domenica 10 novembre 2019

A proposito di guarigione

Riferita a situazioni di sofferenza interiore l’idea corrente di guarigione, anche se in apparenza propizia e assai desiderabile, racchiude spesso il principio del dissidio con se stessi. Le è insita infatti la volontà di allontanare e di mettere a tacere parte di sé, giudicata e trattata come estranea e ostile, sicuramente incompresa in ciò che sa e che vuole dire e dare. Se nell'uso, assai frequente, di psicofarmaci questo atteggiamento di insofferenza e di paura nei confronti dell'esperienza interiore disagevole è esplicito e ben riconoscibile, non di meno la psicoterapia può ricalcare analoga intenzione. Non solo la psicoterapia che dichiaratamente si propone di intervenire sui comportamenti, di correggere modi di sentire e di reagire ritenuti anomali e, in gergo, "disfunzionali", ma anche la psicoterapia che si proponga di capire, di favorire la comprensione, può muoversi nell'orbita del voler contrastare e debellare l'esperienza interiore sofferta, da subito e pregiudizialmente ritenuta espressione di un guasto. La ricerca, pensata a fini di guarigione, delle cosiddette cause nascoste del disagio, del malessere interiore, è spesso un lavorio guidato dalla componente razionale che, con l'intento di spiegare e di annullare ciò che comunque e in modo preconcetto considera uno stato anomalo rispetto a un presunto stato di equilibrio o normale, ipotizza, soprattutto suppone e poi crede di riconoscere cause plausibili, nessi, legami di causa e effetto. L'esperienza interiore, il sentire, comunque si proponga, anche nelle forme più difficili e sofferte, dice, in modo mirato, sensato e intelligente, propone, induce a fare intima esperienza per portare alla conoscenza di se stessi: sentire per capire. Non si tratta di formulare ipotesi attorno al perché del malessere, per tentare di domarlo e di spazzarlo via, confezionando col ragionamento spiegazioni, tanto in apparenza plausibili e coerenti, quanto lontane dalla sintonia col sentire, che, a riprova della loro  infondatezza e inutilità, continua a incalzare e a premere anche dopo le cosiddette interpretazioni, che parevano illuminanti e risolutive. Si tratta di imparare ad ascoltare, a cogliere e a raccogliere l'intima proposta che l'interiorità con il vissuto, col sentire, anche arduo e sofferto, mette in primo piano, rende viva e tangibile. Ci sono robusti ostacoli sulla strada dell'incontro aperto, disponibile all'ascolto,  con la propria interiorità, con ciò che propone nel sentire. Si parte spesso dal presupposto di aver già raggiunto, in virtù dell'età anagrafica o di alcune realizzazioni compiute, ciò che, ritenuto maturo e sufficiente, darebbe diritto a uno stato di stabilità interiore, di benessere. L'iniziativa del profondo, che nei vissuti, nel sentire agita le acque, che spesso frena la corsa solita e la complica, che esercita con forza pungoli e richiami a guardare dentro se stessi, che cerca di spingere l'individuo a riconoscere fragilità e instabilità nell'assetto del proprio modo d'essere e di procedere, non frutto di patologia o di cattive interferenze, ma tale perchè costruito su fondamenta tutt'altro che salde, non è affatto compresa, nè concepita come possibile. Le fondamenta sono niente affatto salde, quando, condizione non certo rara, tanto di sè è stato e è plasmato a copia di altro, affidato a soluzioni trovate fuori e più da fuori, dallo sguardo comune, che da dentro, dal proprio sguardo, sostenute e confermate, con l'illusione che valgano a corrispondere a se stessi. Il proprio profondo non ignora e non tace i limiti e la distorsione di una simile condizione, che piega l'essere e lo consegna all'adesione ad altro, alla negazione e all'oscuramento di se stesso, ma l'altra parte di sè, conscia, non ne vuole sapere, insiste nel confermare ciò che sinora ha concepito come valido e insostituibile. Insomma da una parte l'interiorità segnala lo stato problematico e insufficiente delle cose e richiama in modo perentorio alla scoperta del vero e al compito