mercoledì 1 maggio 2024

La timidezza: difetto e limite da superare ?

La timidezza è vissuta spesso come un carico ingrato, come un intralcio, come una cattiva disposizione di natura, che ostacolerebbe, che metterebbe a rischio la possibilità di esprimersi al meglio e di cogliere il meglio delle opportunità del vivere. Un fattore di svantaggio dunque in una lettura a senso unico, tant'è che l'auspicio più diffuso è di superarla, come se il superamento della timidezza segnasse un passaggio di crescita, una conquista. La timidezza è infatti spesso motivo di autosvalutazione, come se  equivalesse a un non pieno e adeguato sviluppo, maturazione. C'è la convinzione che ci sia meno forza, una indesiderata insicurezza, e per questo meno ragione di autostima in chi porta dentro se stesso questa impronta del sentire. In realtà, dove non ci si lasci dettare legge e chiudere lo sguardo da una concezione che premia come qualità ideali estroversione, sicurezza e disinvoltura, facilità di contatto e scioltezza di parola, simpatia e solarità e altra pappa simile (pronta da mandare giù, senza necessità di capire), concezione che implicitamente e che anche manifestamente svaluta e boccia come inadeguate tutte le espressioni diverse, come la timidezza,  che non vanno in quella direzione ritenuta ideale, concezione tutta a rimorchio dei luoghi comuni, dei gusti e delle stime di valore più diffuse e prevalenti, che se fanno statistica non fanno per questo scienza e verità, si può riconoscere nel proprio sentire con impronta di timidezza ben altro da ciò che dettano i pregiudizi comuni e personali. La timidezza ha l'intento e la capacità di segnalare, il segnale arriva da dentro se stessi forte e chiaro, che c'è soggezione al giudizio e alla valutazione dell'autorità esterna, allo sguardo altrui, che c'è dipendenza, l'inclinazione cioè a farsi dire ciò che vale e che va manifestato di sè, a assecondarlo per portare a sè conferma e sostegno di approvazione, a rincorrere come validi i modelli esterni, a temere di incorrere nella cattiva resa e figura. La timidezza vuole dunque dare indicazione calda e cocente, stimolo forte e insistito a tenere conto di questa presa e vincolo dipendente, di questa consegna di se stessi così forte all'autorità esterna, per prenderne visione, per lavorarci sopra. Il vissuto di timidezza dà segnali mirati, sapientemente mette all'ordine del giorno, indirizza la ricerca su qualcosa di centrale, su un nodo decisivo. Nello stesso tempo il vissuto di timidezza rende l'esperienza del timore reverenziale, del piegarsi  a quell'autorità del giudizio e dello sguardo altrui come sofferta, dolorosa, sempre incalzante in presenza di altri. Lo sottolinea mostrando quanto è forte la necessità di proteggersi, di darsi riparo. Vale la pena di aprire qui una riflessione sul rapporto col sentire, riflessione che più volte è rilanciata nei miei scritti. Nella attenta riscoperta di ciò che la timidezza sa dire e suggerire come base e terreno vivo di scoperta, di presa di coscienza, emerge il valore del rapporto col proprio sentire in tutte le sue espressioni naturali, spontanee, anche le meno gradite. Il sentire è risorsa essenziale da non trascurare e da valorizzare, sentire che invece, anzichè essere attentamente e fedelmente ascoltato, abitualmente, soprattutto se ha parvenza di non essere conforme a ciò che è più atteso e gradito, è tirato per i capelli, giudicato sbrigativamente, tenuto sotto custodia e controllo, reso oggetto di commento, di manipolazioni e di pretese. Il nostro sentire è la nostra interiorità che intelligentemente ci interroga, ci dice, non comprendere questo significa ridurre in modo netto, compromettere le nostre possibilità di presa di visione e di pensiero, rimanendo in balia della iniziativa del pensiero razionale, che, da solo e dissociato dal sentire, offre solo illusorie spiegazioni valide e chiarimenti, in realtà già