della propria vita interiore, che riconfermi la non unità del proprio essere, il predominio della parte conscia di cui, con la sua strumentazione di pensiero razionale e di volontà, soltanto ci si fida, su cui si fa conto  per capire e per indirizzare il proprio procedere, di cui ci si può avvalere per non cadere nella temuta trappola dell'esposizione al proprio sentire, soprattutto quando, a proprio giudizio, rischia, con l'ansia che sale, col malessere interiore, di sballare, tutto questo pare ben voluto e più che accettabile. A ben vedere non sembra proprio una meraviglia vivere con una parte di se stessi che si continua a tenere sotto controllo, sul cui conto scatta con grande disinvoltura il discredito e il ripudio quando nelle sue proposte, tipo timidezza o insicurezza, è senza appello giudicata manchevole e inadeguata, a cui è concessa in generale solo una fiducia condizionata al suo dare conferma e soddisfacimento alle proprie attese. E' una fiducia condizionata e in bilico, che facilmente, come in presenza di ansia e di altre espressioni di malessere interiore, può saltare, tramutandosi in paura ostile e in necessità di alzare i muri, di mettere in atto difese, tecniche di tamponamento e di gestione, controffensive varie. La stessa psicoterapia è intesa e spesso di fatto si traduce nel tentativo o di correggere il presunto guasto, casomai cercandogli una presunta causa in qualche condizionamento negativo, in qualche manchevole o distorto contributo educativo o affettivo, oppure in qualche trauma patito che avrebbe sconvolto l'assetto interno. Insomma c'è sempre da mettere o da rimettere a posto le cose sul conto di una parte di sè, che a proprio giudizio, già quando sensazioni e stati d'animo inattesi e sgraditi si fanno strada, ancor di più quando il malessere ingrossa, sembra solo non funzionare come dovrebbe, fino a manifestare, sempre a proprio giudizio, anomalie più preoccupanti, fonte per sè solo di insidia e di danno, parte di sè che dunque va tenuta sempre a bada. E' ben accetto e ideale per sè questo stato del rapporto con se stessi, con una  parte tutt'altro che irrilevante del proprio essere? Se anzichè andare a cercare le distorsioni e i guasti, i malfunzionamenti nel proprio intimo, nel proprio sentire, si cominciasse a vedere, è proprio sotto il proprio naso, che se c'è una distorsione è proprio in questo stato del rapporto con se stessi eretto a norma? E' da confermare e da dare per scontata, all'occorrenza da difendere con le unghie e coi denti, anche con il ricorso a terapie ad hoc farmacologiche e non, o è finalmente da mettere in discussione e tutta da verificare la validità e l'ineluttabilità di questa condizione di convivenza armata con la parte di sè intima, così viva e presente nella propria esperienza e di cui in fondo non si conosce nulla, di cui si pensa solo che dovrebbe girare a favore e  non compromettere il proprio equilibrio (a ben vedere piuttosto fragile e precario) e il proprio quieto vivere? Se questa condizione, che definire di dissociazione nel proprio essere è più che appropriato, piace e si ritiene vada bene, si prosegua così, ma se comincia, aprendo uno spiraglio di vera riflessione, a apparire ai propri occhi tutt'altro che esaltante e tutt'altro che accettabile, allora il proposito di metterci mano può diventare ben più importante che dotarsi di capacità di gestire l'ansia e di altre tecniche e accorgimenti per tenere in valida efficienza l'armamentario di difesa e di protezione da minacce interne. L'intimo di sè, il proprio mondo interiore, questa parte del proprio essere che si rende continuamente vicina e presente nel sentire, nel sentire tutto senza distinzione e contrapposizione di positivo e negativo, di piacevole e spiacevole, nelle emozioni e  negli stati d'animo, nelle spinte che si avvertono, nei sogni, dove si riconosca di avere necessità e desiderio di conoscerlo, imparando, se per fare e sviluppare questo serve aiuto va cercato in chi abbia capacità di darne, a capirne linguaggio, a comprenderne le espressioni e le proposte, ansia inclusa, tutte da scoprire, da riconoscere nel loro insito e vero significato, in ciò che rivelano, mettendosi in ascolto, aprendo lo sguardo, evitando di mettere loro sopra ragionamenti, interpretazioni e spiegazioni, comunque improprie, che non c'entrano nulla, questa parte intima e profonda potrebbe rivelarsi essere tutt'altro che parte del proprio essere da tenere in subordine e da vigilare. Senza conoscenza non si può che rimanere fermi nel preconcetto e fare propria la logica della gestione e del controllo sulle espressioni e sulle proposte di una parte vitale del proprio essere, da cui si rischia di continuare a rimanere infelicemente disgiunti e lontani. Conoscere questa parte di sè tutt'altro che insignificante, con cui è innaturale e assurdo tenere in piedi un rapporto, che è un non rapporto, di diffidenza, di controllo e di pregiudizio, è decisivo. Quando si impara a entrarci in rapporto e ci si dà l'occasione di conoscere e di riconoscere in ciò che è per davvero questa parte di se stessi intima e profonda, si può scoprire quanto di prezioso e di utile sa trasmettere e donare a se stessi.

venerdì 25 aprile 2025

La congiura del silenzio

Alla miopia e all'inerzia della parte conscia, che sostanzialmente vuole che non ci sia disturbo nel procedere consueto, risponde e fa contrasto l'iniziativa della parte profonda che non si fa problema nel porre in discussione, nel mettere in crisi, nel dare segnali di malessere interiormente vistosi, apposta vistosi e incisivi perchè non siano ignorati, che toccano punti decisivi, aspetti del modo di essere e del modo di condursi che vanno resi oggetto di presa di coscienza, di riflessione, di verifica attenta, senza veli e reticenze. La congiura del silenzio o meglio del silenziamento e della neutralizzazione della minaccia interiore al quieto vivere e persistere scatta insorabile. Questa controffensiva alla presunta azione nociva e deleteria del malessere interiore, così bollato, anche se non ascoltato e lasciato parlare, anche se non conosciuto in ciò che sa dire e che ha capacità di promuovere, si fa scudo di persuasioni ben nutrite dal cosiddetto buon senso comune, confortate dagli argomenti, che paiono assai seri e affidabili, di scienza pseudoscienza medica e psicologica, pronte a mettere in campo, come fossero certezze, letture in termini di sindromi e di quadri di malattia, con loro catalogazione e etichettatura, giudizi di disfunzionalità, parolina magica che ha sapore di scienza, attribuita a ciò che interiormente scuote, che, anche se scomodo e sofferto, non è senza uno scopo e una appropriatezza e intelligenza nel modo di proporsi, trattato invece come espressione errata, anomala, priva di senso, tutta robaccia da far fuori, di cui sbarazzarsi, a cui trovare rimedio e correzione. Ecco la scienza dell'ignoranza, la scienza della cura che ignora cosa sia la vita interiore, cosa  l'interiorità nel sentire, anche arduo e sofferto, sa e intende dire, la scienza che non cerca di ascoltare e di scoprire, ma che presume di sapere, che pretende di dettare all'interiorità la regola, che poi non è altro che la regola del luogo comune, della difesa a oltranza dell'ordine consueto. Anche le forme di cura che parrebbero le più aperte alla ricerca e alla scoperta, all'indagine e all'ascolto, partendo invece dal presupposto, considerato verità evidente, che non necessita di alcuna verifica, di fatto un a priori saldo e fuori discussione, che ci sia nel malessere il segno di un'alterazione cui va trovata una causa, che avrebbe fatto il danno, che tutt'ora procurerebbe sofferenza, mettono in campo un lavorio di indagine, che con un simile preconcetto, porterà a trovare da qualche parte nella biografia un responsabile, una plausibile causa del presunto disordine, per provare a  metterlo finalmente a tacere, per tentare di risolverlo in quanto tale. Un bell'incastro di preconcetti e di scontati benevoli obiettivi, che in realtà congiurano per respingere, per invalidare e per liquidare come turbamento negativo del presunto sano vivere, come malessere senza altra capacità di dire se non di essere il segno di un guasto, ciò che interiormente di capacità di dire cose importanti e nuove, tutte da imparare a intendere e a capire, ne ha eccome. Così purtroppo va il mondo, sotto l'apparenza del prendersi cura benevolo, sapiente e provvidenziale, finisce per agire la macchina del pregiudizio e dell'imperio dell'ignoranza, che vuole mettersi indosso i panni della scienza. Quando si ha rispetto, quando ci si dà come scopo quello dell'ascolto e della conoscenza del vero, senza  difesa di idee a priori e di interessi preconcetti, quando per propria ricerca interiore si è conosciuto il valore e il senso della vita interiore in tutte le sue espressioni e se ne è compreso lo scopo, si è in grado di dare contributo valido all'incontro fiducioso e al dialogo fecondo dell'altro con la sua interiorità, rispettata e gradualmente compresa nella originalità e nel valore delle sue proposte che, anche se a volte difficili, non sono per questo da silenziare o da correggere e manipolare. E' cosa che purtroppo vasta schiera di curanti non intende e non possiede, avendo paradossalmente la pretesa di dare aiuto, pur senza nulla, per mancati ricerca propria e lavoro su se stessi, conoscere della vita interiore, se non col filtro e con le lenti di teorie e di tecniche studiate e apprese. Che da queste premesse vengano fuori, senza neppure averne consapevolezza, pur con le migliori benevole intenzioni, cure congiura del silenzio e del silenziamento, della manipolazione della vita e della proposta interiore, di cui nulla si sa concepire e dire se non che non giri come dovrebbe,  per saldi principi di luoghi comuni e di teorie varie che, con veste di scienza, nella sostanza li confermano, che tutto questo accada con l'apparenza del dare aiuto, non sorprende. D'altra parte va riconosciuto che  chi cura nella modalità del dare definizione, spiegazioni di cause e di rimedi e soluzioni  a presunta nociva azione, a presunto segno di alterazione e di patologia, attribuiti al malessere interiore, soddisfa le attese principali di chi, investito dal malessere interiore, auspica prima di tutto di mettere a tacere, di trarre sollievo da ciò che, senza tante esitazioni, considera un guasto, un peso doloroso ostile, un ostacolo e una pena di cui liberarsi. Il quadro della congiura del silenzio e del silenziamento e dei suoi partecipanti finisce così per essere completo. Se però, in presenza di malessere e di crisi interiore, si sa rendere riconoscibile una diversa prospettiva, se si sa indicare una diversa strada, quella del dare voce al profondo e del suo ascolto, dell'imparare a comprenderne il linguaggio e la proposta, profondo che col malessere interiore non sta di certo blaterando o procurando molestia e danno, ma che vuole spingere verso la crescita vera, verso la formazione, attraverso un lavoro su se stessi, in unità e con il suo fondamentale apporto, degli strumenti e delle conoscenze necessarie per prendere in mano le guide della propria vita, per non farsi portare e dettare da modelli e da idee prefatte ciò che la propria esperienza e la propria realizzazione dovrebbero perseguire e tradurre e ciò, pretesa la più assurda, che interiormente dovrebbe svolgersi per essere valido, sensato e a norma, le cose possono radicalmente mutare. Con la consapevolezza di ciò che significa per e verso se stesso, con la libertà dunque di scegliere, può esserci, come accade, chi decide di non fare sua la scelta del silenziamento della propria interiorità, ma di percorrere tutt'altra strada.

