domenica 27 ottobre 2019

Le certezze ignoranti

La relazione che in situazioni di disagio e di sofferenza interiore si stabilisce con ciò che vive dentro se stessi è più spesso di insopportazione e di aperto conflitto che di dialogo e di ricerca di intesa. Senza esitazioni ciò che risulta spiacevole è giudicato insano, nocivo, deleterio, altro e diverso da ciò che ci si dice certi che dovrebbe esserci. Tutto sembra dare conferma a simili tesi, a simili certezze: l'opinione e il credo comune, i tanti terapeuti pronti a promettere sollievo da una sofferenza giudicata un peso e un danno psicologico da cui sarebbe auspicabile, legittimo liberarsi. Teorie psicologiche e tecniche coerenti con l'idea che ci sia nello stato di malessere un disturbo cui porre rimedio per riportare al dritto, a normalità la situazione interiore, fanno agli occhi dei più da garanzia all'idea che sia assolutamente giusto, valido e sensato combattere come nemico e insano lo stato di disagio e di sofferenza interiore. Peccato che tutto l'edificio delle spiegazioni in termini di alterazioni e di disturbo, con definizioni e etichette diagnostiche varie, dell'esperienza interiore disagevole e sofferta, che l'idea dell'individuo a norma e normofunzionante, siano il frutto di una visione monca e parziale, di un pregiudizio, di un modo di concepire l'intima esperienza che nulla ha a che vedere con ciò che è, che vale davvero, che le è insito, che vuole dire, che intende proporre, conseguenza di un modo di concepire l'uomo che non comprende cosa porti realmente dentro se stesso. Va detto che non è casuale che, come dicevo all'inizio, la risposta dell'individuo, che sperimenta dentro se stesso disagio e malessere interiore, sia di contrapposizione e insofferenza, di spinta a debellare come nemico  ciò che prova di difficile e sofferto, a evaderne il più possibile, a cercare di metterlo a tacere. L'individuo non è abituato a trattare ciò che vive interiormente se non come appendice subalterna, con la pretesa che si allinei, che sia coerente con ciò che pensa valido e giusto, con ciò che suppone e auspica essere normale. Tutta l'attenzione e le attese sono rivolte all'esterno, la realtà è intesa solo come il concreto insieme di condizioni esterne, le relazioni sono solo relazioni con altri e con altro che sta fuori. Il mondo interiore non esiste se non come satellite del mondo e della realtà esterna. Cosa si pensa abitualmente ci sia dentro se stessi se non uno stato di bisogno, se non il desiderio di acciuffare, di avere, di perseguire questo o quello che sta fuori, se non l'abilità più o meno avanzata di stare al passo, di stare dentro la cosiddetta realtà,  di stare sopra la giostra del vivere disegnato fuori? La propria interiorità è ben di più, anzi è ben altro, ma non la si conosce, non se ne ha confidenza e conoscenza. Non è stata coltivata e non s'è formata la capacità di entrare in rapporto con l'esperienza interiore, di ascoltare il proprio sentire, di intendere l'intimo e l'autentico di ogni sensazione, emozione, stato d'animo. Le antenne sono tutte rivolte al fuori e non al dentro. Nel corso del suo percorso di vita l'individuo ha appreso tante cose, a adattarsi, a intendersi col fuori, ma assai poco o per nulla ha sviluppato la capacità di relazione col dentro, col proprio intimo, la capacità di incontro, di ascolto e di dialogo con il proprio sentire, con la propria interiorità, di intenderne il linguaggio, di scoprirne la qualità, il valore, l'affidabilità. La connessione col fuori è stata e è vissuta come la priorità, anzi come la condizione vitale e essenziale, col dentro non c'è necessità di essere connessi, di intendere, di intendersi. Le antenne rivolte al fuori sono pronte a intendere gli stimoli, i segni del linguaggio convenzionale, a riprodurlo, a rimasticarlo. Ciò che succede dentro se stessi deve solo allinearsi con ciò che la giostra richiede, con i suoi schemi e tempi e se si provano ad esempio impaccio, freni, esitazioni, se non c'è carica pronta, ecco che questo appare subito come un difetto di funzionamento, come l'insicurezza che non dovrebbe esserci, cui opporre lo sprone a essere e a prodursi altrimenti, a correggersi. Addestrati a stare al passo e a norma, a fruire dello schema comune come unica fonte e occasione, abituati solo a stare sulla giostra, pensando che questa sia la realtà, la realtà in assoluto, che ogni sensazione e moto interiore che non la asseconda sia solo un ritardo, un handicap possibile, un che che isola e che fa stare indietro, si è già nella posizione di non rispettare ciò che vive dentro se stessi, di non comprenderlo, di forzarlo a stare solo al passo con quell'unica pretesa di stare a norma. Cosa succede se la parte più intima e profonda di se stessi, ben consapevole di questa tirannia dell'andare dietro, di un'interpretazione della vita così parziale, distorta e soprattutto cieca, automatica, non rinuncia a porre l'ostacolo, perchè finalmente si prenda visione del proprio stato, ci si guardi dentro, si consideri cosa ne è di se stessi, cosa si sta facendo nel rapporto con se stessi, col proprio intimo? Cosa succede se la parte profonda di se stessi, assai meno succube del pregiudizio, consapevole della posta in gioco, cerca di mettere in crisi il tutto per riaprire l'individuo alla possibilità di capirci qualcosa di se stesso, per non perdersi, per trovare nuova e diversa linfa e ispirazione alla propria vita che non sia proseguire a testa bassa? Ahimè spesso la parte che più realmente soffre il limite di essere cieca e senza visione, ma che si arroga di essere capace e lucida, liquida la parte interiore, che non l'asseconda nelle sue pretese di efficienza e di stabilità, come insana e da rimettere in riga. E' una beffa a proprio danno, è il culmine dell'autoinganno, quello che si consuma per effetto delle certezze ignoranti, che dicono che bisogna correggere e sedare, mettere a tacere e riportare al dritto e al normofunzionante ciò che interiormente si fa sentire, la voce interna, che tutto è meno che stupida o dissennata, che tanto saprebbe e vorrebbe dare, ma che, troppo spesso, non si è capaci di capire e di rispettare.