incanalati nel pensato consueto, nel preso in prestito da fuori, da idee comuni e prevalenti, quelle che appunto, come dicevo prima, fanno rapida giustizia sommaria di timidezza, che, trattata come ostacolo e insufficienza, è radicalmente travisata e bistrattata, quando in verità ha ben altro valore e capacità di dire. Ma torniamo a guardare con attenzione e senza preconcetti dentro l'esperienza del sentire timido, per farci mostrare cosa rivela. E' un sentire, quello della timidezza, cui si accompagna spesso senso di inadeguatezza, di infelice realizzazione, che rischia di essere predominante, anche se a ben vedere non è  univoco ciò che dice l'esperienza viva della timidezza. Se infatti l'aspirazione a non essere come naturalmente e spontaneamente si è e si sente nel proprio della timidezza, pare di indiscutibile validità, vedendo in altri, a differenza e paragone con se stessi, i campioni da imitare, invidiati quando appaiono liberi da freni e da ritrosie, quando sciolti e disinvolti, con l'apparenza di chi sa vivere e prendersi il meglio delle occasioni di ben figurare, emergere e afferrare gioie e soddisfazioni, nello stesso tempo assieme a una simile aspirazione c'è la sensazione, adottando quel metro e premendo su di sè per ottenere quelle stesse espressioni e prestazioni, di imporre a se stessi un che di coercitivo, che obbliga a andare contro il corso e la corrente naturale, a assumere altro, a dover indossare altri panni, a camuffarsi, a nascondere l'originale, a averne vergogna oltre che ripudio. La timidezza, assieme a soggezione e a timore dell'altrui giudizio, preso a regola e a arbitro della propria vita, è forza di legame con se stessi, anche se in contemporanea a marcata spinta a dissociarsi, a prendere le distanze da sè, a assumere altro come nuova e diversa uniforme da indossare, addirittura come diverso stampo del proprio essere, cui aderire e dentro cui riplasmarsi fino nell'intimo. La spinta a inseguire e a farsi dettare come essere e nello stesso tempo la sensazione di forzare, di plagiare se stessi, la percezione che c'è un vincolo di natura che, per quanto lo si voglia superare, non mostra certo di cedere e svanire facilmente, è la consegna della timidezza. Insomma nella timidezza c'è il segnale della soggezione dipendente, della spinta a dare prova e a superarsi per assecondare le pretese dell'autorità esterna per averne in cambio convalida e per far proprie le sue promesse e contemporaneamente c'è la percezione acuta della suo essere una pretesa in contrasto e in strappo da sè. Anche se oscurate e stravolte le ragioni del vincolo a se stessi, perchè la chiave di lettura è quella che, in adesione al pensato più comune, vede deficit e mancanza di espressioni ritenute valide e garanti del proprio buon rendimento, del proprio saper vivere e del possesso di capacità e qualità adeguate, in realtà, a starci attenti nelle mosse del sentire timido c'è tutt'altro che insipienza, inettitudine e incapacità. Se la timidezza ad esempio non consente pronta espressione di parola, tanto cercata pur di riuscire a dire, per paura di apparire altrimenti vuoti, è perchè la parola, se vuole essere portatrice di senso, deve fondarsi su qualcosa che intimamente avvicinato e compreso (questo ha i suoi tempi e i suoi perchè, non può avvenire a comando), consente di dire, può dare motivo e persuasione di dire qualcosa che ha un senso e che ha senso comunicare, per non parlare a vanvera o inventare discorsi modellando il dire in accordo, per i contenuti e per la forma, con ciò che l'interlocutore può apprezzare. La timidezza non consente espansività e quant'altro è considerato espressione di buona disposizione d'animo, di cordialità, di sentimenti o presunti tali ben impostati e modellati su tutto ciò che è considerato valido, gradito e ottimale, perchè i sentimenti non si inventano, non si recitano, non si vendono e non si mercanteggiano, devono