mercoledì 23 aprile 2025

Il governo della propria vita

E' la questione centrale. Il problema, l'interrogativo di fondo posto dal proprio profondo e che sta all'origine della crisi che movimenta lo stato interiore, del malessere che in varie forme, ognuna significativa per ogni singolo individuo, che l'inconscio genera e alimenta, è proprio questo: cosa governa la propria vita? Su quali basi e seguendo quali guide prende forma e si articola il proprio pensiero e ciò che ne scaturisce come scelte e modi di procedere? Presi dalla foga di far procedere le cose e infastiditi da tutto ciò che pare intralciare la corsa, si trascura e si è molto lontani dall'interesse di aprire una simile riflessione e verifica. Confortati dal pensiero e dagli orientamenti comuni e prevalenti nell'idea che tutto vada bene e che non ci sia necessità e urgenza di capire il senso e il fondamento dei propri convincimenti e intenti, si è pronti a reagire ai richiami interiori, ai segnali di allarme e di crisi, ai vissuti di malcerto e inquieto animo, alle complicazioni interiori che non danno via libera, che anzi azzoppano il solito procedere, come a fastidi, a malaugurati impedimenti, a segni di malfunzionamento da contenere, da mettere a tacere, eventualmente, anche attraverso una psicoterapia ad hoc, da rimettere in riga e da sostituire con adattamenti più consoni e funzionali allo stare in corsa, nella solita corsa e rincorsa. Si crea così o persiste, visto che i richiami interiori durano da tanto tempo, la divergenza tra il punto di vista e l'intenzione profonda dell'inconscio di sollevare la questione di che cosa governi la propria vita e l'atteggiamento della parte conscia che, convinta che tutto vada indiscutibilmente bene nel proprio procedere, che solamente vada cercata l'efficienza o il quieto vivere. I richiami del profondo, i sommovimenti e le complicazioni interiori volte a inceppare la corsa e a renderne tangibili i punti critici, non quelli da oliare per correre meglio, ma quelli di fondo che denunciano un procedere che non sta in piedi, che non si regge su se stessi, che va dietro regole e grammatica che nulla hanno a che fare con ciò che si potrebbe da sè comprendere, avvalorare e porre al centro della propria vita, non sono intesi dalla parte conscia, che anzi è pronta a bollare come segni di inefficienza, se non di patologia, ciò che è lontanissima dal rispettare, dall'ascoltare e dal capire. La mentalità e l'orizzonte angusto della parte conscia, che solamente vuole darsi conferma che tutto va bene e che non va persa l'opportunità di fare centro su obiettivi, che sembrano ovvi e irrinunciabili  al traino di idee e di modelli comuni, si misurano con il ben diverso animo e sguardo della parte profonda che non rinuncia a sollevare la questione di fondo. Cosa sa vedere il proprio profondo e quale sguardo cerca di far condividere dalla parte conscia? Sa vedere che scelte e obiettivi sono sorretti e resi scontati e irrinunciabili dal comune modo di intenderli e di erigerli a mete e traguardi desiderabili e prioritari. I modi di affermare se stessi sono incardinati su modi di intendere ciò che nell'idea comune e prevalente, resa ovvia e assoluta, costituisce prova di essere individui capaci, validi, realizzati. In apparenza si è padroni e arbitri della propria vita e delle scelte che si compiono, ma in realtà si va dietro, si è guidati e regolati da altro, assunto passivamente come schema di valore, come modello di crescita e di realizzazione personale, altro che può contenere varianti, anche quelle antagoniste o oppositive o fuori corrente pricipale, che fa sentire diversi in positivo e più dotati, altro preso comunque in prestito e riprodotto. Pur dentro un movimento passivo, che sia conforme ai modelli prevalenti di merito e di capacità, di buona e felice riuscita della propria vita o che sia invece un movimento in qualche modo alternativo e diverso, ma sempre in aderenza a modelli a pronto uso, pure questi da altro e da altri già concepiti e avvalorati,  poco cambia, riponendo in queste espressioni di sè il fondamento del proprio valore, della fiducia e della stima di se stessi, si ha cara la difesa e la custodia di questa forma di realizzazione della propria vita, di cui ci si considera artefici e protagonisti. L'inconscio però non cede alle apparenze, è la parte di se stessi che ha a cuore la ricerca della verità, che sa vedere ben oltre la superficie e i ritornelli del ragionamento,  perciò ha a cuore di sollevare la questione centrale, la questione del governo della propria vita, di cosa la guidi e la regolamenti per davvero, che è questione di interesse e di peso rilevante, non superflua, non cervellotica, astratta o filosofica. Senza attento riesame e verifica dei propri modi di procedere si rischia di consegnare la propria sorte a qualcosa che ne decide e ne guida e contemporaneamente ne delimita e circoscrive i movimenti, le mete, le prospettive. L'inconscio, la parte intima e profonda del proprio essere, si fa avanti, cerca di rendersi presente, consapevole che senza l'apporto di cui è capace, la parte conscia, molto chiusa su se stessa, in posizione di sufficienza, dissociata dall'intimo che tiene ai margini e non comprende, non può che cercare alimento di idee e di pensiero, di propositi e di aspirazioni, non dentro, ma fuori in altro che ne provvede, che così facendo in definitiva ne governa e dirige lo sguardo, le attese e le prospettive. In condizione di disunione dal proprio intimo prende forza l'esigenza di portare a sè, il bisogno di non perdere la presa su ciò che sembra consentire pronta soluzione alle proprie necessità di crescita e realizzazione, scoraggiando così la possibilità e la necessità di cercare da sè e dentro se stessi le risposte, che richiede lavoro di ricerca e dialogo col proprio intimo e profondo. Definire e afferrare pronte soluzioni, agirle e fruirne diventa la priorità, vissuta come normalità, mentre ogni ipotesi e richiamo a cercare di porre allo specchio e nel proprio sguardo il proprio modo di procedere, a formare con pazienza la conoscenza di se stessi, la scoperta con i propri occhi di ciò che è importante, che ha vero valore per presa di visione e verifica propria, a cercare con attenzione e a dotarsi delle guide della propria vita in unità con la propria interiorità, fondamento di autonomia e libertà vere, altrimenti solo di facciata e illusorie, diventa ipotesi remota, anzi quasi assurda. Il rischio è che nulla si generi da se stessi e in conformità al proprio essere e alle proprie vere potenzialità, nulla sostenuto da proprie ragioni e scoperte. In sostanza il governo della propria vita è ceduto a altro, che della propria vita ne fa copia e riproduzione di un'idea e di un assetto già deciso e consolidato. E' il furto del proprio che non vivrà, del proprio progetto che rimarrà a sè sconosciuto e che sarà affossato per far vivere qualcosa di regolato e concepito da altro preso in prestito, assunto a guida e riprodotto. Generare e creare, formare e coltivare le proprie idee e dare al mondo le proprie risposte, cadranno nel nulla, nel limbo dell'impossibile per cedere il passo all'immediato e a pronto uso, al possibile della cosiddetta realtà, aderendo e consumando le soluzioni già pronte e consuete del così fan tutti e del cercare sempre fuori di sè ogni risorsa e conferma, senza cercarle e portarle a maturazione dentro se stessi. Non essere arbitri della propria vita, pur convinti di esserlo per coscienza frettolosa e chiusa su se stessa, sorda a verifiche, a ricerca del vero, è il motore del portare a compimento un'esistenza, che, pur se a norma e ben confortata da idee e da modelli comuni, non ha nulla a che fare con la propria realizzazione autentica, di cui, in accordo e in unità col proprio intimo non si sono cercat e riconosciuti il volto, le ragioni e le basi vive. E' un rischio di fallimento sostanziale che la parte profonda, a dispetto degli equivoci e delle illusioni della parte conscia, sa riconoscere. Perciò l'inconscio  interviene senza posa per segnalare, attraverso il sentire, nelle forme anche aspre e sofferte, ma sempre mirate e mai scomposte o scriteriate,  oltre che in modo magistrale con i sogni, il volto vero e le implicazioni del proprio modo di procedere, per metterlo in discussione, per  spingere a porlo al centro del proprio sguardo. Mettendo in campo la crisi e il malessere interiore, dando segnali che con decisione vogliono indurre a sostare e a riflettere, a prendere nitida visione di quel si sta facendo di se stessi, per orientarsi e non proseguire ciecamente o con falsa coscienza, per cercare e comprendere finalmente la propria  vera rotta, l'inconscio interviene e non certo per fare danno, ancora meno per alimentare patologia. L'inconscio  spinge a aprire gli occhi, a formare e a generare in piena unità con se stessi, con la propria interiortà, ciò che serve per prendere davvero in mano il governo della propria vita. Imparare a ascoltare, a intendere il linguaggio e la proposta interiore, per farne alimento di pensiero e fonte di crescita vera, per rimettere in mano a se stessi la propria vita, è ciò che serve, è ciò di cui avere cura. E' quasi superfluo osservare come il grosso dell'armamentario di idee e di cure messe in campo per affrontare il malessere interiore, ignori cosa ci sia in gioco, che intervenga, pur persuaso di procurare beneficio e pur ben gradito in questa offerta da chi ci si affida, per rimettere in pista il consueto, contribuendo a tenere e a far tenere ben chiusi gli occhi sul vero significato, sulla capacità propositiva e sulla spinta trasformativa presenti nell'intima sofferenza.

lunedì 21 aprile 2025

L'insicurezza

E' spesso oggetto di preoccupazione, è vista come un deficit cui trovare possibilmente pronto rimedio. Si pensa che sia non solo augurabile ma anche normale non averne. L'insicurezza fa invocare subito il possesso del suo opposto, di una determinazione, di una fiducia in se stessi salda, di una capacità di scelta senza tanti tentennamenti o difficoltà di capire e definire l'obiettivo da perseguire, la cosa da fare. Si vorrebbe essere operativi nel modo più efficace, si vorrebbe essere assistiti e sostenuti da dentro da ben altro che da ciò che pare solo un equipaggiamento interiore scarso e sgangherato. Si vogliono dettare le regole al proprio intimo, facendo appello alla presunta normalità, portando a sè l'esempio degli altri che parrebbero ben più sicuri. Ci si strugge, ci si spazientisce, ci si lagna per la malasorte di essere infelicemente combinati. Si recrimina, si vanno a cercare le cause e le responsabilità in chi, a proprio giudizio, non ha favorito, incoraggiato, alimentato la fiducia in se stessi, in chi anzi l'ha osteggiata, minata, compromessa, in chi non ha dato l’esempio di un approccio fiducioso e sicuro all'esistenza e ha messo in campo troppi timori di sbagliare, in chi viceversa ha proposto come ineludibile un modello inarrivabile, al cui confronto non si poteva che sentirsi e vedersi inadeguati, incapaci, perdenti. Tutto si cerca di spiegare pur di recriminare su quel proprio modo d'essere che pare solo una dotazione sbagliata e fallimentare. L'educazione ricevuta è il principale imputato. Sempre a vedersi oggetto di questa benedetta o maledetta educazione e mai soggetto della propria vita, in grado di scoprire da sè cosa significa questo e quello, cosa valgono davvero e perchè, avvalendosi del proprio sguardo, trovando da sè risposte, traendo da lavoro su di sé e sulla propria esperienza criteri di valutazione e guide, nutrendo da sè la propria crescita, la propria capacità di condursi. Entriamo così nel merito dell'insicurezza, tutt’altro che dotazione malmessa da mettere in conto a cattiva natura o agli apporti esterni manchevoli e distorti, ma segnale onesto e attendibile di ciò che abbiamo portato autonomamente a maturazione, senza farcelo dire e dare. E' il termometro della autonomia sviluppata, coltivata, fatta crescere. Non solo, ma così stupida e da prendere a calci l'insicurezza non è, se segnala che prima dell'agire c'è il pensare, il veder chiaro, il tener conto della necessità di orientarsi, di sintonizzarsi con le incognite presenti, perchè non c'è mai nell'esperienza nulla di scontato se non nella testa che si intestardisce nella pretesa di sapere già. Vanno cercate ogni volta le basi di intesa con se stessi, va rispettata e onorata la necessità di comprendere le ragioni di ogni scelta, le implicazioni presenti, i perchè di ciò che si cerca e che si vorrebbe perseguire. La sicurezza come dispositivo e modo di funzionare a pronto uso, a prescindere e senza tener conto delle necessità che ho detto, è una pretesa discutibile, da fare oggetto di attenta e proficua riflessione. Oggi le tecniche per allenare e irrobustire la forza di determinazione, la fiducia in se stessi con la promessa di fare il proprio bene e di procurare il proprio vantaggio di riuscita, tecniche del rendimento e della prestazione, hanno sempre più largo mercato. Discendono da una mentalità e da una visione dell'uomo appiattito e risolto nella meccanica della prestazione, riducendo le sue aspirazioni alla brama di riuscita, dove la riuscita segue la traiettoria del successo, del perseguimento di ciò che riscuote plauso, consenso e considerazione, che ottiene questo premio. E’ la tanto agognata e ben gradita sicurezza per chi, non certo disposto a riconoscerlo, illuso del contrario, è incline a spingersi avanti eteroguidato, per chi ha gia assunto belle che pronta e come certa la definizione di ciò che va perseguito e dimostrato con merito. L'insicurezza, se ben intesa, può essere, da dentro è frapposta come freno e inciampo per questo scopo, un valido punto di partenza per cercare da sè ciò che si vuole favorire, se la corsa gregaria a inseguire la presunta normalità e il beneficio della riuscita comunemente celebrata come tale o se la propria ricerca di ciò che vale in stretto legame e accordo con se stessi, con la propria interiorità. E' la propria interiorità, è il proprio profondo che onestamente e saggiamente mette in campo l'insicurezza per segnalare il punto critico e nodale su cui riflettere e lavorare, per non perdere la testa, per riconsegnarsi il compito di capire ciò che va garantito e cercato per tutelare e favorire la propria crescita e realizzazione vera. La sicurezza che ha valore, che non si riduce a essere banalmente una posa da mostrare con prove di rendimento già tutte predefinite, la sicurezza che conta davvero come espressione di vera autonomia come capacità di autogoverno della propria vita, può essere solo frutto di attento e tenace lavoro su stessi. Se non si coltiva il proprio terreno non c'è sicurezza che abbia fondamento valido e senso, radice viva e scopo corrispondente a se stessi, a ciò di cui ci si riconosce portatori come individui, a ciò che profondamente si ama, senza questo c’è solo pseudo sicurezza trainata da emulazione di modelli, che si risolve nella ricerca, tanto affannosa quanto ingenua, della buona prova, della bella figura.