di formare ciò che ancora non c'è per diventare se stessi, per conquistare vera libertà, autonomia di pensiero e di progetto e dall'altra la parte conscia, ritenendo tutto già compiuto e chiaro, oltre che insostituibile, concepisce solo come disturbo e danno, di fatto squalifica come anomalia l'iniziativa e la proposta profonda, cestinata e combattuta come esperienza interiore negativa, penalizzante e basta. Capita che anche nel percorso intrapreso in psicoterapia si vada, non poche volte, volentieri a cercare presunte cause di ciò che nel proprio malessere si ritiene, per precocetto, essere l'espressione solo di un disturbo, di un mancato stato normale, causato dal probabile agire di fattori e condizionamenti avversi attuali o più probabilmente remoti. Nello sforzo di capire, facendo tutto un lavoro, non riflessivo e di ascolto, ma di ragionamento, dove si commentano le esperienze interiori più che ascoltarle, si va spesso e volentieri a ritroso nella propria storia a cercare ipotetiche cause. Quando da qualche parte si ha l'impressione di trovare un nesso causale verosimile, che finalmente permetta di  confezionare la spiegazione del perchè del malessere, ci si persuade di essersi capiti, ma in realtà si sono solo rigirate le solite idee, un poco rese più articolate e sofisticate. La parte profonda di se stessi, che nel sentire dice e propone, che vuole calare nella consapevolezza nuova di sé, ben più vicina al vero di tutto il consueto pensare e rimuginare, rischia dunque di rimanere  ancora inascoltata e incompresa, anche dove, come in psicoterapia, ci sarebbero le migliori condizioni e intenzioni di capirsi, di avvicinarsi a se stessi. Bisogna imparare a rispettare e a valorizzare la parte intima e profonda di sé, che nel sentire prende iniziativa e coinvolge, bisogna imparare ad ascoltarla e a comprenderne il linguaggio e la proposta. Finchè si fa opposizione, finchè si pensa che ansia e altro, che interiormente si vive, siano prima di tutto piaga da togliere, anomalia da correggere, finchè ci si pone in contrasto o, pur cercando di capire, si dà predominio al ragionamento, alla forma di pensiero che dall'alto e unilateralmente interpreta e che spiega, che nella sostanza non sa ascoltare, non sa accogliere e dialogare con l'interiorità e col sentire, ci si destina ad andare avanti all'infinito nella incomprensione e nella discordia con la propria interiorità. Serve certamente aiuto per imparare a dare ascolto rispettoso alla propria interiorità, a riconoscerne fedelmente voce e linguaggio, sia nel sentire che nei sogni, autentica fonte di riflessione e di conoscenza. Se anziché far la guerra a ciò che si prova interiormente, se anzichè subordinare il proposito di conoscersi a quello di  eliminare il malessere (non capendo che il malessere, se intimamente ascoltato e compreso, apre a se stessi e rivela, induce a vedere e a costruire, a crescere) si imparasse a conoscere se stessi con apertura nuova al proprio intimo, si trarrebbe grande giovamento da tutto ciò che succede interiormente. Il percorso interiore spontaneo e vero, senza rifiuti e tentativi di correzione, può essere arduo e doloroso, accidentato, ma è sensato, ha un senso, stimola e apre l'individuo al vero, è dalla parte della sua conquista di autonomia di pensiero, di maturità vera. Se accompagnata da sguardo e da apertura riflessiva tutta l'esperienza interiore, non osteggiata e non soffocata, cala nel vero e alimenta la presa di coscienza, conduce l'individuo alla crescita che gli è possibile e che gli spetta, se non vuole perdersi e nascondersi nel qualunque. Intesa in questo modo, come la profonda trasformazione del diventare se stessi, del dare vita al proprio, attraverso il rapporto e il dialogo con la propria interiorità, ristabilendo l'unità di tutto il proprio essere e non invece, come più spesso si vorrebbe, come ritorno al solito e al normale, con messa a tacere (illusoria) della propria  parte profonda, l'idea di guarigione acquista per se stessi un significato valido e pienamente favorevole.