sabato 26 ottobre 2019

Psicoterapia a che scopo?

La conquista fondamentale, che la psicoterapia dovrebbe consentire, perchè sia davvero utile, capace di portare al cambiamento di qualità nella propria vita, è imparare a stare fiduciosamente ben connessi col proprio intimo sentire e con il succedersi di tutto ciò che si vive interiormente, anche quando difficile e disagevole, imparando a reggerne la tensione, a non fuggire, di pari passo con l'acquisizione e con lo sviluppo della capacità riflessiva, che permette di vedere, come guardandosi allo specchio, cosa dentro il proprio sentire, dentro la propria esperienza interiore prende forma, di riconoscerne l'autentico significato, di raccoglierne l'originale proposta. La capacità riflessiva di cui parlo, che è conquista fondamentale, non c'entra nulla con la riflessione comunemente intesa e praticata, che si traduce in un dire e rimuginare razionale sul conto dell'esperienza, mettendole sopra spiegazioni e deduzioni, sviluppando idee che coi vissuti interiori, col sentire, reso oggetto di speculazione razionale, non hanno relazione, che non gli concedono parte attiva e propositiva. Nel sentire c’è la parte di sè che può dare a ognuno la terra sotto i piedi per ritrovarsi e per comprendere, c'è il radicamento nel vero, la guida viva per non allontanarsi mai da se stessi e dal cuore della propria ricerca. Parlo di ricerca perché il senso vero del nostro vivere non è adattarci o infilarci in qualche dove che ci definisca e che ci dia un illusorio senso di esistere e di realizzarci, ma è vedere con i nostri occhi, trovare dentro di noi le risposte e riconoscere quale vuole e può essere il senso, lo scopo della nostra vita, secondo noi stessi, coerentemente con noi stessi. La piega prevalente dell’esistenza è spesso di farsi dare dall'esterno risposte, di seguire e inseguire tracce e guide esterne, di identificarsi con altro fuori e attorno a sè, che se da un lato già sembra dire, consentire, dare risposte e soluzioni possibili, dall'altro finisce per delimitare le espressioni, le scelte, i modi della propria vita. Il nostro profondo, depositario delle nostre più originali ragioni, potenzialità  e capacità di pensiero, non ci sta a un simile passivo adeguamento, che rischia di falsare e di far fallire la nostra vita, di toglierle il bene supremo, quello della consapevolezza, della capacità di vedere con i nostri occhi e di generare il nostro pensiero, della libertà di metterci su un cammino nostro, sentito, consapevole, fattivo e creativo, non affidato al conformismo o all’approvazione/conferma altrui. La parte profonda non sta quieta e preme per sollecitare ricerca, presa di coscienza di come ci si sta muovendo, spesso e da gran tempo in modo gregario (anche se con l'illusione di essere artefici delle proprie idee e delle proprie scelte), di cosa si sta facendo di se stessi, di cosa viceversa è possibile mettendo al centro e senza risparmio il proprio sguardo, onesto, trasparente, acuto e pronto a riconoscere anche ciò che di se stessi dispiace ammettere, ma che per crescere e far crescere il nuovo e il proprio è indispensabile conoscere e riconoscere. Il malessere e la crisi interiore nelle sue diverse espressioni, tutte significative e mai casuali, nasce e si propone