pur avere una radice vera, un fondamento e essere legati a qualcosa che è maturato dentro e in concordanza piena con se stessi, che ha ragion d'essere valida e sincera. La timidezza fa valere le ragioni dell'autentico, di ciò che ha fondamento vero, che non è un artefatto. Ho scritto di recente sull'argomento dell'originale e dell'artefatto. La timidezza è terreno di incontro, di scontro tra le ragioni dell'autentico, di ciò che originalmente, traendo linfa e origine dentro sè, vuole formarsi e vivere e le ragioni dell'artefatto. Una cosa è spendersi per dare buona prova, per simulare ciò che piace, una cosa è apparecchiare, mettere in tavola, riprodurre ciò che è concepito come buono e di valore e degno di buona considerazione, altra cosa è cercare dentro sè le ragioni, le basi, le radici di espressioni umane non messe su artificialmente, ma cariche di vero, di autentico, di consapevole. Tutt'altro che un'espressione deficitaria, c'è un principio di salute e di saggezza nel corpo vivo della timidezza, anche se mescolata e in tensione con la pretesa di dare buona prova, che cerca di spargere diffidenza e discredito su ciò che nella timidezza segna un vincolo tutt'altro che insano e sgangherato con le ragioni dell'autentico e del rispetto per ciò che è intimo, che intimamente si fa valere. Se si impara a rispettare per ciò che racchiude e a valorizzare la timidezza, che non è certo lì per caso, che non si fa valere per caso, si può trovare dentro questa esperienza interiore così complessa e ricca, che rischia di essere liquidata solo come un difetto e una palla al piede, tanto su cui lavorare per conoscersi e per conoscere, per comprendere questioni di natura rilevante inerenti il modo di intendere la propria crescita e la realizzazione della propria vita. Una cosa è spingere se stessi verso la prestazione e la corsa regolata da altro da sè senza discernimento, per averne premio e convalida, altra cosa è riservare a sè il compito e la facoltà di comprendere e di assecondare lo sviluppo di ciò che vale, che richiede anche frenarsi, la timidezza come abbiamo visto frena, trattiene non per caso, ma con lo scopo intelligente di ascoltarsi di darsi occasione di scoperta, per cercare e trovare con base e fondamento di accordo con se stessi chiarimenti e risposte necessarie per procedere con autonoma capacità di vedere, di comprendere e di guidarsi. Una cosa è farsi portare e farsi dire (scorciatoia, soluzione facile e immediata da afferrare e  consumare), una cosa è affidarsi e ossequiare l'autorità esterna dei giudizi e delle regole condivise, per indirizzare non solo le scelte, il destino, le mete da raggiungere, ma persino per farsi regolare e dettare le espressioni di sè più intime inerenti sentire e sentimenti, per ricevere da questa autorità apprezzamento e conferma, altra cosa, ben altra cosa, è mettere al centro come condizione imprescindibile  il vincolo a se stessi come natura da rispettare, come fondamento vivo e essenziale per trovare da sè autonomamente, per cercare dentro di sè le proprie risposte e ragioni d'esistenza comunque non prescindendo, non rinnegando, ma viceversa valorizzando il proprio sentire nelle sue declinazioni vere, sentire che, come la timidezza, con intelligenza dice, saggiamente coinvolge, indirizza lo sguardo e conduce a capire. Consegnarsi ad altro per farsi dettare e riconoscere presunta maturità e capacità di vivere e di crescere o tenere stretta a sè la facoltà e la capacità di capire e di capirsi, di comprendere da sè, di riconoscere con i propri occhi, fedelmente a se stessi, in unità col proprio intimo vero, cosa ha  senso e valore, cosa, in consonanza con se stessi e coerentemente con le proprie originali risorse e qualità, vuole vivere, tradursi e realizzarsi, questa è la posta in gioco. La timidezza è ben altro che un difetto di funzionamento.

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