lunedì 4 novembre 2019

La guida interiore

La parte conscia dell'individuo si fa vanto di superiorità rispetto alla componente interiore e profonda nel garantirgli capacità di guida affidabile, la suppone. E' comprensibile che lo faccia, visto che nell’esperienza di molti, questa parte di se stessi, che fa leva su volontà e pensiero ragionato, da sola e volendo essere sola, ha tirato e tira la carretta. La parte inconscia però non è, come ritiene spesso il pensiero comune, un magma di paure, un serbatoio di brutte esperienze, uno strepitio di pretese infantili e di convincimenti irragionevoli e assurdi, dunque una parte inaffidabile. L'inconscio è la parte di noi stessi che sa vedere le cose che ci riguardano da vicino con trasparenza e fedeltà di sguardo, sapendo, ben diversamente dalla parte conscia,  contemporaneamente allargare la prospettiva per cogliere l'insieme e ciò che ne sarebbe nel tempo di noi stessi procedendo nella modalità consueta. La parte conscia vuole la continuità, dice cose che confermano solo ciò che è solita credere, sostanzialmente non sa staccare da ciò che le è abituale e che dà per scontato, per vedere riflessivamente e senza pregiudizio cosa sta sostenendo e in che modo. La parte conscia si illude di essere lucida, obiettiva, capace di riconoscere e di garantire a se stessi il meglio e il più favorevole, in realtà è spesso cieca e passiva, ripete più di quanto non creda luoghi comuni e si avvale nel pensare, nel ragionare sull'esperienza di attribuzioni di significato prese in prestito e date per scontate, cerca all'esterno convalide rassicuranti e si fa persuadere dall'approvazione altrui, ne dipende, perciò si chiude e si rigira su se stessa. Non sa vedere la passività che la costringe a far suo ciò che è già definito come valore e significato, non sa vedere la propria inconsistenza di pensiero. Perché il proprio pensiero sia fondato e affidabile, tutto andrebbe capito partendo da se stessi, da scoperta di significati dentro e attraverso la propria esperienza, i propri vissuti. Le proprie vere ragioni di vita e potenzialità tutte ancora sarebbero da scoprire, da riconoscere. L'inconscio non ignora tutte queste questioni e necessità vitali, l'inconscio è la parte di noi legata a ciò che autenticamente e profondamente siamo, con cui e per cui siamo venuti al mondo e che potremmo far vivere e realizzare, è la parte che non chiude gli occhi, che sa riconoscere il niente camuffato da tutto, il vuoto, l'inconsistente dove la parte conscia crede ci sia chissà quale sostanza. L'inconscio è il nostro saper vedere senza illusioni e trucchi, il nostro porre in primo piano il vero, rispetto alla tendenza a far funzionare comunque le cose, cercando a testa bassa di non perdere punti, di non rimanere indietro rispetto agli altri, provando con ogni mezzo a far girare il meccanismo, a proseguire comunque. L'inconscio contrasta la tendenza dominante nell'individuo, cerca di fargli sentire lo scricchiolio dell'insieme dell'assetto del modo di essere e di procedere, che pretenderebbe di essere solido, quando in realtà è fragile, sconnesso. L'inconscio al mantenimento di questo insieme non dà manforte. Ansia e quant'altro trovi espressione nel disagio interiore servono a far sentire l'intimo profondo disaccordo, a far sentire la necessità di un cambiamento di sguardo e di rotta, a consegnare il compito non di tirare avanti dritto incuranti, ma di cominciare davvero a guardare senza veli, a capire come si sta procedendo, di cosa si è sostanzialmente privi. Il vizio di fondo di tanto pensiero psicologico e psicopatologico è di considerare l'uomo come un meccanismo che deve stare dentro, funzionare regolarmente e realizzarsi nel cosiddetto "reale", il che altro