con forza per iniziativa del profondo. Non è un guasto o una patologia da combattere frontalmente e da mettere a tacere, neppure da spiegare e da tentare di risolvere andando a cercare in qualche accidente o condizionamento esterno la causa presente o remota che avrebbe provocato il presunto guasto o danno interiore,  è viceversa richiamo e sollecitazione profonda a occuparsi di se stessi, a prendere visione del proprio reale stato, a mobilitarsi per generare tutto ciò che manca di scoperte di significato, di conoscenza di se stessi, indispensabili per prendere davvero in mano la propria vita, per rispettarne le ragioni e per farne vivere le possibilità autentiche. Nel lavoro di psicoterapia (mi sto riferendo a una psicoterapia di impostazione analitica e che concepisca la totalità dell'essere, l'importanza della componente profonda, dell'inconscio) è fondamentale dunque dare spazio alla parte intima e profonda, che è motore della crisi e che sa cosa sta smuovendo e perché. E’ parte di noi, quella profonda, che non si perde o disperde, che non accantona nulla, che non oscura per comodo, che non rinvia la verifica, che vuole il vero, senza limiti e sconti, perché il vero è la base della libertà e della trasformazione, del poter scegliere sapendo. La ricerca nel corso della vita non è mai finita, ma è importante che sia ben e saldamente impostata, che si sia imparato a dialogare con se stessi, ad avere unità con se stessi, a dare ascolto a tutto ciò che si sente, a procedere uniti con se stessi. I nodi decisivi vanno avvicinati, sotto la guida della parte profonda che lo sa fare di dirigere la ricerca (prima di tutto attraverso i sogni, oltre che con tutto ciò che nell'esperienza del sentire, che l'inconscio plasma e dirige, vuole rendere tangibile, riconoscibile) e, imparato a dare forma nuova e consapevole e unitaria al proprio procedere con se stessi, si può andare oltre da soli dopo l’esperienza analitica. Questo l’orizzonte dentro cui va concepita la psicoterapia perché davvero sia utile e consegni le chiavi nuove per continuare il cammino non in un rapporto di fragile unità con se stessi o addirittura di disunione, di persistente timore e di propensione a sorvegliare e a controllare gli accadimenti interiori (quante volte capita di sentir dire: ho imparato con la psicoterapia a "gestire" le mie ansie), ma di fiducia e di scambio totale, senza chiusure, con la propria intima esperienza, di sintonia col proprio profondo. Quando, travisando il significato della crisi, si investe su terapie che pretendono o che si illudono di mettere sotto controllo o a tacere l'intimo malessere, anzichè aiutare a sviluppare la capacità di ascoltarne voce e proposta, quando i nodi decisivi della propria vita non sono, con la guida del profondo, riconosciuti e sciolti, quando i cambiamenti nel modo di stare in rapporto con se stessi non sono felicemente conquistati, quando non si supera la scissione tra ciò che si argomenta e ciò che si sente, quando non si raggiunge la unità dialogica con la propria interiorità, il profondo tornerà nel tempo a agitare le acque con rinnovata insistenza e a reclamare ascolto, imperiosamente premendo ancora perchè sia fatto il lavoro che serve, perchè finalmente sia fatto bene e fino in fondo.