sabato 19 aprile 2025

L'ansia e l'inconsistenza dell'essere

Nulla accade interiormente senza un valido motivo, nulla nel sentire, anche il più impervio e spiacevole, si declina in modo casuale, nulla nei propri vissuti è segno di patologia, ma viceversa dice nel modo più appropriato, intelligente e significativo. Il sentire può smentire ciò che si è abituati a pensare, ciò che ci si vorrebbe attribuire e riservare, lo fa per giusto motivo, lo fa per mettere sulla strada di una verità che si è restii a riconoscere. Non c'è paragone tra le convinzioni tenute insieme con la testa razionale e l'acume e lo spirito di ricerca di verità di cui la propria interiorità è capace e portatrice. Eppure l'interiorità è data abitualmente per creatura minore, che si vuole disciplinare e giudicare con non poca sufficienza e supponenza. Si compiono così, in nome dell'ovvio e del buo senso, abusi su questa parte così preziosa di se stessi, cui è attribuito, come fosse scontato, un ruolo minore. E' un luogo comune, che pare sacrosanta verità, che quella del sentire sia roba viscerale, irrazionale, che manca di lucidità, della capacità di lucido giudizio che deterrebbe la mente razionale, dunque una parte di se stessi su cui pare legittimo e necessario esercitare un controllo, una pretesa di egemonia e di comando della parte razionale. La mente razionale, a cui tanto ci si affida, da un lato è (erroneamente) persuasa che le espressioni del sentire siano sostanzialmente  risposte condizionate e conseguenza di stimoli e di circostanze esterne, dall'altro si attribuisce facoltà e diritto di stabilire a priori i confini dentro cui l'esperienza interiore dovrebbe svolgersi, i modi in cui dovrebbe esprimersi per non diventare un meccanismo, così la concepisce, guasto, che devia dalla normalità, che produce qualcosa di anomalo, qualcuno dice di disfunzionale da correggere, fino alla caduta in uno stato definito malattia, con le varie etichette diagnostiche che chiede ai cosiddetti esperti di appiccicarci sopra, come premessa dell'auspicato trattamento. Scatta così un misto di volontà di controllo e di paura crescente, come in presenza di una minaccia interna, di subire uno spiacevole intralcio allo svolgersi regolare della propria vita, accompagnata dal timore di andare incontro a un pericoloso disordine interno, fino all'orrore della caduta nella follia.  Quanta presunzione e quanta rigidità, frutto di docilità ai luoghi comuni, mette in campo la mente razionale, che dall'alto, dall'alto della sua sostanziale ignoranza del significato della vita interiore, pretende di stabilire sul conto dell'interiorità cosa sia e come debba esprimersi, senza conoscerla, senza avere attitudine e capacità di ascolto e di comprensione, senza poter dunque con quei precocetti e con quella  rigidità capire e dire nulla di attendibile! La sola cosa che potrebbe dall'esperienza che fa avere occasione di conoscere, se lo volesse, se imparasse a farlo, ma la mente razionale  è ben lontana dal volerlo e dal saperlo fare, è  portare lo sguardo riflessivo sul proprio agire,  interrogarlo, per vedere e conoscere finalmente qualcosa di vero, di utile e fondato, che è la propria presunzione e completa inaffidabilità sul piano della conoscenza di se stessi, del significato e del valore della vita interiore. E' pretendere troppo da una mente razionale che tutto sa fare, operare, dire, giudicare, fissare principi di normalità, meno che interrogarsi, che mettersi allo specchio per cominciare a capire qualcosa di utile e di sensato. Ma entriamo nel vivo dell'esperienza interiore e di come si propone e di quel che propone. Quando si è carichi soltanto di sostanza umana o che vorrebbe essere tale, presa in prestito e data in appalto nel suo formarsi e consolidarsi al senso comune, a idee e modelli prevalenti, quando si sta ancorati alle parvenze per darsi sicurezza, quando si attribuisce peso rilevante per definire chi si è e cosa del proprio fare e realizzare è segno di valore e di capacità di realizzazione all'essere riconosciuti, convalidati e apprezzati da fuori, può succedere che la parte intima e profonda di se stessi, che non si fa bastare le apparenze, che non contrae vincolo d'affetto e di dipendenza da simili risultati, che non  è dunque disposta a dare loro manforte, lanci un segnale tanto spiacevole e perturbante quanto provvido e intelligente, niente affatto segno di insufficienza e di difettoso funzionamento. Con l'ansia, col senso forte di apprensione, di pericolo, di timore, la propria interiorità punge forte nel punto giusto e in modo ben mirato dice di quanta precarietà e fragilità si dispone in quell'equilibrio, con quella costruzione personale tutta sorretta da fuori, senza base di conoscenza e di scoperta proprie, senza nulla di davvero concepito e generato da sè e in unità  con la parte intima e profonda del proprio essere, che è stata marginalizzata e messa in subordine e dunque non inserita nel pieno del proprio essere e della propria intelligenza, della propria autonoma capacità di conoscere, di capire, di capirsi. Il valore reale di ciò che si è messo insieme e di cui si dispone, la consistenza del proprio essere illusoriamente affidata a altro preso in uso e assunto come riferimento, cui è stato data l'autorità di formare e di orientare la propria visione, di convalidare le proprie scelte e il valore delle proprie produzioni e delle idee che le accompagnano, attraverso uno sguardo attento al vero, scricchiolano, rivelano la fragiltà del costrutto, svelano l'inconsistenza dell'essere così ottenuta, per assenza di autenticità, ancora tutta da ritrovare, da ricomporre, da far vivere nella sua originalità e capacità generativa. L'ansia, il senso di pericolo e di fragilità, il segnale dato forte e chiaro perchè sia raccolto e se ne comprenda l'importanza come spinta a mettere in stato di risveglio la propria consapevolezza, l'ansia che invece si è pronti a trattare e a liquidare come disturbo, come un  patimento visto come sintomo di malattia, casomai attribuito a qualche cattivo condizionamento esterno, a stress, al peso di un trauma patito per tentare con qualche tecnica curativa di metterlo a tacere, per provare a liberarsene come una molestia, quest'ansia allora che cosa è e quanto vale davvero? L'inconsistenza reale dentro l'apparentemente valido, capace e consistente, che ci si è voluti attribuire, è messaggio duro da digerire, ma è segnale di verità e forte richiamo che ha l'intento e la capacità di rimettere sulla strada della conoscenza del vero il proprio pensiero, per consegnare a se stessi la possibilità di interrogarsi e la responsabiltà di decidere cosa offrire a se stessi. Nelle proprie mani a quel punto la scelta se tenersi ancora stretto l'abituale come bagaglio e costrutto validi su cui fare ancora conto o se aprire una stagione di rinnovamento profondo, di costruzione vera e con salde radici e fondamenta, lavorando su di sè, in unità e con l'apporto e la guida del proprio intimo e profondo, che già con l'ansia ha dato prova di quanto è affidabile e intelligente sul terreno della conoscenza e del prendersi buona cura di se stessi. La supponenza della mente razionale, che pretende di bastare a se stessa, di avere la prerogativa di un esercizio di pensiero affidabile e capace, non permette di vedere, sa solo fare da guardiano e da supporto a un assetto della propria vita che la propria interiorità ha forza e lucidità di guardare nel vero e di mettere in discussione. L'apporto, essenziale e decisivo, della propria interiorità, abitualmente non considerata, incompresa e sminuita dalla parte razionale, può invece permettere di aprire gli occhi, di dare forma e sviluppo a un pensiero, a una conoscenza ben fondati. Con la guida e in unità con la propria interiorità è possibile costruire dentro se stessi ciò che è necessario per dare corso e realizzazione autentica alla propria vita. Solo così il proprio essere, non più scisso dalle sue parti e radici profonde, può recuperare il suo volto originale e ritrovare forza generativa e consistenza vera.

venerdì 18 aprile 2025

Raccontarsi

Il modo di raccontarsi, sia che lo si faccia in modo appartato con se stessi, sia che lo si faccia in presenza di altri, è spesso decentrato, finendo così e non per caso per racchiudere non poche forzature e omissioni, per vedere l'impiego di più o meno sottili accomodamenti, il ricorso a manipolazioni, a abbellimenti e trucchi, fino alla creazione di veri e propri artefatti. E' decentrato il racconto di sè che non converge sul nucleo del vero, che non fa perno sui vissuti, sul corso vivo del sentire che dentro l'esperienza è la testimonianza, la voce che non mente, il terreno vivo dove è ben documentato il vero. Il racconto decentrato, svincolato dall'intimo che rivela, dal cuore vivo dell'esperienza, viaggia libero, permette di dire in lungo e in largo a piacimento, di forgiare ciò che con parvenza di essere vero, di fatto è solo verosimile. Che questo racconto simil vero sia tessuto in modo grossolano o fine e ben curato poco cambia, sta di fatto che la convenienza del rimodellamento, vuoi per stupire e attrarre plauso, vuoi per stare al riparo da giudizi negativi, vuoi ancora per darsi conferma in ciò che si gradisce pensare di se stessi, il prezzo del sacrificio del vero è ben e volentieri pagato. Va anche considerato che è tale l'abitudine di tenere lo sguardo in superficie e docilmente al seguito del pensato abituale, che tanto è debitore del pensato comune e prevalente, che scarseggia nel raccontarsi tanto la materia prima del racconto veritiero quanto la sensibilità, il metodo e l'attitudine alla ricerca del vero, al suo rispetto. Di quanto si perda di se stessi e della propria storia, di ciò che racchiude la propria esperienza nel suo intimo vero, che potrebbe dare nutrimento alla conoscenza di stessi e alla propria crescita autentica, non è bilancio e valutazione che prema fare o considerare. Persi dietro alle regole del buon e del bel figurare, vincolati al bisogno di difendere la parvenza di sè cui si è affezionati, cui è data delega di rappresentare il valore personale, su cui si stringe e si riscalda l'amor proprio, non si ha cura di mettere in discussione e di vagliare il peso e le conseguenze delle forzature del racconto che si conduce, forzature che pure non sfuggono al proprio sguardo. Ragioni di forza maggiore, di protezione di immagine e di reputazione ai propri e agli altrui occhi, rendono tutto lecito e ben accetto, l'importante è portare a casa la buona riuscita, la bella figura, la gratificazione del consenso. Le pieghe del racconto possono essere quelle gloriose, sempre a mostrare idoneità e merito di essere all'altezza, capacità di riuscita, oppure quelle del sempre ben accetto vittimismo, dove tutto il negativo, il mancato o il mal riuscito è messo in conto ad altro, dove ciò che conta è essere sempre solo in credito, mai in debito, verso se stessi prima di tutto, di responsabilità da cercare, da evidenziare con cura e onestamente, senza sconti. Maturi si vuole dimostrare di esserlo, ma sempre per impeccabilità, per meriti e per maturità da applausi, per maturità del bell'apparire. Così gira, così si ama far girare il racconto di se stessi. 

mercoledì 16 aprile 2025

La fame di aggiustamenti e di soluzioni

Nel rapporto con l'intimo di sensazioni e di stati d'animo che, quando difficili e non piacevoli, comunque, gioco forza, obbligano a occuparsi e a prendersi cura di se stessi, primeggia la fame di soluzioni che consentano, almeno nelle intenzioni, di metterli a tacere, di superarli e di procedere senza gravami interni, senza intralci. La ricerca di evasione, di tecniche e di modi per provare a prendere distanza, a sminire l'incidenza di sensazioni, di stati d'animo, che risultano spiacevoli, il ricorso a psicofarmaci che spengano l'ansia o che spingano l'umore in direzione opposta a quella che che va in caduta opprimente di fiducia e di interesse, di volontà e capacità di iniziativa ora inceppata o bloccata, la psicoterapia come aiuto per ottenere una capacità di gestione e di controllo sull'intimo così arduo, che produca un aggiustamento comportamentale o che porti a scoprire la presunta causa del presunto guasto e storto sentire, confidando nella risoluzione del malessere, sono le risposte più comuni messe in campo, che tutte convergono nell'idea che ci sia nel malessere interiore un che di anomalo e penalizzante da cui trarsi in salvo, di cui liberarsi. L'insieme del modo di procedere a cui abitualmente ci si affida, del modo di concepire ciò che va perseguito e proseguito non lo si riconosce in discussione, non si accetta che lo sia, è sul malessere che si vuole agire come componente negativa,  come fonte di difficoltà e motivo di intralcio. La ricerca, la fame di soluzioni punta a senso unico a mettere sotto accusa e a togliere di mezzo ciò che interiormente guasta il quieto vivere e compromette il procedere abituale, con l'auspicio di renderlo libero di scorrere, senza restrizioni, senza impedimenti, senza pesi molesti, rendendo in questo modo ancora più salda la persuasione e tenace l'attaccamento al consueto, che rimane fuori verifica, fuori discussione. Che il malessere interiore voglia proprio porre come necessità, come priorità da assumere, tutt'altro che ostile e deleteria, quella di rivisitare il proprio modo di procedere, di condursi, di stare in rapporto con se stessi, spesso di non curarsi del rapporto con l'intimo di se stessi, perchè non è detto che sia a sè favorevole, che sia vantaggiosa la mancanza di consapevolezza, di comprensione di ciò che è quel procedere e delle basi su cui si fonda, di cosa produce realmente, se veramente a favore di se stessi, della propria crescita e capacità di realizzazione personale, tutto questo non è riconosciuto. La tesi, che trova ampio sostegno all'esterno nella mentalità comune oltre che in larga parte dell'apparato delle cure, che il malessere interiore sia una pericolosa e nociva spina nel fianco, espressione di un guasto e di una patologia da curare e risolvere, regna indisturbata, porta a insistere e a persistere come cosa giusta e a sè favorevole nella ricerca di aggiustamenti e di soluzioni, col ricorso a terapie varie vuoi del silenziamento, vuoi del possibile smantellamento dell'ostacolo, del suo superamento, che per non pochi è ricerca di rimedi senza fine. La parte del proprio essere, la parte intima e profonda, che solleva col malessere il forte richiamo alla presa di visione del proprio modo di procedere, che rende cocente e improrogabile la necessità  in proprio favore di un cambio di rotta nel verso  di un avvicinamento alla propria interiorità, per condividere col proprio profondo un lavoro di ricerca e un percorso di presa di visione del vero della propria condizione e di conoscenza di se stessi e delle proprie vere potenzialità, ben oltre i confini di ciò che si è abiutati a attribursi e a concepire, non cede, non recede. Ovviamente il fraintendimento è arma micidiale, micidiale rispetto all'istanza di aprire gli occhi e di comprendere il vero, sempre pronta a intervenire portando, in presenza di un malessere che non recede, che non sparisce, che a tratti ancora preme con forza, argomenti del tipo che la malattia è dura a morire, che si verificano ricadute, tesi che pur considerate scontate e rese ancora più salde da teorie accreditate come scienza, oltre che dalla pratica e dal sapere di non pochi curanti, in realtà stravolgono e mistificano il senso vero delle cose, di ciò che accade nella propria esperienza interiore, nel rapporto con una parte di se stessi, intima e profonda, che non tace, che incalza, che disturba il quieto procedere solito e non certo per fare danno, non certo stupidamente o insensatamente. La fame di soluzioni e di aggiustamenti non procura nutrimento alla propria crescita personale, allo sviluppo della capacità di conoscersi, di capire e di fare proprio il significato vero e il valore di quanto vive dentro se stessi, dà soltanto alimento alla chiusura alla propria interiorità e al consolidamento dei propri preconcetti.