non significa se non lo stare sui binari e nell'adesione a ciò che, pur con tante varianti e opzioni alternative, nella sostanza è già modellato e dato, già pensato e detto, che nulla ha a che vedere con la formazione di pensiero proprio, con la scoperta di se stessi e del proprio progetto, che l'inconscio stimola con insistenza, che vuole con forza, perchè condizione per essere artefici del proprio destino e liberi, non gregari. Dove la parte conscia tira dritto e consolida solo il pregiudizio, l'inconscio "pensa" e cerca di far sentire la sua presenza, di esercitare la sua influenza, tutt'altro che negativa, anche se vissuta come disturbante. L'inconscio non è lontano o destinato per sua natura a rimanere tale. Anzi il nostro inconscio vuole esserci nella nostra vita, stimolarci e sostenerci nell'impegno di crescita, consegnandoci (attraverso i sogni principalmente, ma anche plasmando tutto il corso interiore dei nostri vissuti, del nostro sentire) nuova linfa e pensiero, vuole che sia condiviso dalla nostra parte conscia, cui chiede coinvolgimento, impegno e serietà, sacrificio della pretesa di capire tutto in un attimo o, peggio, di sapere già. L'inconscio non è uno strano accessorio o una presenza aliena, non è un'entità misteriosa, destinata a sfuggirci, di cui solo gli esperti possono dire, con quale cognizione di causa è tutto da vedere. L’inconscio siamo noi in una parte ed espressione del nostro essere, che ahimè spesso teniamo lontana, sminuiamo, sul cui conto abbiamo pregiudizi, verso cui, per definirla, impieghiamo stereotipi, che in definitiva molto spesso non conosciamo nel suo vero volto, significato e valore. L’inconscio è la parte di noi che raccoglie e documenta ogni passo del nostro procedere, che evidenzia continuamente nelle nostre emozioni e stati d'animo il vivo e la complessità di cui è fatta la nostra esperienza, il vero e l'intero, senza omissioni o aggiustamenti di significato o riduzioni di comodo, come, pensando col ragionamento, tendiamo spesso a fare. Capita che già giovani o giovanissimi si veda il proprio corso d'esistenza, che si vorrebbe quietamente e piacevolmente sereno, turbato da malesseri o da crisi interiori, non per caso, non per cedimenti o per insufficienze banali, non per difetti di buon funzionamento, ma per ragioni più profonde, di mancanza di basi salde di unità con se stessi, di conoscenza di se stessi, senza le quali è compromessa la capacità di farsi buoni interpreti di se stessi e di guidarsi autonomamente, di sventare il rischio di farsi sostituire, di affidare la proprio vita e il proprio futuro a guida esterna piuttosto che interna. Già pare infatti modellato, spiegato e detto ciò che va inteso per realizzazione personale, per crescita, per ricerca del bene della propria vita. Le tappe, le occasioni, i modi di intendere la maturità sembrano già definiti e scolpiti nell'esempio comune, nel pensiero vigente, prima di ogni possibilità e impegno di scoperta e di ricerca personali. Il rischio di saltare la propria ricerca e di imboccare strade presegnate, tradendo, deludendo le proprie ragioni e aspirazioni profonde, nemmeno indagate, coltivate e conosciute, è fortissimo. L’inconscio non per caso intralcia il cammino, fa sentire con ansia, attacchi di panico o quant’altro cosa vacilla e manca, forza l'individuo col malessere ad andare più verso se stesso che verso l‘esterno e verso altri, gli fa toccare con mano la sua non familiarità e lo smarrimento nel contatto con il proprio mondo interiore, gli fa sentire l'urgenza di porvi rimedio, di non procedere incurante di questo stato di incomprensione con se stesso. Non è distruttiva la pressione che l’inconscio esercita sull'individuo, è provvidenziale e saggia, gli vuole togliere