martedì 25 aprile 2023

Vittimismo e bisognosità

Vanno di pari passo. Vittimismo e bisognosità (parlo di bisognosità come modo di porsi nei confronti delle questioni e delle necessità della propria vita) si sostengono e corroborano a vicenda. Sono le architravi di un modo di stare al mondo che non riconosce come senso del vivere la ricerca e la creazione di pensiero proprio, la scoperta e la realizzazione con passione, responsabilità e impiego di forze e di risorse tratte da sè, di progetto proprio e originale. La bisognosità viceversa induce a avere fame di soluzioni di pronto impiego, con l'animo di chi è pronto a lamentarne la mancanza, a rigirare su altro il compito e la responsabilità di provvedere, con l'occhio attento a scorgere difetti e inadempienze in altri e in altro, con la tendenza a vivere vittimisticamente ogni percezione di insoddisfazione e di mancanza, come fossero un torto subito, una pena indebita patita. Quando l'interiorità preme e incide con forza, quando col malessere dà fermo e insistito richiamo a rivolgere l'attenzione non all'esterno, ma all'intimo, a riconoscere la propria condizione, a guardare dentro ciò che si sta facendo di se stessi, la risposta più frequente è di rinforzo vittimistico e bisognoso. Come fosse un peso e una calamità patita, come fosse una anomalia, un torto della natura o la conseguenza di qualcosa di maligno e sfavorevole che dall'esterno affligge e che non concede l'auspicata tranquillità, considerata naturale e di diritto, non c'è nessuna disponibilità a intendere il proprio malessere come specchio per conoscersi, a valorizzarlo come terreno vivo per vedere fino in fondo la verità della propria condizione, con i vuoti di realizzazione, di ricerca e di crescita personali da colmare, riconducendoli prima di tutto a sè, riconoscendo la responsabilità piena del proprio modo di procedere e di condurre la propria vita. Tanta psicoterapia è cercata appositamente per far quadrare e per rendere più robusta la propria concezione vittimistica e bisognosa, casomai per cercare responsabilità familiari genitoriali, per trovare il trauma psichico maledetto o benedetto che spieghi tutto, dalla cui influenza essere aiutati con varie tecniche a liberarsi, con lo scopo di ripartire sollevati, rimettendo in esercizio e in corsa il solito modo di procedere senza più impacci. Non di rado è riversata sul conto del proprio malessere interiore, che sia ansia o altro che non dà tregua, l'idea che sia la conseguenza e l'espressione di un malfunzionamento o con linguaggio più tecnico di un modo disfunzionale di pensare e di reagire, da mettere in officina di riparazione. Ancora la tesi vittimistica e l'urgenza bisognosa hanno modo di agire e di prevalere indisturbate, casomai trovando più validi, almeno in apparenza, argomenti e sostegni per ritrovarsi più sciolti e liberi di procedere e di stare in corsa come o più speditamente di prima. Questi se non altro gli auspici. Non si possono però fare i conti senza l'oste, dove l'oste è l'interiorità che non si piega e che non ci sta a farsi travisare, dove l'oste è il rendiconto sincero, è la verità che vuole emergere e che presenta e ripresenterà il conto. Non c'è però rinuncia, dove bisognosità e vittimismo continuano a dominare incontrastati, alla pretesa di mettere a tacere un'interiorità che insiste. Se, come spesso capita, a più o meno breve distanza, ci si ritroverà a patire nuovo disagio ecco che, con l'idea di una ricaduta della "maledetta malattia", così spesso è inteso il malessere interiore, si cercherà ancora di far quadrare i conti secondo tesi e criteri di bilancio vittimistico bisognoso. Travisare è facile, persistere pure, ma l'oste non smetterà comunque di presentare il conto vero, in attesa ferma e paziente che la risposta sia finalmente di responsabilità e non di ottuso vittimismo e di cocciuta bisognosità. 