sabato 12 aprile 2025

Simbiosi con altro e fuga da se stessi

Ripropongo, con qualche integrazione, un mio scritto di qualche tempo fa, in cui affronto una questione che considero fondamentale.

Il legame con tutto ciò che, esterno a sè, si presenta come un insieme strutturato e organizzato (la cosiddetta realtà), fruibile come supporto e veicolo d'esperienza, capace di offrire soluzione pronta per ogni necessità, di indicare modelli, percorsi, tappe da seguire per dare risposta a ogni esigenza di soddisfazione e di espressione personale, di crescita e di autorealizzazione, è questione da tenere ben presente per capire la problematica del rapporto con se stessi, con tutto ciò che si propone nell'esperienza interiore. Ho più volte sottolineato nei miei scritti la pericolosità e l’insensatezza di opporre rifiuto preconcetto e di squalificare come insano e deleterio tutto ciò che da dentro se stessi, dal proprio profondo, si impone come disagio interiore. Il rifiuto è ripudio di una parte capace, creativa e intelligente di sè, la squalifica è bocciatura della propria interiorità, che nel sentire, pur doloroso e tormentato, in realtà dice, suggerisce, vuol far comprendere qualcosa di centrale e di decisivo di se stessi, vuole aprire e promuovere processi trasformativi e di crescita importanti, necessari e favorevoli. Ebbene, a spingere fortemente verso una simile intolleranza e fuga dal proprio sentire disagevole e sofferto, con un atteggiamento e con un modo di pensare che sentenzia, dandolo per scontato ed evidente, che si tratterebbe solo di disturbo, se non di malattia, che menoma e danneggia, è proprio il legame di dipendenza dall’esterno, da un insieme vissuto come fonte vitale, capace, in apparenza, di dare risposta pronta a tutto, di offrire essenza, contenuto e senso del vivere. I termini dipendenza e simbiosi parrebbero da destinarsi a situazioni convenzionalmente riconosciute come anomale, ma sono più che appropriati per descrivere la cosiddetta normalità, quando si sappia vedere oltre la superficie e l'apparenza, per riconoscere il vero di un modo di essere e di procedere che, al di là dell’illusione di dire la propria e di affermare se stessi,  si plasma e si muove dentro le pieghe di un legame con altro da sé, di un modo di concepire senso del vivere e del realizzarsi con modelli e soluzioni a pronto uso prendibili da fuori, che indirizzano e regolano tutto, da cui è fatale farsi portare e istruire, dove manchi  guida e fonte generativa propria. Guai in questa condizione, considerata appunto normale, a perdere contatto e legame stretto con l‘esterno, a sentirsi in qualche misura tagliati fuori, ostacolati nel mantenere scambio e presenza nell’insieme dato, guai a limitare o compromettere il contatto con altri individui ritenuti decisivi e fondamentali, guai ad allentare il legame con la realtà esterna! Pare e è temuta come una drammatica perdita di sé. Se da dentro se stessi la propria interiorità col malessere esercita una presa, questa è vissuta prima di tutto come un preoccupante ostacolo, come l'impedimento all’abbraccio col fuori, dove pare ci sia tutto. La presa forte dell’intimo che coinvolge e che trattiene,  certamente non è l'espressione di un pericoloso cedimento, di un guasto o di  una malattia, ma di una decisa e incalzante sollecitazione del profondo all'avvicinamento e al dialogo con se stessi, perchè si esca dalla condizione di passiva adesione a modalità e a scelte di vita non comprese davvero, perchè prima di tutto le si guardi nell'intimo, per avviare scoperta e formazione di idea propria e autonoma attorno alla propria vita ( può rendersi indispensabile un aiuto per formare e per sviluppare questa capacità di rapporto con l'intima esperienza). Viceversa la presa interna di sensazioni difficili e impegnative appare subito come un disturbo, come una pericolosa causa di ritardo rispetto alla corsa comune, come un rischio di deriva e di caduta nell’abisso del niente. A dare salda adesione a un legame a senso unico con l’esterno, sorretto da una concezione della vita e della realtà, ampiamente condivisa, che nella connessione con l'esterno avrebbero il loro fondamento indiscusso, concezione che non riconosce l'importanza del legame con l'intimo di sé, che non gli riconosce di essere il vero cardine della vita e  la fonte del pensiero necessario per capire la propria esperienza, per capirsi, a dare convalida e manforte a tutto ciò è l'idea che ciò che succede nel proprio sentire sia soltanto l'eco e la conseguenza dell'agire di cause esterne. Non è riconosciuta la vita interiore come espressione del rapporto con se stessi, della presenza non passiva della parte intima e profonda di se stessi che interviene, che dice, che porta richiami, che segnala, che vuole coinvolgere l’altra parte di sé, dentro cui si pongono in genere i confini del proprio essere, la parte conscia in una attenta riflessione e verifica di ciò che si sta facendo di se stessi, del modo in cui ci si sta conducendo. L’interiorità è ai propri occhi, ben orientati da mentalità comune, solo una funzione passiva, di ricezione di ciò che proviene da fuori, una cassa di risonanza di ciò accade nell’interazione con l’esterno. Non si riconosce al proprio intimo, alla propria interiorità che questa funzione, a proprio giudizio non esiste altro, ciò che vive nel proprio intimo, nel proprio sentire è considerato solo una reazione riflessa, condizionata, ai fattori esterni, reazione che, quando il malessere si acuisce e insiste, mostra solo un difetto di funzionamento e di capacità di adattamento, una esagerata reattività, un modo anomalo e dunque pericolosamente alterato di funzionare.  Fa eco e dà conforto a questa idea circa ciò che di difficile e sofferto vive dentro se stessi presente nella psicologia comune, larga parte della psicologia professionale, come ad esempio la psicologia di impronta cognitivo comportamentale, oggi assai diffusa, che parla di risposte disfunzionali. Tutto dunque in onore di quel principio, di quell'idea che si esiste bene o male, in modo sano o malato, valido o stentato, nella connessione con l'esterno, nella simbiosi con altro, dove l'interiorità è chiamata solo a non dare noia e a funzionare efficacemente, a assecondare quei processi di vita, di vita dipendente, simbiotica, a farlo ordinatamente e docilmente, senza anomale risposte. Esiste, è considerato vivo e reale solo il rapporto con l’esterno, la vita interiore è solo un’appendice e un’eco del rapporto con l’esterno, con gli altri, non è riconosciuto il rapporto con l’intimo di se stessi, con la propria interiorità come realtà viva e da coltivare. Simile visione della propria interiorità, del ruolo che le spetterebbe, del vincolo in cui la si vuole fare stare e forzatamente far rientrare quando, dando segnali impegnativi e proponendo malessere insistito, a proprio giudizio sgarrerebbe, se da un lato è conseguenza di una abituale lontananza da sé, di ignoranza del significato della propria vita interiore e della presenza e del ruolo rilevante della parte profonda della propria psiche nel determinarla, di mancanza di familiarità con l'ascolto e col dialogo interiore, per nulla considerati centrali e essenziali per conoscersi e ritrovarsi, per trovare le guide per capirsi e per capire la propria esperienza, dall'altro questa visione così rigida e imperante che umilia e non comprende l’origine e il significato vero e il valore della propria esperienza interiore, del proprio sentire, è certamente alimentata, esasperata dall’angoscia di perdere la continuità del contatto e dello scambio con ciò che, esterno a sè, da troppo tempo è vissuto come il riferimento fondamentale, come l’habitat naturale, come l'alimento vitale unico e insostituibile. Il vincolo a se stessi, reso obbligato e stringente dal malessere interiore, è vissuto come rischio di uscita dal reale, come pericoloso fattore di isolamento e di privazione, quasi di sradicamento, senza speranza e senza promessa. E’ decisamente un paradosso. Andare verso se stessi è in realtà il primo, necessario movimento vitale, per congiungersi a sé, per trovare la propria "terra", per ritrovare fondamento e radici, per cominciare davvero a vedere con i propri occhi, a comprendere per intimo sentire, per orientarsi. Ben sostenuti da un profondo che dà e che dice, come mirabilmente il proprio inconscio sa fare con i sogni, oltre che col sentire (serve però un aiuto per comprendere e scoprire tutto questo), in questo incontro con la propria interiorità si potrebbe finalmente riconoscere se stessi, non per ciò che è riconoscibile dagli altri, non per ciò che può rendere adeguati o validi ai loro occhi, ma per ciò che si è davvero, per ciò che si prova, per ciò da cui si è mossi e che vive dentro sè. Andare verso se stessi significherebbe cominciare a ritrovarsi, uscendo dalla condizione di sconosciuti a se stessi, spesso impegnati in un movimento ritenuto tanto normale quanto nella sostanza sterile e insensato, paghi solo di non esser da meno d’altri o fuori dai circuiti comuni d'esperienza. L'incontro con se stessi potrebbe avviare un percorso di presa di coscienza e di sviluppo di pensiero, che da semplici consumatori di una vita già pensata e fruibile nelle forme date, potrebbe rendere protagonisti e artefici di comprensione propria dei significati, di scoperta di ciò che per sè vale e del suo perchè, di progetto autonomo. Tutto va però formato e sviluppato, cosa che nella modalità solita di procedere, dove tutto è immediatamente fruibile e traducibile, è una sorta di novità incomprensibile, se non di anomalia. Per andar dietro, per sintonizzarsi col senso comune e con idee già in uso, per farsi condurre, confermare e dare convalide esterne, ci vuol solo spirito adattivo e gregario, non importa se in apparenza, camuffato da illusorio possesso di spirito critico e di autonomia, spesso solo di facciata e inconsistenti. Per formare visione e conoscenza proprie, per dare forma sentita, coerente con se stessi, alla propria vita, per generare il proprio, per farlo crescere, con soddisfazione nuova e profonda, serve ben altro, è necessario un lavoro, una ricerca personale, prima di tutto è necessario convergere verso se stessi, imparare ad ascoltarsi, a cercare nell'intimo del proprio sentire le guide per capirsi, per capire. Capita invece, succede frequentemente, che anzichè riconoscere nell'esperienza della stretta interiore, del malessere vivo, la possibilità e la necessità non rinviabile di incontro con se stessi, il richiamo a una verifica approfondita, anzichè proporsi come priorità l'ascolto e la comprensione di sè, si respinga  fermamente, si squalifichi disinvoltamente (prendendo per oro colato l'equazione: doloroso= sfavorevole e dannoso) ogni pungolo e richiamo che venga dall'interno, perchè difficile e sofferto, perchè discordante dalle attese e scomodo, a prendere contatto con se stessi, a iniziare a interrogarsi nel vivo, a ritrovarsi davvero. Ben connessi con l'esterno e disconnessi da sè, in fuga, pur senza ammetterlo, da ogni tentativo di veder chiaro e puntuale, di capire davvero cosa si sta facendo, paghi di definizioni e di perché convenzionali, di spiegazioni arrangiate, anzi, in non pochi casi, con la clausola, benedetta da mentalità corrente, che saper vivere significa saper stare a mezz'aria (spensieratezza, leggerezza, non dar peso…), alla fin fine ci si adatta alla passività dell'andar dietro, alla provvisorietà, all’indecifrabilità del proprio essere, incuranti di sapere, compiaciuti di rinviare, di tener lontana la verifica, di sopire la preoccupazione di trovare il filo vero ed unitario del proprio procedere e fare. In questo modo di procedere ciò che conta non è prendere davvero in mano la propria vita, che richiede fermarsi per entrare in contatto, in ascolto e in sintonia con la propria interiorità, sia per vedere nitidamente, con coraggio e sincerità, il vero della propria condizione attuale, sia per comprendere della propria vita il significato e lo scopo autentico come profondamente concepito, desiderato, voluto. Tutto questo è fuori dal proprio sguardo e dalle proprie mire, perchè sembra bastare ciò che si conosce o che ci si illude di conoscere di se stessi e del significato della propria esperienza, perchè ciò che conta e urge è non perdere contatto con altro, è non intralciare l'andar avanti tra una cosa e l'altra, legati a questo o a quello, è non incontrare ostacolo o ritardo nell'inseguimento di una cosa o dell'altra, su cui esercitare o mantenere la presa. Nella condizione di simbiosi con altro da sè, in cui, scontatamente, quasi automaticamente, ci si fa dare da altro un che di essenziale, di vitalmente necessario, fatalmente ci si lega a questo altro, consegnandogli il proprio apporto vitale di tempo, di energie e di dedizione, per confermarlo e per tenerlo in vita, facendo di tutto, questa è la simbiosi, per continuare a far vivere ciò da cui si vuole continuare a trarre vita, una vita in prestito, non propria e originata da sé, ma poco importa, l’equivoco tra ciò che è autenticamente proprio e ciò che non lo è persiste forte e tenace. In questa condizione non si sa e non si vuol vedere con chiarezza cosa sta accadendo, ci si persuade che tutto è normale, facendo conto su esempio e credo comune, su comune andazzo. Tutto è normale e l'interiorità che stacca, che col malessere complica, che vorrebbe far vedere chiaro, è giudicata subito l'anomalia da mettere a tacere. La simbiosi con altro da sè, sia che questo altro sia cosa, mentalità, abitudine o persona, una o più, elette a riferimento o a ragione di vita, è continuamente confermata come condizione di vita irrinunciabile e sana, con tutta la consacrazione fatta dal pensiero comune, che per esempio incoraggia e premia l'attaccamento alla "realtà", che stigmatizza ogni movimento di ripiegamento, di avvicinamento a sè, a meno che non sia fugace e finalizzato al pronto rientro nell'insieme.  Non da meno la simbiosi è sostenuta e prontamente rinvigorita dall’apparato di sostegno delle stesse cure di non pochi curanti, che non smentiscono certo l’idea che prima di tutto bisogna scacciare la crisi interiore, staccare dal dentro, per rinsaldare i legami col fuori. L’invito a spensierarsi, a dar peso e valore esclusivo a quel che c’è, ai legami con altri e con altro, a rinsaldarli, a renderli motivanti o rimotivanti per riprendersi, a leggere il malessere interiore solo in dipendenza e in funzione d'altro, l’aggiunta di droghe (psicofarmaci) per metter ordine, per tentare di zittire l’ansia e ogni altro fastidioso sentire, per ripristinare l’ordinato "sano" procedere libero da richiami interiori, sono il contributo curativo all’andar via da sé. Sono la riconferma della fatalità, dell'ovvietà della simbiosi con l’esterno, con altro, che già scontatamente darebbe volto, contenuto e definizione alla propria vita, senza necessità di capire nulla, senza possibilità di cambiare nulla, di scoprire e di generare nulla di diverso, di aprire nuove strade, originali e conformi a se stessi.