illusioni, vuole spingerlo a delle verifiche attente e approfondite da farsi con i propri occhi finalmente. L'inconscio vuole aprire all'individuo una stagione di profonda trasformazione per sostituire il posticcio di una identità e di un senso della propria vita prese in prestito, fragili, non verificate e comprese davvero (fondate più sull’imitazione e sulla ricerca dell’intesa con l’esterno e con gli altri che sul confronto con se stesso) con la presa di coscienza, con la formazione di proprie idee fondate e verificate, con la formazione di propria visione, in stretta unità e accordo col proprio intimo e profondo. Il rischio per l'individuo di sprecare la propria vita diventando copia d’altro e dipendente da altro, che, nel pensato e nell'esempio comune, nel già organizzato e strutturato, nel cosiddetto "reale", è pronto a suggerire, a convalidare, a sostenere, a dare le dritte, non è sottovalutato dalla parte profonda di se stesso. Non è un caso se l’inconscio fa il guastafeste, se fa ad esempio sentire senso di fragilità, di sfiducia, senso di vuoto e di inutilità. Simili vissuti sono facilmente giudicati patologici, sbagliati, espressione di qualcosa che non funziona come dovrebbe. In realtà l’inconscio turba il quieto vivere per dare indicazioni impegnative quanto fondate e vere, non ci può essere ad esempio fiducia in se stessi se di proprio non si è ancora compreso e messo assieme nulla. L'inconscio può diventare la guida più affidabile e sicura, se si impara a comprenderlo e a rispettarlo in ciò che è, se se ne condivide lo spirito e l'intento, se, dando risposta appropriata al malessere interiore, si decide, procurandosi l'aiuto valido e necessario, di cominciare un serio lavoro su se stessi, di aprire una stagione di crescita e di cambiamento. L'inconscio non difende il quieto vivere, perchè non ha a cuore il persistere in ciò dentro cui si è solo pallida immagine e inautentica di se stessi. L'inconscio è impegnativo, perchè non appoggia passività e rinuncia, illusioni e comodo, ma è un potente alleato nell'impegno di far vivere se stessi, di mettere al mondo con la propria vita qualcosa che abbia un contenuto originale e un senso.

domenica 3 novembre 2019

Non basta, ma...

La difesa a oltranza di quanto raggiunto e fino a oggi messo assieme di cose fatte, di modi di procedere e di pensarsi, spinge molti a sentenziare che il malessere interiore, che quanto vissuto interiormente, che non concede quiete, che stona con le pretese che tutto sia a posto e valido, sia solo un intralcio da togliere di mezzo, una anomalia, una patologia da correggere e sanare. Tenersi stretto l'usuale e conosciuto, far fuori ciò che di se stessi nel sentire complica e ostacola il procedere, conduce presto a giudicare ciò che interiormente non dà tregua come un disturbo, come espressione di malfunzionamento, di guasto cui mettere rimedio, cui imporre la cura, il ricondizionamento, la disciplina del rientro nella cosiddetta normalità. Ciò che ci si tiene stretti, considerato irrinunciabile, valido e sufficiente per definire se stessi e il proprio, fa acqua, l'intimo di sè lo dice, soffia forte l'insicurezza, il timore, l'apprensione, quell'ansia giudicata insana e maledetta, come di chi è smarrito, di chi sente e profondamente sa di essere in pericolo perchè appeso a un nulla, che se si confrontasse a viso aperto con le incognite della vita dovrebbe riconoscersi senza validi punti d'appoggio e di riferimento, senza capacità di capirsi e di capire, confortato solo dall'abitudine, dal non stare troppo a chiedersi, dal seguire l'andazzo e il pensato comuni, dall'affidarsi a qualche invenzione e costruzione a volo libero del ragionamento, che pare soddisfare l'esigenza di capire quel che