mercoledì 19 aprile 2023

L'individuo monco

Il modo comune di concepire l'individuo e la sua realizzazione ne prevede e ne sancisce l'essere monco. Pur passando inosservato e non compreso, lo stato dell'individuo, che concentra le sue attese su ciò che la sua parte pensante razionale e la sua volontà possono produrre e che relega la parte intima e che si esprime nel sentire, nell'insieme della vicenda interiore, nei sogni, a un ruolo subalterno e accessorio, è di sostanziale menomazione. Se il sentire e ciò che si propone nel corso interiore è in gran parte tenuto sotto traccia o ignorato, se c'è l'attesa che si concili con le posizioni del pensiero razionale e con i suoi propositi, accade che la parte più vitale, capace e preziosa del proprio essere non abbia voce in capitolo, che anzi sia trattata con pretesa e prepotenza regolatrice che rende mal accetta qualsiasi sua espressione dissonante. Diventa così un peso sgradito e è svalutato come sentire difettoso e da correggere il sentire che si declini come disagio, ansietà, senso di afflizione, sfiducia e abbattimento o altro che non sia gradito o che deluda le aspettative. Viceversa sono esaltate con compiacimento espressioni del sentire che premino e confermino le attese, che godano del ben volere e della stima comuni, che stiano al passo e in accordo con gli orientamenti e i propositi abituali, un sentire non di rado incoraggiato, quasi sospinto, se non addirittura artefatto. Completamente travisata e ignorata la capacità che ha l'intimo di dire, di dare guida e orientamento, indispensabili per non andare a rimorchio di schemi e di principi comuni e consolidati, per non rigirarsi nel labirinto del preconcetto e delle idee solite e di fabbricazione razionale, avulse e astratte, spesso di comodo e spiantate. Solo la parte intima e profonda del suo essere ha capacità di riportare l'individuo a se stesso e al vero, al cuore della sua vicenda, di dargli, con tutte le declinazioni del sentire e della vicenda interiore, anche le meno piacevoli e le più sofferte, i fondamenti e le guide  della conoscenza veritiera di se stesso e di ciò che è implicato nella sua vita. Solo la sua interiorità è capace, se ascoltata e intesa fedelmente nel suo dire, di condurre l'individuo a comprendere come sta procedendo e regolato da cosa, di portarlo a vedere, a riconoscere e a comprendere non in astratto, ma per intima esperienza e su terreno vivo, ciò che sta facendo di se stesso, a capire da sè e col proprio sguardo, senza il suggerimento d'altri e il ricorso a teorie e a spiegazioni in uso, i veri significati, a scoprire e a verificare cosa è davvero importante e perchè, ciò che vale e è desiderabile e appassionante realizzare, far vivere coerentemente con se stesso. Senza l'apporto e la guida della parte intima e profonda, di cui va scoperto con cura e con lavoro paziente il valore e il potenziale, questo è ciò che dà una buona esperienza analitica, si è individui monchi, che con una forma di pensiero, razionale e orgogliosamente scissa da tutto ciò che è intimo e profondo, non orientata, plasmata e nutrita da intima guida, non può che cercare guida e indirizzo fuori, nel concepito comune e abituale. Il paradosso dell'individuo, che, per esprimersi al meglio e liberamente, ritiene opportuno e necessario disciplinare, a volte tacitare e correggere, in ogni caso rendere innocua la sua parte intima e profonda, fa vedere a che grado di irragionevole assurdo possa portare l'esaltazione come valido e normale dello stato monco, non riconosciuto come tale, come menomazione del proprio essere, come condanna a procedere nella vita senza testa vera, senza pensiero proprio e fondato, senza progetto originale. Nella condizione monca menomata altro non è possibile se non stare a un copione già scritto, recitare la parte assegnata, pur con le mille illusioni di agire e di dire la propria autonomamente. Perseguire scopi e risultati validi diventa allora inseguire successo e riuscita riconoscibile e apprezzabile dagli altri e da autorità esterna, cercare la propria realizzazione si traduce nell'eseguire a menadito ciò che è già scritto e prescritto nell'esempio e nel pensato comune come traguardi da raggiungere, come tempi da rispettare e come modi previsti per dare compimento alla propria crescita. Non c'è che dire, l'individuo monco, che si compiace della sua normalità, dello stare ben in riga con ciò che è concepito dai più e da tante voci come valido e giusto, come positivo e favorevole, finisce per compiacersi del suo stato menomato della parte del suo essere che gli sarebbe essenziale per diventare e per realizzarsi come individuo pensante per davvero e capace di dirigersi autonomamente, di generare il proprio, di non essere soltanto copia d'altro, convalidato da fuori, ma senza accordo e unità di intenti con tutto se stesso.