giovedì 10 aprile 2025

Le paure e le cantonate

Le paure che si pongono in mezzo al proprio cammino sembrano un inconveniente, una limitazione, uno spiacevole intralcio. Talora sono prepotenti, non concedono di essere ignorate, di passare oltre. Se, come spesso capita, l'auspicio è quello di liberarsene e l'obiettivo è considerato di beneficio ovvio, i mezzi per provarci non mancano. C'è chi predica che le paure vanno sfidate e superate, che non bisogna indietreggiare, che bisogna combatterle perchè altrimenti ingigantiscono, diventano una barriera ancora più forte. C’è chi dice che viceversa non bisogna dare loro peso, che il più possibile vanno ignorate, aggirate. Ci sono proposte d'aiuto psicologico che vorrebbero aiutare a tenere sotto controllo e poi a smontare e a abbattere le paure, giudicate, in buon accordo con l’idea comune e con le attese di chi cerca aiuto, irrazionali, senza valido motivo, dannose e disfunzionali, con l'obiettivo di dare spazio a quello che è giudicato un più sano modo di reagire, il tutto volto a favorire un più efficace e disinvolto procedere. Tutto pare buono e convincente, ma il rischio di prendere cantonate è assai elevato. Se le paure, anzichè essere reazioni emotive immotivate, abnormi e stupidi intralci fossero invece stimoli e proposte intelligenti, se intervenissero accortamente per segnalare un problema, per favorire sviluppi assolutamente nuovi e importanti, che non coincidono con la ripresa fluida, senza freni e paure, del movimento solito, ma con la presa in considerazione di ben altro di cui è importante prendere consapevolezza, ecco che l'intervento riparatore a mettere il più possibile a tacere le paure, superarle rischierebbe di rivelarsi tutt'altro che benefico e corrispondente ai propri interessi. La visione che spesso si ha di se stessi cui la stessa terapia, che sia farmacologica o psicologica, in non pochi casi dà conferma rendendola scontata, poggia sulla persuasione di essere inseriti in un modo di procedere valido, normale, cioè a norma di ciò che pare valido per idea e prassi comune e perciò fuori discussione, modo che va solo favorito, rendendolo casomai più efficace e soprattutto libero da intralci, giudicati disturbo e anomalia da correggere, perché non rechino danno. Ma capire cosa si sta facendo di se stessi e verificare se nel  modo di condursi ci si sta davvero facendo fedeli interpreti di se stessi, se in ciò che si fa e per cui ci si spende si sta favorendo la propria autentica realizzazione o viceversa, correndo dietro e assecondando altro a cui si chiede e concede la guida e la direzione delle proprie scelte, si sta deviando dai propri veri scopi, è interesse e questione  non di poco conto, anche se non al centro delle proprie attenzioni e preoccupazioni abituali. Capita che la necessità, non tanto di proseguire senza ostacoli la corsa, ma di aprire gli occhi, di imparare a riflettere, che non significa imbastire qualche ragionamento, ma guardare in volto ciò che si sta facendo e perseguendo, prendendo visione nitida e trasparente, senza trucchi e false attribuzioni di significato, senza letture di comodo e deformanti il vero, di ciò che si sta facendo di e verso se stessi, di ciò da cui si è mossi nelle proprie scelte e modi di porsi, con quali perchè e per quali scopi, sia ampiamente trascurata e neanche intesa come importante. Rimettere in corsa il solito, dove ci fossero intralci, freni o paure, tutte squalificate come disturbi e anomalie da controllare e possibilmente da mettere a tacere, è la priorità riconosciuta, condurre una verifica attenta e approfondita è invece necessità non riconosciuta. In realtà ne va della propria sorte, dare privilegio alla verifica non è un di più, un che di troppo e un sovraccarico inutile.  Accade però che di questa necessità della verifica attenta, perché ci sono rischi di proseguire non felicemente in accordo con se stessi, più in linea con modelli e aspirazioni comuni che con ciò che dentro se stessi vuole rendersi riconoscibile come scoperta autonoma di significati e di valori, fondamento e leva di passione e di propositi di realizzazione originali, che rischiano  di  non essere coltivati, dunque di rimanere sepolti, incompresi  e incompiuti, nella foga e tenacia di difendere e di  far vivere ciò che è più in coerenza e in accordo con altro, con la mentalità e la pratica più comune, che con se stessi, di tutto questo, che, come detto, non è questione da poco, accade che sia proprio la parte profonda a farsi interprete e voce. Accade allora che le paure messe in campo dal profondo, paure dunque di origine interna e profonda, niente affatto dettate o condizionate dall’ambiente, dall'educazione ricevuta, da cattiva abitudine o da altro, siano richiami e forti stimoli a aprire gli occhi, assolutamente intelligenti, espressione di una intelligenza, che risiede nel proprio inconscio, che  è ben altra e che sa vedere ben oltre ciò che col ragionamento si è inclini a considerare e si è capaci di intendere. Potremmo dire che la paura spiazza la mente razionale, perchè sposta l’attenzione in una direzione insolita e ben diversa da quella a cui si rivolge il consueto modo di pensare, di pensarsi.  Parla fuori dalla logica abituale, ma non per questo ciò che propone e sollecita, il modo in cui lo fa è illogico e senza senso, privo di valido motivo e significato. E’ la mente razionale, di cui la parte conscia tanto si fida e a cui si affida, che ha visione ristretta e intende e concepisce valido e attendibile solo ciò che sta nei suoi circuiti di pensiero abituali, ben confortati dal pensare comune. Vediamo un esempio. Se la paura che insorge nello stare in luoghi aperti o affollati volesse interferire e mettere in crisi e in discussione la tendenza e l’opzione solita di cercare tutto fuori,  bloccando e rendendo insostenibile la tendenza a  mettere sempre in primo piano la ricerca di opportunità e di vita  nello stare in connessione e in unità con gli altri, per indurre a ripiegare su di sé per entrare in una diversa dimensione, quella raccolta e appartata dell'incontro con se stessi, dell'ascolto della propria interiorità, dove tanto o tutto di sè possa essere finalmente compreso e scoperto, coltivato e fatto nascere e crescere, per non condurre avanti una vita guidata e indirizzata da altro, senza contenuto e progetto propri, quanta insensatezza e mancanza di valido motivo ci sarebbe in questa paura?  Se, in risposta a questa paura, certamente non piacevole in prima battuta, ma tutt’altro che assurda e contraria ai propri interessi più veri, lo scopo che ci si dà fosse, come spesso accade, di superare e vincere la paura, giudicata e prontamente liquidata come un impedimento, come un fattore ostile ai propri interessi, come un segno di eccessivo timore, di insicurezza cui porre e opporre rimedio, il rischio di prendere una cantonata e di procurarsi più danno che utile sarebbe forte e sonoro. Bisogna stare attenti a come ci si rapporta a ciò che vive dentro se stessi. Le paure sono una espressione della propria vita interiore, i cui svolgimenti non sono la risultante meccanica dell'agire di fattori e stimoli esterni e di schemi appresi e abitudini e punto, ma sono orientati e alimentati da una parte profonda, che sa quel che vuole, che, compensando la miopia della parte conscia, sa premere con l'arma del sentire per indirizzare le cose in una direzione non certo sciagurata. Purtroppo l'ignoranza, non poco diffusa, del significato della vita interiore, del suo linguaggio, delle sue espressioni, della presenza rilevante del profondo, del ruolo decisivo dell'inconscio nell'indirizzare la vicenda interiore, del contributo fondamentale e imprescindibile che può dare, dove si impari a ascoltarlo nei vissuti e nei sogni, alla conoscenza di se stessi e alla conquista della propria autonomia e della capacità di realizzazione autentica e non a rimorchio e a copia d’altro, conquista di cui è continuamente stimolo e promotore, fa sì che si possano prendere decisioni sul conto di esperienze interiori, anche molto difficili, ma significative, come le paure, decisioni che paiono di validità e di bontà scontate, sorrette da ragioni che paiono ovvie e inconfutabili, ma che rischiano di essere vere e proprie cantonate, con conseguenze affatto favorevoli a se stessi e alle possibilità di crescita personale vera. Spazzare via una paura, perlomeno dirigere gli sforzi in questa direzione, può comportare rimanere sordi al richiamo profondo, che interferisce per aprire nuove possibilità, privandosi della occasione di intenderle e di coglierle, di arricchirsi di ciò che potrebbe nascere da lì. Apparentemente, abbattendo la paura come ostacolo o come limite, si crede di darsi più libertà e ampiezza di respiro, in realtà si rischia di menomarsi, vincolandosi ancora più strettamente all'unica idea e prospettiva di vita e di modo di procedere conosciuto, non necessariamente corrispondente al proprio potenziale umano.