c'è da capire, che pare dare sicurezza. Non basta ciò dentro cui ci si rinserra, tirando calci come fosse presenza estranea e nemica alla propria interiorità, rigettando come fosse solo roba molesta, senza ragione e scopo, ciò che sta interiormente con insistenza tentando di imporsi all'attenzione, di far capire che tanto di ciò a cui si è affidati è malcerto e non sostenuto da conoscenza fondata e approfondita, non basta, ma ci si attacca ostinatamente confermandolo come valido e vero. Non basta ciò a cui ci si tiene tenacemente legati, è solo una parvenza di consapevolezza, è solo una apparenza di realizzazione e di identità proprie, che si reggono più su conferma esterna che interna, a starci attenti lo si avverte, perchè tanti stimoli e suggerimenti del sentire lo svelano, non basta e spesso scricchiola, ma lo si considera insostituibile. Se è comprensibile che, in assenza d'altro (quando ancora non ci si è impegnati a aprire un'altra strada, a generare altro che non siano le risposte già pronte e già conosciute), affidati a un modo di concepire la vita, che esclude che possa esserci altra fonte che non sia esterna per la propria crescita, ci si tenga stretto l'abituale e conosciuto, non meno potrebbe diventare discutibile ai propri occhi soffocare e liquidare come presenza molesta e insana la propria intima voce, colpevole di scuotere le false e fragili certezze, di pungolare alla ricerca del vero. Un barlume di dubbio che non ceda presto alla voglia di tirare avanti lasciandoselo alle spalle, una spinta di desiderio di incontro e di scambio approfondito con se stessi per aprire gli occhi senza compromessi e arrangiamenti di comodo, che non sia fugace, potrebbe farsi strada. Solo il coraggio di esporsi al confronto con la parte intima e profonda di se stessi, che agita il problema, che solleva la questione del vederci chiaro, del cercare proprie risposte non truccate e non raffazzonate, del coltivare e generare una visione e un pensiero propri, potrebbe trarre in salvo la propria vita e offrire a se stessi qualcosa di valido e di consistente, che, alimentato, guidato e sostenuto proprio dalla propria parte profonda, porterebbe ben oltre quella simulazione di esistenza, che, pur non bastando, ci si è tenuti  fino a oggi ostinatamente stretta.

venerdì 1 novembre 2019

La grande manipolazione

Una non piccola parte o minoritaria delle cure sul terreno psicologico, delle idee e dei principi che le sottendono e sostengono, punta alla correzione, al superamento di ciò che interiormente intralcia il corso abituale dell'esperienza, che lo complica, che non asseconda l'agire solito, che non soddisfa le pretese della parte cosiddetta conscia, che non le dà solidarietà, che anzi la frena, le mette ostacoli. La parola d'ordine è curare, nel verso del combattere, neutralizzare, manipolare e correggere ciò che, inteso a priori e reso ferrea convinzione dal senso comune e da tanti pretesi portatori di scienza e conoscenza, come disturbo e cattivo funzionamento, non è compreso come richiamo e come proposta intelligente e sensata. Ciò che interiormente crea ostacolo, che intralcia non è uno stato insano da curare, ma è l'espressione di una iniziativa ben ponderata, della ferma contrapposizione della parte profonda del proprio essere a proseguire inconsapevoli, ostinati difensori di un'idea di se stessi e della propria vita che, anche se fragile e spiantata, dettata e sorretta da modelli e da credo comuni e non fondata su esperienza e su riflessione proprie, non tollera discussione. C'è una tale assuefazione a idee e a valutazioni date per scontate, che il fraintendimento passa per regola e per assoluto. L'esperienza interiore non è una meccanica da regolare, è una espressione forte