venerdì 25 ottobre 2019

Le vicende interiori

Non è affatto facile capire le vicende interiori, particolarmente se complesse e inquiete. Prima di tutto si fa spesso l'errore di applicare agli svolgimenti interiori una logica interpretativa e una lettura che sono a loro estranee, improprie. Tutto ciò che accade interiormente tende a dare testimonianza viva di verità intime, riguardanti lo stato del rapporto con se stessi, l'orientamento e il modo di farsi interpreti della propria vita, il grado di maturità vera, di autonomia, di corrispondenza con se stessi di ciò che si persegue o segue, verità rese vive e tangibili in stati d'animo, in vissuti, che di continuo offrono base viva di comprensione e di ricerca, che solo un autentico sguardo riflessivo (che non c'entra nulla con la riflessione, di matrice razionale, comunemente intesa) può avvicinare e gradualmente cogliere. Lo sguardo razionale non sa nè raccogliere nè concepire una simile proposta, abituato com'è a far da solo, senza vincolo e senza aderenza stretta al sentire, a commentare e non a ascoltare, a definire e non a riconoscere ciò che il sentire dice e rivela. Prevenuto com'è, supponente, perchè pensa di aver già nel suo bagaglio la comprensione, impaziente, perchè non sa reggere la tensione del non vedere già e del non sapere subito o presto, poco o nulla duttile e accogliente, perchè rigidamente attaccato a idee e a principi di coerenza formale e di normalità, imbevuto di a priori, di significati presi in prestito dall'uso comune, fondamentalmente incompresi e semplicemente replicati, incline a spiegazioni lineari di causa e effetto, il pensare razionale non ha certo l'animo e la stoffa per entrare in rapporto rispettoso, utile e fecondo col sentire. Ciò che accade interiormente vuole far vedere da vicino la propria condizione, i propri modi, vuole illuminare complesse relazioni intime. Solo uno sguardo riflessivo portato su di sè può accordarsi col senso e con la proposta del sentire, viceversa l'attenzione sempre portata all'esterno, l'abitudine a riferire tutto ciò che si prova a relazioni concrete con altro e con altri non può permettere di cogliere, di capire il senso dell'esperienza interiore. Se ad esempio l'ansia cresce non è per debole capacità di procedere e di avanzare con sicurezza nel rapporto con l'esterno, sempre inteso come unica realtà di riferimento e assoluta, ma per testimoniare uno stato debole e sconnesso di ciò che fa da base d'appoggio al proprio modo di stare al mondo e di procedere, dove manca l'essenziale, dove manca tutto ciò che la renda salda. Senza unità con tutto il proprio essere, senza capacità di ascolto e di dialogo con la propria interiorità, senza conoscenza di se stessi, aperta e approfondita, non addomesticata alle proprie pretese e condizionata da convinzioni di comodo, non può esserci base salda e affidabile. Lontani dal proprio intimo e senza intesa con se stessi, senza aver compreso nulla, aggrappati solo all'agire e al ragionare spiantato, supportato da luoghi comuni, da convincimenti senza conferma interiore e sfasati rispetto al proprio sentire, come si può pretendere di starsene quieti, che non suoni l'allarme, a causa di un equipaggiamento scadente e lacunoso, dell'ignoranza di ciò che si sta realmente facendo di se stessi, di ciò a cui ci si sta nel tempo destinando?