domenica 6 aprile 2025

L'impazienza

L'impazienza è un atteggiamento ricorrente verso i quesiti e le problematiche della propria vita. E' comprensibile che questo accada, perchè in un modo di procedere, assai frequente, in qualche modo già direzionato e con chiare istruzioni e definite, tratte da mentalità, da modelli  e da esempi  comuni e prevalenti, circa i contenuti, i significati, le mete e gli svolgimenti possibili e attesi, scatta imperiosa la necessità della pronta risoluzione nel chiarimento e nella risposta. Non c'è spazio per la ricerca, il senso della vita non è trarre da sè, da presa di visione e da verifica propria, comprendendole fin dall'origine e dalla radice, le risposte, viceversa c'è l'impazienza di arrivare alla risoluzione del chiarimento, che in qualche modo si dà per prontamente afferrabile, perchè ritenuto già concepito e scritto, perciò alla portata di una presa veloce. Domina l'impazienza, si impone l'esigenza di non indugiare, per non accusare un ritardo nella soluzione, vissuto come un difetto di capacità. Di fronte al quesito e al frangente difficile, compiendo qualche rapida operazione mentale di ragionamento, il proposito prevalente è quello di risolvere, di venire a capo e non ha spazio, nè di legittimazione nè di credibilità, l'esitazione, l'attesa necessaria per garantirsi la possibilità della scoperta su basi di fondata presa di visione, lavorando e traendo fondamento dalla propria esperienza, cercando guida nel proprio sentire, cosa che necessariamente richiede tempo e un percorso di scoperta e di verifica autonoma da compiere. Urge e è considerata prova di adeguatezza e di intelligenza la capacità di sistemare velocemente la comprensione, compito cui la mente razionale è ben disposta e pronta. La mente razionale ha ben immagazzinato e digerito le attribuzioni di significato, il codice dei significati, le concatenazioni logiche, le regole di coerenza e compatibilità del manuale del senso comune e convenzionale, è pronta a farne uso e a ricombinarle,  traendo da lì per deduzione i chiarimenti, le risposte. Con una più o meno buona dotazione di intelligenza artificiale la mente razionale produce i suoi risultati e si compiace della prontezza di esecuzione delle sue operazioni mentali, dispiacendosi di sè, come fosse prova di scarsa intelligenza, quando non è pronta nell'afferrare la conoscenza. Ho parlato di intelligenza artificiale, perchè altrimenti non si può dire di processi di pensiero che, senza guida nel vissuto, non orientati nella loro formazione e sviluppo da ciò che il sentire sa consegnare per aprire lo sguardo, per entrare nell'intimo vero della propria esperienza, non possono che rigirare il già concepito e pensato,  avvalendosi di una sorta di programma incorporato messo in esecuzione. Che bisogno c'è di aprire gli occhi, di riaprirli ogni volta alla scoperta di ciò che originale e sempre diverso è presente e si propone nella propria esperienza, quando pare che tutto sia già a portata di mano e di spiegazione? L'impazienza è fatale in un assetto della propria vita in cui, viaggiando ben disuniti dal proprio intimo, si è già predisposti a mettere in atto e in uso procedimenti di pensiero pressochè automatici, sulla falsa riga e ben dentro il registro del pensato comune, ripreso, rimasticato e da parte propria più o meno affinato. La testa si affanna a trovare pronte risposte operando là per aria, ben dissociata e senza saldo appoggio sul terreno vivo del proprio sentire, che solo può far mettere piedi a terra e condurre alla scoperta del vero, sentire non certo riconosciuto in questo suo valore e funzione essenziale per ritrovarsi e per capirsi, bensì trattato con sufficienza, dall'alto in basso, come una appendice del proprio essere poco utile e non valida per la conoscenza. Poco importa che le risposte così prodotte dalla testa razionale in nulla rispettino e rispecchino, che non concordino col proprio intimo vero, che perciò risultino spiantate e fuorvianti, infelicemente discordi da sè, dalle proprie vere necessità, potenzialità realizzative e interessi, tutto ciò passa via ignorato, ciò che persuade è che siano rese valide dal buon accordo e dal sostegno del pensato comune. Dove invece si crea il contatto e si ricerca l'unità dialogica  col proprio intimo, l'orizzonte muta, diventa necessario, oltre che appassionante, scoprire ogni cosa in unità con la propria interiorità, cercando le proprie risposte e ben fondate sulla propria esperienza e capacità di visione. Senza impazienza in questo caso, perchè per vedere da sè, per esplorare la vita, senza corsa cieca e impazienza risolutiva, senza smania di dare prova di essere bravi e all'altezza nel paragone con altri,  serve attenzione, pazienza e desiderio autentico di conoscenza. Diversamente la vita, la propria vita diventa una partita da giocare con regole date da rispettare, dentro cui caricarsi di aspirazione e trarre soddisfazione nel dare prova di prestanza e di buona e valida capacità di funzionamento. Con la persuasione che tutto sia già ben definito e che quello preso in prestito e a riferimento da mentalità e da prassi comune sia il luogo reale e realistico in cui darsi da fare, in cui spendersi per giocare la partita della propria vita, si finisce per andare via da sè, dimentichi di se stessi e dell'aspirazione a trarre da sè le ragioni, la scoperta del senso e degli scopi della propria vita.

domenica 30 marzo 2025

La timidezza: difetto e limite da superare ?

La timidezza è vissuta spesso come un carico ingrato, come un intralcio, come una cattiva disposizione di natura, che ostacolerebbe, che metterebbe a rischio la possibilità di esprimersi al meglio e di cogliere pienamente le opportunità del vivere. Un fattore di svantaggio dunque in una lettura a senso unico, tant'è che l'auspicio più diffuso è di superarla, come se il superamento della timidezza segnasse un passaggio di crescita, una conquista. La timidezza è infatti spesso motivo di autosvalutazione, come se  equivalesse a un non pieno e adeguato sviluppo, maturazione. C'è la convinzione che sia un segno di minor forza, di acerba insicurezza e per questo è facilmente motivo di minore e compromessa autostima in chi porta dentro se stesso questa impronta del sentire. In realtà, dove non ci si lasci dettare legge e chiudere lo sguardo da una concezione, tutta a rimorchio dei luoghi comuni, dei gusti e delle stime di valore più diffuse e prevalenti, che se fanno statistica non fanno per questo scienza e verità, che premia come qualità ideali estroversione, sicurezza e disinvoltura, facilità di contatto e scioltezza di parola, simpatia e solarità e altra pappa simile (pronta da mandare giù, senza necessità di capire), concezione che implicitamente e che anche manifestamente svaluta e boccia come inadeguate tutte le espressioni diverse, come la timidezza,  che non vanno in quella direzione ritenuta ideale, si può riconoscere nel proprio sentire con impronta di timidezza ben altro da ciò che dettano i pregiudizi comuni e personali. La timidezza ha l'intento e la capacità di segnalare, il segnale arriva da dentro se stessi forte e chiaro, che c'è soggezione al giudizio e alla valutazione dell'autorità esterna, allo sguardo altrui, che c'è dipendenza, l'inclinazione cioè a farsi dire ciò che vale e che va manifestato di sè, a assecondarlo per portare a sè conferma e sostegno di approvazione, a rincorrere come validi i modelli esterni, a temere di incorrere nella cattiva resa e figura. La timidezza vuole dunque dare indicazione calda e cocente, stimolo forte e insistito a tenere conto di questa presa e vincolo dipendente, di questa consegna di se stessi così forte all'autorità esterna, per prenderne visione, per lavorarci sopra. Il vissuto di timidezza dà segnali mirati, sapientemente mette all'ordine del giorno, indirizza la ricerca su qualcosa di centrale, su un nodo decisivo. Nello stesso tempo il vissuto di timidezza rende l'esperienza del timore reverenziale, del piegarsi  a quell'autorità del giudizio e dello sguardo altrui, sofferta, dolorosa, sempre incalzante in presenza di altri. Lo sottolinea mostrando quanto è forte la necessità di proteggersi, di darsi riparo. Vale la pena di aprire qui una riflessione sul rapporto col sentire, riflessione che più volte è rilanciata nei miei scritti. Nella attenta riscoperta di ciò che la timidezza sa dire e suggerire come base e terreno vivo di scoperta, di presa di coscienza, emerge il valore del rapporto col proprio sentire in tutte le sue espressioni naturali, spontanee, anche le meno gradite. Il sentire è risorsa essenziale da non trascurare e da valorizzare, sentire che invece, anzichè essere attentamente e fedelmente ascoltato, abitualmente, soprattutto se ha parvenza di non essere conforme a ciò che è più atteso e gradito, è tirato per i capelli, giudicato sbrigativamente, tenuto sotto custodia e controllo, reso oggetto di commento, di manipolazioni e di pretese. Il nostro sentire è la nostra interiorità che intelligentemente ci interroga, ci dice, non comprendere questo significa ridurre in modo netto, compromettere le nostre possibilità di presa di visione e di pensiero, rimanendo in balia della iniziativa del pensiero razionale, che, da solo e dissociato dal sentire, offre solo illusorie spiegazioni valide e chiarimenti, in realtà già incanalati nel pensato consueto, nel preso in prestito da fuori, da idee comuni e prevalenti, quelle che appunto, come dicevo prima, fanno rapida giustizia sommaria della timidezza, che, trattata come ostacolo e insufficienza, è radicalmente travisata e bistrattata, quando in verità ha ben altro valore e capacità di dire. Ma torniamo a guardare con attenzione e senza preconcetti dentro l'esperienza del sentire timido, per farci mostrare cosa rivela. E' un sentire, quello della timidezza, cui si accompagna spesso senso di inadeguatezza, di infelice realizzazione, che rischia di essere predominante, anche se a ben vedere non è  univoco ciò che dice l'esperienza viva della timidezza. Se infatti l'aspirazione a non essere come naturalmente e spontaneamente si è e si sente nel proprio della timidezza, pare di indiscutibile validità, vedendo in altri, a differenza e paragone con se stessi, i campioni da imitare, invidiati quando appaiono liberi da freni e da ritrosie, quando sciolti e disinvolti, con l'apparenza di chi sa vivere e prendersi il meglio delle occasioni di ben figurare, emergere e afferrare gioie e soddisfazioni, nello stesso tempo assieme a una simile aspirazione c'è la sensazione, adottando quel metro e premendo su di sè per ottenere quelle stesse espressioni e prestazioni, di imporre a se stessi un che di forzato e coercitivo, che obbliga a andare contro il corso e la corrente naturale, a assumere altro, a dover indossare altri panni, a camuffarsi, a nascondere l'originale, a averne vergogna oltre che ripudio. La timidezza, assieme a soggezione e a timore dell'altrui giudizio, preso a regola e a arbitro della propria vita, è forza di legame con se stessi, anche se in contemporanea a marcata spinta a dissociarsi, a prendere le distanze da sè, a assumere altro come nuova e diversa uniforme da indossare, addirittura come diverso stampo del proprio essere, cui aderire e dentro cui riplasmarsi fino nell'intimo. La spinta a inseguire e a farsi dettare come essere e nello stesso tempo la sensazione di forzare, di plagiare se stessi, la percezione che c'è un vincolo di natura che, per quanto lo si voglia superare, non mostra certo di cedere e svanire facilmente, è la consegna della timidezza. Insomma nella timidezza c'è il segnale della soggezione dipendente, della spinta a dare prova e a superarsi per assecondare le pretese dell'autorità esterna per averne in cambio convalida e per far proprie le sue promesse e contemporaneamente c'è la percezione acuta del suo essere una pretesa in contrasto e in strappo da sè. Anche se oscurate e stravolte le ragioni del vincolo a se stessi, perchè la chiave di lettura è quella che, in adesione al pensato più comune, vede deficit e mancanza di espressioni ritenute valide e garanti del proprio buon rendimento, del proprio saper vivere e del possesso di capacità e qualità adeguate, in realtà, a starci attenti nelle mosse del sentire timido c'è tutt'altro che insipienza, inettitudine e incapacità. Se la timidezza ad esempio non consente pronta espressione di parola, tanto cercata pur di riuscire a dire, per paura di apparire altrimenti vuoti, è perchè la parola, se vuole essere portatrice di senso, deve fondarsi su qualcosa che intimamente avvicinato e compreso (questo ha i suoi tempi e i suoi perchè, non può avvenire a comando), consente di dire, può dare motivo e persuasione di dire qualcosa che ha un senso e che ha senso comunicare, per non parlare a vanvera o inventare discorsi modellando il dire in accordo, per i contenuti e per la forma, con ciò che l'interlocutore può apprezzare. La timidezza non consente espansività e quant'altro è considerato espressione di buona disposizione d'animo, di cordialità, di sentimenti o presunti tali ben impostati e modellati su tutto ciò che è considerato valido, gradito e ottimale, perchè i sentimenti non si inventano, non si recitano, non si vendono e non si mercanteggiano, devono pur avere una radice vera, un fondamento e essere legati a qualcosa che è maturato dentro e in concordanza piena con se stessi, che ha ragion d'essere valida e sincera. La timidezza fa valere le ragioni dell'autentico, di ciò che ha fondamento vero, che non è un artefatto. Ho scritto di recente sull'argomento dell'originale e dell'artefatto. La timidezza è terreno di incontro, di scontro tra le ragioni dell'autentico, di ciò che originalmente, traendo linfa e origine dentro sè, vuole formarsi e vivere e le ragioni dell'artefatto. Una cosa è spendersi per dare buona prova, per simulare ciò che piace, una cosa è apparecchiare, mettere in tavola, riprodurre ciò che è concepito come buono e di valore e degno di buona considerazione, altra cosa è cercare dentro sè le ragioni, le basi, le radici di espressioni umane non messe su artificialmente, ma cariche di vero, di autentico, di consapevole. Tutt'altro che un'espressione deficitaria, c'è un principio di salute e di saggezza nel corpo vivo della timidezza, anche se mescolata e in tensione con la pretesa di dare buona prova, che cerca di spargere diffidenza e discredito su ciò che nella timidezza segna un vincolo tutt'altro che insano e sgangherato con le ragioni dell'autentico e del rispetto per ciò che è intimo, che intimamente si fa valere. Se si impara a rispettare per ciò che racchiude e a valorizzare la timidezza, che non è certo lì per caso, che non si fa valere per caso, si può trovare dentro questa esperienza interiore così complessa e ricca, che rischia di essere liquidata solo come un difetto e una palla al piede, tanto su cui lavorare per conoscersi e per conoscere, per comprendere questioni di natura rilevante inerenti il modo di intendere la propria crescita e la realizzazione della propria vita. Una cosa è spingere se stessi verso la prestazione e la corsa regolata da altro da sè senza discernimento, per averne premio e convalida, altra cosa è riservare a sè il compito e la facoltà di comprendere e di assecondare lo sviluppo di ciò che vale, che richiede anche frenarsi, la timidezza come abbiamo visto frena, trattiene non per caso, ma con lo scopo intelligente di ascoltarsi di darsi occasione di scoperta, per cercare e trovare con base e fondamento di accordo con se stessi chiarimenti e risposte necessarie per procedere con autonoma capacità di vedere, di comprendere e di guidarsi. Una cosa è farsi portare e farsi dire (scorciatoia, soluzione facile e immediata da afferrare e  consumare), una cosa è affidarsi e ossequiare l'autorità esterna dei giudizi e delle regole condivise, per indirizzare non solo le scelte, il destino, le mete da raggiungere, ma persino per farsi regolare e dettare le espressioni di sè più intime inerenti sentire e sentimenti, per ricevere da questa autorità apprezzamento e conferma, altra cosa, ben altra cosa, è mettere al centro come condizione imprescindibile  il vincolo a se stessi come natura da rispettare, come fondamento vivo e essenziale per trovare da sè autonomamente, per cercare dentro di sè le proprie risposte e ragioni d'esistenza comunque non prescindendo, non rinnegando, ma viceversa valorizzando il proprio sentire nelle sue declinazioni vere, sentire che, come la timidezza, con intelligenza dice, saggiamente coinvolge, indirizza lo sguardo e conduce a capire. Consegnarsi ad altro per farsi dettare e riconoscere presunta maturità e capacità di vivere e di crescere o tenere stretta a sè la facoltà e la capacità di capire e di capirsi, di comprendere da sè, di riconoscere con i propri occhi, fedelmente a se stessi, in unità col proprio intimo vero, cosa ha  senso e valore, cosa, in consonanza con se stessi e coerentemente con le proprie originali risorse e qualità, vuole vivere, tradursi e realizzarsi, questa è la posta in gioco. La timidezza è ben altro che un difetto di funzionamento. 