e degna della capacità di cui nel nostro profondo disponiamo di guardare nell'intimo ciò che stiamo facendo di noi stessi, di renderne visibili, tracciandole e marcandole nel sentire, le implicazioni. Da un lato ce la raccontiamo, dall'altro il nostro sentire vuole ridarci il significato vero, il perchè, l'intenzione racchiusa in ciò che diciamo, che facciamo, nelle risposte che diamo, nelle iniziative che assumiamo. Non solo, ma la parte profonda di noi stessi vigila su ciò che sta evolvendo e non trascura di darci segnali, che vogliono farci comprendere la rotta che stiamo seguendo, ciò che rischiamo in termini di ritardo di crescita vera e di non possesso di autonomia, di mancanza di bagaglio di consapevolezza di noi stessi, di mancato possesso di punti di riferimento indispensabili per non andar dietro e per non farci dire dove andare, dove portare la nostra vita e verso quali appuntamenti, mete e realizzazioni, per comprenderle e indirizzarle viceversa in intesa con noi stessi. Non sono casuali ansietà, attacchi di panico, dove non ci sia vicinanza a se stessi, costruzione e disponibilità di idee e di visione proprie, capaci di non consegnare la propria vita a regola e a guida esterne, piuttosto che a proprie scoperte di significato e di valore. Non è un caso che anche i più giovani siano assaliti da simili richiami potentissimi, come ansietà diffusa e attacchi di panico, che la parte profonda dà per far valere e prevalere la necessità di mettere al primo posto il  radicamento in se stessi e l'intesa con se stessi piuttosto che con altri e col fuori, per non ritrovarsi in balia di influenze esterne, vincolati alla  tendenza a farsi portare e confermare dagli altri piuttosto che all'istanza di formare e di dotarsi di guida e di bussola proprie. Il rischio di sintonizzarsi con idee e con modelli comuni, piuttosto che col proprio intimo e profondo, per formare capacità di visione e consapevolezza, il rischio di infilare la propria vita in percorsi stridenti e comunque incomprensivi di ciò che è più consono con se stessi e con le proprie ragioni d'esistenza e potenzialità, è un rischio non da poco. Non per caso in una tale situazione in cui, a dispetto delle apparenze, l'individuo  procede sprovvisto dell'essenziale e incautamente, il profondo, con intelligenza e con lungimiranza, lo incalza col vissuto di ansietà, di apprensione e di paura insistente, di senso di insicurezza, di fragilità e di smarrimento, che non danno tregua, fino a dare lo scossone e l'allarme estremo, fino al timore panico che la vita possa bruscamente interrompersi, che non sia più certa. Non va mai dimenticato che ciò che si propone nel sentire, anche nelle sue forme più estreme, spiacevoli o conturbanti, ha un senso e dà volto significativo e efficace, mai agendo fuori misura o a casaccio, a ciò che, rimanendo abbarbicati alla superficie e a idee solite circa se stessi e il significato delle proprie esperienze, si rischia di non comprendere, anzi di rigettare e di liquidare come disturbo e come patologia. L'intelligenza del profondo rischia in tantissimi casi di essere misconosciuta e addirittura fraintesa e distorta come segno di debolezza e di incapacità, tanto che assai di frequente le cure pretendono di imporre a questa parte, a ciò che determina interiormente, disciplina e correzione come fosse stupida e insipiente, capace solo di risposte sconvenienti e disfunzionali. Siamo al colmo dell'arroganza e della presunzione della parte conscia, che pretende di dettare legge con i suoi principi rigidi, frutto di docilità al senso comune e alla logica prevalente, alla parte di se stessi che più sa e che più saprebbe trarre in salvo e rimettere in piedi l'individuo come soggetto autonomo e consapevole.