lunedì 21 ottobre 2019

Divergenze

Il modo abituale di trattare il malessere, ciò che interiormente risulta disagevole e sofferto, è divergente rispetto all'intenzione e al senso dell'esperienza interiore. Da una parte c'è l'interiorità che testimonia uno stato di crisi finalizzato alla ricerca di verità e al cambiamento nel segno del trarre da sè consapevolezza e fondamenti d'esistenza originali e propri (i fondamenti dell'essere se stessi), dall'altra c'è la reazione della parte conscia che di fronte al malessere interiore chiede solo di rimettere le cose al punto di partenza, di riprendere la corsa solita o di renderla più efficiente, di scaricare ciò che giudica solo un disturbo, un ostacolo, un impedimento. Questa è la questione delle questioni. La psicoterapia apparentemente prende sul serio la necessità di capire, di lavorare su un problema finora sottaciuto o ignorato, anzichè pretendere solo di passare oltre, di zittire il malessere. In realtà spesso la psicoterapia cerca la presunta causa di un presunto guasto, di un presunto cattivo o non fisiologico funzionamento, cerca spesso un capro espiatorio in qualcosa, sovente nel passato, per spiegare l'origine e il perchè del malessere. Così facendo fraintende e non comprende il senso vero, la proposta che il sentire, che l'intero corso d'esperienza intima e profonda sta avanzando. Non si tratta infatti di togliere l'ostacolo, la spina nel fianco, di correggere un guasto, un (presunto) malfunzionamento, per proseguire più sciolti e regolari, l'interiorità segnala e propone ben altro. L'interiorità non è testimone passiva di un che che si è guastato o che non ha potuto funzionare per il verso giusto, normale, regolare, l'interiorità non è un congegno in cui cogliere sintomi di sofferenza e di cattivo stato da sistemare, è ben di più, è ben altro. E' parte attiva nel registrare gli andamenti e i modi di procedere, nel coglierne il senso, nello svelarne il significato vero, fuori da alibi e ipocrisie, nel vederne la distanza che li separa dal proprio che vorrebbe e che potrebbe generarsi se non prevalesse la modalità passiva di andar dietro, di farsi dire e plasmare secondo idee e modelli, di farsi attrarre da soluzioni e percorsi già segnati e prevalenti. La modalità passiva di entrare in ruoli e parti, sforzandosi di interpretarli adeguatamente, di usare e riprodurre pensieri e risposte già pronte, pur con l'illusione di pensare a modo proprio, in realtà rimasticando pensiero preso in prestito e mai compreso, di seguire un filo non proprio, di stare al passo, di inseguire visibilità e gradimento esterni, di proteggersi da cattiva considerazione altrui come scopo primario, è il vero attentato alla propria vita, perchè la spegne, la devia dal suo scopo. Interiormente gli occhi sono ben aperti, non c'è illusione o mistificazione, c'è consapevolezza di cosa sia il farsi dare e dire, di cosa sia l'alienazione del credersi se stessi e pensanti pur andando dietro e stando dentro un copione già scritto, un pensiero e orientamenti che fanno il verso al senso comune prevalente o a nuove (?) mode e tendenze. Convergere con se stessi, non divergere, avvicinarsi con disponibilità di ascolto e di dialogo alla propria interiorità, cercare in questa unità d'essere e di sguardo le proprie risposte, il coraggio e l'occasione di vedere senza veli e inganni come si è e come si procede, trovare via via linfa di pensiero proprio e progettualità propria può permettere di non stare perennemente e fatalmente sui binari di ciò che è considerato normale o degno o desiderabile, può dare autonomia di indirizzo e di progetto vera e sostanziale. Costa assai di più generare che consumare, che andar dietro, che farsi dare senso e occasioni, modi e scopi. Se si vuole si può però rinascere, da se stessi e non da qualche nuova dottrina o fede. L'inconscio non cerca altro, non vuole altro, non propone altro, se fa il guastafeste lo fa per scuotere e per rompere equilibri di vita passiva e sterile, dissociata da sè e che poggia su altro, non su proprie radici e risorse. L'inconscio interferisce e non dà tregua, col sentire, con sensazioni e stati d'animo, con corsi interiori solo in apparenza sgangherati e nocivi, solo in apparenza disfunzionali e malati, giudicati tali solo da ignoranza e pregiudizio, scuote equilibri, vuole mostrare le falle di un modo di procedere spiantato e tenuto su e in auge da supporti più esterni che interni. L'inconscio esercita forti richiami, anche se la parte conscia non ne vuole sapere di verifiche attente e approfondite, interessata solo a tenere in salute un procedere che non osa e che non sa vedere criticamente  nel suo volto e significato veri, ostinandosi solo nell'illusione di essere già a posto, di saperci fare, nella convinzione che nulla sia più favorevole a se stessi che proseguire senza intralci. L'inconscio, che apre la crisi perchè diventi foriera di cambiamenti profondi, utili e necessari,  è pronto a nutrire, pricipalmente attraverso i sogni (che devono essere analizzati e compresi nei loro autentici significato e proposta, perchè possano dare il tanto che racchiudono), percorsi e processi di presa di coscienza, di formazione di pensiero originale e vicino a se stessi. Divergenze non da poco quelle che oppongono la spinta dell'inconscio a rinascere da se stessi e a diventare soggetti della propria vita, con la tendenza della componente conscia che vuole solo persistere nei suoi intendimenti e proseguire, che pretende di mettere a tacere e che tratta come disturbo e malfunzionamento ciò che si ostina a non capire, che insegue a perdifiato occasioni e opportunità esterne, pensando che siano uniche e essenziali, che ignora le proprie e il compito di scoprirle, di coltivarle e di trarne frutto. Tanto dell'ideologia e della pratica della cura più diffuse e ricorrenti, della ricerca del superamento del malessere interiore oscura e travisa la natura del problema. Non c'è interiormente parte debole e malfuzionante da sanare e da rimettere in riga o in buona forma, c'è divergenza interna al proprio essere sul modo di intendere la propria sorte, la propria vita, i propri scopi, la verità delle cose.