mercoledì 26 marzo 2025

L'ansia, il cammino stretto

Perché insiste e cosa vuole quest'ansia? Dà un impietoso senso di costrizione, di respiro stretto, di mancata distensione, forse...forse perché non c’è motivo di rilassarsi, forse perché lì in questa stretta di allarme e di apprensione, c’è la necessità di vedere, più che di passare oltre, di rallentare e di fermarsi per capire, più che di evadere e di andare via sciolti. Non dà libertà questa pressione che non molla, toglie libertà? La prima impressione è questa e in nulla sembra favorevole, anzi pare una maledizione, una storpiatura, un modo infelicissimo e sbagliato di stare al mondo. Sarà per un deficit, sarà la conseguenza di qualche fattore sfavorevole, di un trauma patito, di un infelice condizionamento esterno attuale o di origine remota, che interiormente ha sconvolto e distorto il più normale e fisiologico sviluppo di crescita personale, tutto questo si va a pensare meno che questa ansia oggi voglia dire, che lo sappia intelligentemente fare.  Andiamo al punto. Vaneggia e blatera il sentire con quest'ansia cocciuta, tanto da poter essere considerato assurdo, senza valido motivo nel suo suonare senza tregua la sirena d’allarme, nel suo fare il guastafeste? Va riconosciuto che non è affatto facile convivere con una realtà interna così spigolosa, che non dà respiro. Ma c’è da chiedersi è davvero una molestia? Standoci attenti, qualcosa dentro, nel profondo potrebbe aver buon motivo di disturbare il quieto vivere, di procurare questa fitta pena? Forse quest’inquietudine dolorosa non intossica, ma vuole dire, non intende privare, ma vuole dare, non impedisce il cammino, ma lo segna stretto, per (co)stringere a capire. Fare opposizione, combattere ciò che, visto subito come ostacolo e disturbo, sembra solo menomare e togliere è risposta comune, comunissima e pure assai convinta, resa tale anche dal supporto di mentalità comune che invoca come ideale la condizione di liberazione da pesi interiori, resa ancora più saldamente convinta dalla presenza non irrilevante di apparati di cura, di schiere di curanti  pronti a dare aiuto nel verso del dispensare rimedi di ansiolitici e di tecniche di superamento dell’ansia. Si parte poi male, da una posizione tutt’altro che favorevole nel confronto con la parte intima di se stessi, con cui ora risulta così difficile convivere. Ci si è abituati infatti a avere visione di se stessi come di un’entità sostanzialmente chiusa nei confini della cosiddetta parte conscia, il resto di intimo, di sentire e di ciò che si svolge interiormente lo si pensa come un corollario, di cui a volte è problematico il controllo, ma appunto si tratta di controllarlo, di tenerlo a bada, di spiegarlo con qualche rapido ragionamento, niente di più. Dunque non ha certo centralità l’interiorità, pensata come una appendice del proprio essere, come una realtà minore che viene e deve stare a rimorchio e che va in qualche modo gestita, cui soprattutto non va dato peso quando non sta alle aspettative, quando nel sentire dissona, perché tanto è una componente “irrazionale”. Si è impegnati a seguire ben altra onda e richiamo da quello intimo, cui si chiede di stare al passo e nei ranghi e di non dare problemi. Ma l’interiorità di cui si è portatori e che è parte viva e essenziale del proprio essere, anche se come tale non è riconosciuta e ammessa, non è ciò che si presume e si pretende, un’appendice, una coda, un seguito gregario, che più di tanto non può e non sa produrre e portare. La parte intima e profonda, lo si constata con mano quando le si dà spazio e ascolto degno come nel corso dell’analisi,  sa però vedere bene e senza preconcetto, è la parte di se stessi che continuamente segnala nel sentire, nel seguito di emozioni, stati d’animo, vissuti e elabora in modo ancora più approfondito nei sogni, il vero di ciò che si sta vivendo, è la parte che non tenta fughe, che non se la racconta a piacimento come spesso e volentieri fa la parte conscia, è la parte che viceversa sa e vuole raccontarla nel verso del vero. L’interiorità sa essere sincera e soprattutto affidabile, senza compiere sul conto del senso di ciò che si fa e si vive distorsioni o manipolazioni di comodo, dunque sa essere acuta e veritiera, sa vedere della propria condizione e sorte oltre il proprio naso, in modo attento, nitido, esteso e lungimirante. Sapendo vedere, perché sveglia, perché non invischiata nella inerzia del procedere abituale e del pensiero annesso, interessato solo al quieto vivere o a favorire il procedere secondo programma della parte conscia, si prodiga a dare richiami, a mettere in campo ciò che sa, a provocare, quando è tempo e la situazione lo merita e lo richiede, una stretta, a esercitare un forte richiamo, a dare con l’ansia che insiste e che non dà tregua, a volte con lo scossone tremendo dell’attacco di panico, un sonoro segnale di allerta. Se non avvisasse per tempo, senza fare tanti complimenti, le cose potrebbero mettersi male e in perdita o con rischio di perdita grave. In superficie, nella parte conscia, ci si pretende accorti e "svegli" e invece spesso si è ottusi nel rigirare e confermare sempre le stesse idee e posizioni, più o meno volutamente svagati circa ciò che si sta facendo realmente di se stessi, circa il proprio procedere e la sua consonanza o meno con se stessi. Si è, in superficie e col ragionamento, comunque in ritardo rispetto al proprio profondo, che non cessa di tenere tutto dell'esperienza passo dopo passo ben unito e sotto sguardo attento, senza distrazioni, senza concessioni alla pia illusione e all’autoinganno, al rinvio, al lasciar andare senza cura. Ansia, respiro stretto, perché ogni goccia di respiro diventi consapevolezza e non evasione e ripetizione, ascolto e confronto schietto e non elusione e vana consolazione. Vedere, aprire gli occhi sul vero costa, ma salva. Se si tratta di cominciare a veder chiaro, a rimettere assieme l‘insieme, senza semplificazioni, omissioni e sviste, se si tratta di mettersi in mano consapevolezza utile e fidata, motore di libertà e di forza di vivere e non di sopravvivere, ben venga il guastafeste, l’inconscio che non “dorme“, che, pungolando e incalzando, non fa "dormire"! E’ un paradosso, ma nemmeno durante il sonno l’inconscio tace, anzi profitta della resa della testa ragionante e del silenzio della circostante fiera di cose e di eventi esterni, per pensare, a voce alta, per condividere nei sogni con tutto l’essere i suoi pensieri.

domenica 23 marzo 2025

I campioni della giusta causa

E' modalità che seduce, che appassiona, che infervora, soprattutto che conviene, quella che carica e scaglia la critica tutta all'esterno, perchè il negativo sia solo roba altrui, perchè a sè spetti solo di splendere di virtù morale e di pensiero illuminato, casomai col desiderio di impartire lezione, di educare, di fissare per tutto e per tutti cosa sia valido, corretto, evoluto. E' una gara sui principi più giusti portata avanti da chi di sè non vuole vedere se non la purezza più immacolata, di chi gongola di presunta superiorità di pensiero e di morale, di chi mai si è preoccupato e occupato di conoscersi nel vero, di fare chiarezza, al di là di quel che vuole farsi credere, su cosa sente davvero, su cosa lo muove nelle sue affermazioni e prese di posizione, su ciò a cui mira e che vuole procurare a se stesso. E' la corsa infaticabile a eccellere di chi, sempre all'erta, non perde occasione di segnalarsi come bravo, di tessere belle trame di ragionamento, badando bene a tenere lo sguardo lontano da sè, per ottenere il mirabile risultato di farsi coscienza critica di ogni negativo, di chi ha fatto e fa uso di ogni pretesto, preso da vicende e da esperienze altrui, per darsi la patente e la tempra di persona giusta, che più giusta non si può, che denuncia, che afferma le idee più valide, le più corrette. Sempre pronti a dare prova di possedere i più retti principi e i più degni valori, fanno una gran tenerezza questi campioni del pensiero più progredito e giusto. Bravi scolaretti da dieci e lode, non perdono occasione per alzare la manina per dire che sanno, per segnalare alla maestra, all'autorità del pubblico giudizio, da cui sono così docilmente dipendenti, che conoscono la risposta giusta, il comportamento giusto. Hanno infatti antennine ben sviluppate, con cui sanno captare qual'è il comandamento di giornata, il decalogo dei valori del momento e lì si sintonizzano e prontamente, acquiescenti e disciplinati, allineano il loro pensiero per farsene convinti e accesi paladini, per dare, impeccabili sempre, buona e eccellente prova di merito. Peccato che, assieme a tutto questo buon odore di purezza e di virtù, portino dentro di sè il fiele del bisogno, per garantirsi posizione elevata, di denigrare, di sminuire, di stigmatizzare chi deve svolgere, a loro onore e beneficio, la parte del retrivo, dell'infimo, dell'ignorante. Li si vede ovunque i campioni della giusta causa dall'impeccabile fiero orgoglio, li si vede in modo esemplare in politica, li si vede, da pulpiti e su palcoscenici vari, in tv, sui giornali, in rete, li si vede quotidianamente attorno a sè, ma, quel che più conta, non è da trascurare la possibilità di vederli mettendosi allo specchio, impresa, che, se da un lato può risultare ingrata, dall'altro offre le migliori possibilità di analisi attenta e di fedele scoperta del vero.

sabato 15 marzo 2025

L'analisi: chi conduce chi?

Premetto che si impiega il termine analisi per definire una varietà disparata di approcci e di esperienze in ambito psicoterapeutico assai diverse tra loro, anche agli antipodi. Nel mio scritto parlo dell’analisi e del percorso analitico, come da tanti anni da analista propongo e pratico, che mette al centro il rapporto col profondo, che riconosce a questa parte del proprio essere un ruolo essenziale e decisivo nella conoscenza di se stessi e nel promuovere la propria autentica realizzazione. E’ motivo di sorpresa per chi inizia questo tipo di percorso analitico ritrovarsi non già nella posizione di chi col ragionamento cerca di condurre il discorso, di dirigere l’attenzione verso ciò che considera importante e centrale per capire se stesso, ma nella posizione di chi è guidato nel percorso di conoscenza da una parte di se stesso, parte intima e profonda, fino ad allora trattata e pensata più come oggetto di indagine che come soggetto di discorso. Compiere questa inversione è fondamentale e apre uno scenario totalmente nuovo. Chi arriva in analisi è convinto di poter definire già il campo della ricerca, i punti cruciali, le questioni che lo riguardano. L’aspettativa è di indagare più attentamente e in profondità, preferibilmente nel passato remoto, per arrivare a mettere in luce i fattori condizionanti e le presunte cause, fatte risalire a responsabilità di altri preferibilmente, del proprio malessere. L’idea, se presente, circa l’inconscio è che questa parte profonda di sè, vista fino a quel momento come oscura e  inaccessibile, possa attraverso l'analisi rendere finalmente riconoscibili episodi critici e verità della propria biografia nascoste, rimosse e tenute dentro questa sorta di contenitore, di strato profondo della psiche, perché troppo dolorose o inammissibili alla coscienza, che dove finalmente emerse e riportate alla consapevolezza segnerebbero una svolta, la liberazione da blocchi e da trappole interiori limitanti e distorcenti il proprio sviluppo e benessere. Sottesa all'impiego di questa teorizzazione, al favore per questa rappresentazione dell'inconscio, la posizione vittimistica, la tesi, del tutto conservativa e deresponsabilizzante verso se stessi che dice: se non ci fossero state condizioni avverse e sfavorevoli, se non avessi subito questo o quell'altro per traumi o accidenti, per negligenze o per negativa opera e influenza d'altri e d'altro, non mi sarebbe toccato di patire sino a oggi disagi, di rimanere invischiato nel malessere e tutto di me e del mio procedere (che non è in discussione) sarebbe filato liscio e con garanzie per il mio benessere e la mia libertà di espressione. L’inconscio, chiamato dentro una simile tesi a dare sostegno coerente a questa posizione vittimistica verso se stessi, in realtà è di ben altro avviso e di ben altro è portatore e capace. Nel percorso analitico di cui parlo lo si può nitidamente vedere, toccare con mano e apprezzare. L’inconscio è prima di tutto laboratorio e genesi di pensiero, non spiantato e aggregato al pensato comune, ma riflessivo e capace di vedere nell’esperienza i significati veri, il senso. L’inconscio è la risorsa interiore di cui si dispone e del cui valore e potenziale si è in genere ignari, in grado di indirizzare in modo del tutto nuovo e inatteso la conoscenza di se stessi, portandola fuori dal circuito chiuso dei soliti convincimenti e ragionamenti, per condurla sul terreno fecondo della scoperta del vero. Se gli si dà spazio e parola l’inconscio sa dire e orientare la ricerca con sapienza incomparabile. Lo fa magistralmente con i sogni. Esercita inoltre la sua funzione guida regolando tutto il corso del sentire, della vicenda interiore. Nulla di ciò che viviamo interiormente è casuale, è accidentale, dettato e condizionato, in una meccanica relazione di causa e effetto, da eventi e da stimoli esterni e basta. In ciò che proviamo, in ciò che prende forma nel sentire c’è sempre uno scopo, c'è la capacità propositiva di segnalare, di dire.  Se si porta attento sguardo sul sentire, si può vedere ciò che il vissuto, lo stato d’animo, l’emozione scrive e descrive, delinea, sa portare a riconoscere, toccandolo con mano, sensibilmente. Fare intima esperienza, sentire è il modo più efficace di conoscere, se una cosa la si vive la si può comprendere. A far la differenza quando, con l'intento di capirsi, ci si mette in rapporto col proprio sentire, è la capacità di osservazione, che richiede tenere a freno la tendenza a agire, a mettere in campo subito il commento e la spiegazione, per arrivare viceversa e gradualmente, proprio affidandosi alla guida del sentire, alla scoperta, alla comprensione. L’inconscio modula il sentire, lo plasma, lo indirizza offrendo così basi e terreno vivo e efficace di scoperta di verità, compensando le insufficienze, spesso le distorsioni del pensiero e dello sguardo cosciente, non raramente parziale e astratto, incline alla ripetizione e al preconcetto, catturato dalla superficie degli accadimenti, in difficoltà nella messa a fuoco dei significati più intimi e profondi dell'esperienza. L'inconscio, animando il quadro interiore, spingendo avanti le emozioni, plasmando gli stati d’animo, modulando il sentire, vuole rendere visibili le implicazioni più vere dell'esperienza. L’inconscio, se ascoltato in queste espressioni vive della propria vita interiore, sa aprire nuove trame e sviluppi di conoscenza, corregge i fraintendimenti, spesso di comodo, funzionali a dare a se stessi rassicurazione e conferma nelle proprie convinzioni e tesi, messi in campo dalla parte razionale, che pure si illude di essere molto affidabile, in contrapposizione con la presunta cecità e irrazionalità delle emozioni, nel chiarire le cose, nel garantire obiettività. L'inconscio non solo interviene nel sentire, nella regolazione di tutto il succedersi degli eventi interiori, delle emozioni, degli stati d'animo, delle pulsioni, per dare base e terreno sicuro di ricerca e di scoperta del vero, ma offre per la conoscenza di se stessi un contributo eccellente nei sogni, dove esalta la sua funzione guida. Lì mostra capacità mirabile di condurre a vedere dentro se stessi, lì trova espressione tutta la sua autonomia, maturità e profondità di sguardo e di pensiero. L’inconscio non è appiattito sulle cose, sulla visione preconcetta, è autonomo da vincoli, dalle aspettative della parte razionale, non è intrappolato dentro i circuiti di pensiero soliti e automatici. L’inconscio ha saputo e sa compiere lo stacco riflessivo, vedere ciò che è coinvolto nella nostra esperienza e nel nostro procedere, i modi, i perché, ciò che ci spinge, anche in ciò che tentiamo di eclissare o camuffare. L’inconscio non è interessato a risolvere, a far procedere le cose senza intoppi, a far venir a capo in fretta di eventuali difficoltà, pur di procurarsi beneficio immediato, l'inconscio vuole la visione nitida di quel che c’è in gioco, di quel che in ogni frangente e passaggio dell’esperienza, anche e soprattutto se difficile, si rende riconoscibile di noi stessi. L’inconscio vuole che non ci nascondiamo a noi stessi. C’è nell’inconscio una tempra e una forza di iniziativa che possono davvero sorprendere chi non lo conosce, chi non si conosce in questa parte profonda di se stesso. Posso dire che l’inconscio, che da tanti anni ascolto in svariate vicende interiori e percorsi analitici, mostra una sorta di proprietà e di tratto che ricorre, pur nella diversità dei cammini, sempre unici da individuo a individuo. L’inconscio non accetta la fatalità del condurre la propria vita nel modo sostanzialmente passivo dell’andar dietro, del modellarsi secondo altro, anche se ignorato ai propri occhi e  travestito da protagonismo, dell’insistere nella simbiosi con l’esterno come unica idea di vita. Si parla infatti spesso di realtà, di senso di realtà, riconoscendo come tale solo ciò che è esterno, concreto, già concepito, in qualche modo già sistemato, ordinato, fruibile, percorribile e dato. Reale è però qualsiasi movimento di presa di coscienza, di nuova conoscenza che partorisca qualcosa di nuovo, che faccia vivere qualcosa di inatteso. Siamo realtà noi stessi, se non ci mortifichiamo nella ripetizione d’altro, siamo realtà in ciò che possiamo generare nella presa di coscienza, far vivere dentro di noi e che da lì possiamo progettare, sviluppare. L’inconscio, che è la nostra stessa matrice, custode di ciò che siamo e che abbiamo potenzialità di comprendere, di tradurre, di percorrere, di far vivere, di mettere al mondo, non compie la rinuncia, non accetta un’esistenza che non tenga conto di questa capacità di pensiero originale e di questa tensione creativa propria, un'esistenza che si riduca a fare il verso ad altro già detto, concepito e organizzato, a venerarlo come la Realtà cui aderire e su cui plasmarsi. Tanto malessere interiore che in varie forme scuote, disturba il quieto vivere di non pochi, nasce da questa tensione profonda a non rinunciare mai a guardare dentro se stessi, a non dare nulla per scontato, a non rinunciare a riconoscersi come soggetti, come artefici della propria vita. L’inconscio non dà comunque ricette pronte e ingenue di cambiamento. L’inconscio non induce a compiere salti, non asseconda affatto la tendenza ad aggirare la difficoltà, l'interrogativo, a semplificare o a omettere. Il processo conoscitivo deve essere completo, maturo, responsabile, davvero capace di aprire gli occhi, di non ignorare, di trovare risposte valide e complete, per non fare illusori passi avanti o semplici fughe. L’inconscio non promuove cambiamenti fragili e contradditori, ambigui o insostenibili, nulli nella sostanza. L’inconscio è maestro e, sogno dopo sogno, svolge un’analisi completa, guida in un percorso conoscitivo originalissimo e nello stesso tempo di straordinaria lucidità, veridicità e profondità. Nulla, come l’inconscio nei sogni, sa essere altrettanto libero da ripetitività e da preconcetto, nulla sa coniugare in pari modo acume di sguardo, libertà e forza. L’inconscio esalta la vita, perchè esalta il pensiero, che sa cercare e riconoscere l'intimo significato vero, senza posa. L’inconscio è infaticabile e non cessa mai di dare spinta alla conoscenza, alla conoscenza che fa ritrovare il senso, che avvicina a se stessi, che rende capaci di incontro col respiro e con la complessità ricca della vita. Non ho mai incontrato tanta indomabile voglia di aprire e di conoscere come nell’inconscio. L’inconscio non fa sconti, non culla illusioni e autoinganni, la verità è sempre al centro delle sue cure, la verifica attenta passo dopo passo, combinata a eccezionale lungimiranza. Chi si affida al proprio inconscio ha la più affidabile delle guide e il miglior maestro per conoscersi, per conoscere, per arricchirsi. Una fonte interna, una risorsa propria straordinaria. Ignorarlo, vuoi per ignoranza del suo potenziale, vuoi per diffidenza, senza avere l’occasione di conoscerlo come può accadere in una buona esperienza analitica, è davvero una occasione persa, l’occasione di arricchirsi di sé. Nel percorso analitico, che ho delineato e di cui ho esperienza, tutto, proprio tutto si scopre e si genera a partire dalla proposta e dall’iniziativa della parte profonda di se stessi. Non si dà parola a altro, non ci si rifà a altro come guida e come fonte di conoscenza, in un'analisi ben fatta non si dà a niente e a nessuno, a nessuna figura di presunta autorità o scuola di pensiero, delega di fornire spiegazioni e lumi, in ogni caso impropri e fuorvianti, oltre che non necessari. L'inconscio, la parte profonda di ognuno sa dare infatti magistralmente, nella forma più appropriata e approfondita, la più rispondente alle necessità di ognuno, ciò che è necessario per lo sviluppo della conoscenza, per il processo di trasformazione e di crescita di cui si ha potenzialità, nella forma più originale e consona a se stessi. Qual'è il compito dell'analista? L’analista svolge bene la sua funzione quando, consapevole di cosa può offrire all'altro aprendolo al rapporto col suo profondo, lo sa accompagnare nella ricerca, incoraggiando e favorendo in lui il formarsi e la crescita della capacità di ascolto e di dialogo con la sua interiorità, mettendo al centro sempre la proposta che viene dall’inconscio, cui prima di tutto spetta parola e guida. E’ una funzione delicata quella svolta dall’analista, vista l’importanza della posta in gioco, che è far sì che l’altro si congiunga alla sua interiorità e ne rispetti la proposta, ne comprenda e ne traduca fedelmente gli intenti, senza favorire invece costruzioni di pensiero e travisamenti utili solo a riportare tutto nel giro abituale dei convincimenti soliti e opachi al vero, nella presa della pratica dipendente, della adesione e rincorsa cioè di ciò che è dato comunemente per scontato, nell’imbuto del dare prova in cambio del sostegno esterno e del premio di considerazione e approvazione degli altri. Il lavoro dell’analista, se ben svolto nel rispetto e a garanzia dell’altro, non si avvale del ricorso a spiegazioni e a interpretazioni già pronte, poco importa se tratte da insigni maestri e da riverite scuole, che, facili da usare, risulterebbero comunque, come dicevo, improprie e fuorvianti, malamente sostitutive di ciò che, originale e unico, oltre che di ottima fattura, nel dialogo col suo profondo l’altro può trarre da sè. Per l'analista c’è un lavoro artigianale da fare, che certamente richiede non poco impegno di tempo e di energie e che nello stesso tempo ripaga di scoperte uniche e feconde, un lavoro consono a una ricerca che rispetti e rispecchi l’originale della proposta interiore di ognuno, che sappia accompagnare l’altro a stabilire un rapporto sempre più aperto e intimo, un ascolto e un dialogo sempre più sintono con la sua parte profonda. L’inconscio traccia e dirige con mano ferma e capace il percorso di scoperta e di trasformazione, che conduce l’individuo a diventare se stesso, non una immagine da mostrare, non una copia d’altro. L’analista ha il compito, passo dopo passo, di dare all’altro spunti di ricerca consoni a ciò che il suo profondo intende proporgli sia nei sogni che nei vissuti, coinvolgendolo nella ricerca, facendo sì che via via se ne renda sempre più partecipe attivo e capace. Coltivare con cura con la guida del proprio inconscio e portare a maturazione, lungo un percorso unico, la scoperta della verità di se stesso, diverrà per l’individuo il fondamento della sua personale autonomia, della capacità e della passione di generare e di far vivere, senza il bisogno dipendente di conferme, di apprezzamenti e di sostegni esterni, il proprio, originale e autentico.