domenica 27 ottobre 2019

Le certezze ignoranti

La relazione che in situazioni di disagio e di sofferenza interiore si stabilisce con ciò che vive dentro se stessi è più spesso di insopportazione e di aperto conflitto che di dialogo e di ricerca di intesa. Senza esitazioni ciò che risulta spiacevole è giudicato insano, nocivo, deleterio, altro e diverso da ciò che ci si dice certi che dovrebbe esserci. Tutto sembra dare conferma a simili tesi, a simili certezze: l'opinione e il credo comune, i tanti terapeuti pronti a promettere sollievo da una sofferenza giudicata un peso e un danno psicologico da cui sarebbe auspicabile, legittimo liberarsi. Teorie psicologiche e tecniche coerenti con l'idea che ci sia nello stato di malessere un disturbo cui porre rimedio per riportare al dritto, a normalità la situazione interiore, fanno agli occhi dei più da garanzia all'idea che sia assolutamente giusto, valido e sensato combattere come nemico e insano lo stato di disagio e di sofferenza interiore. Peccato che tutto l'edificio delle spiegazioni in termini di alterazioni e di disturbo, con definizioni e etichette diagnostiche varie, dell'esperienza interiore disagevole e sofferta, che l'idea dell'individuo a norma e normofunzionante, siano il frutto di una visione monca e parziale, di un pregiudizio, di un modo di concepire l'intima esperienza che nulla ha a che vedere con ciò che è, che vale davvero, che le è insito, che vuole dire, che intende proporre, conseguenza di un modo di concepire l'uomo che non comprende cosa porti realmente dentro se stesso. Va detto che non è casuale che, come dicevo all'inizio, la risposta dell'individuo, che sperimenta dentro se stesso disagio e malessere interiore, sia di contrapposizione e insofferenza, di spinta a debellare come nemico  ciò che prova di difficile e sofferto, a evaderne il più possibile, a cercare di metterlo a tacere. L'individuo non è abituato a trattare ciò che vive interiormente se non come appendice subalterna, con la pretesa che si allinei, che sia coerente con ciò che pensa valido e giusto, con ciò che suppone e auspica essere normale. Tutta l'attenzione e le attese sono rivolte all'esterno, la realtà è intesa solo come il concreto insieme di condizioni esterne, le relazioni sono solo relazioni con altri e con altro che sta fuori. Il mondo interiore non esiste se non come satellite del mondo e della realtà esterna. Cosa si pensa abitualmente ci sia dentro se stessi se non uno stato di bisogno, se non il desiderio di acciuffare, di avere, di perseguire questo o quello che sta fuori, se non l'abilità più o meno avanzata di stare al passo, di stare dentro la cosiddetta realtà,  di stare sopra la giostra del vivere disegnato fuori? La propria interiorità è ben di più, anzi è ben altro, ma non la si conosce, non se ne ha confidenza e conoscenza. Non è stata coltivata e non s'è formata la capacità di entrare in rapporto con l'esperienza interiore, di ascoltare il proprio sentire, di intendere l'intimo e l'autentico di ogni sensazione, emozione, stato d'animo. Le antenne sono tutte rivolte al fuori e non al dentro. Nel corso del suo percorso di vita l'individuo ha appreso tante cose, a adattarsi, a intendersi col fuori, ma assai poco o per nulla ha sviluppato la capacità di relazione col dentro, col proprio intimo, la capacità di incontro, di ascolto e di dialogo con il proprio sentire, con la propria interiorità, di intenderne il linguaggio, di scoprirne la qualità, il valore, l'affidabilità. La connessione col fuori è stata e è vissuta come la priorità, anzi come la condizione vitale e essenziale, col dentro non c'è necessità di essere connessi, di intendere, di intendersi. Le antenne rivolte al fuori sono pronte a intendere gli stimoli, i segni del linguaggio convenzionale, a riprodurlo, a rimasticarlo. Ciò che succede dentro se stessi deve solo allinearsi con ciò che la giostra richiede, con i suoi schemi e tempi e se si provano ad esempio impaccio, freni, esitazioni, se non c'è carica pronta, ecco che questo appare subito come un difetto di funzionamento, come l'insicurezza che non dovrebbe esserci, cui opporre lo sprone a essere e a prodursi altrimenti, a correggersi. Addestrati a stare al passo e a norma, a fruire dello schema comune come unica fonte e occasione, abituati solo a stare sulla giostra, pensando che questa sia la realtà, la realtà in assoluto, che ogni sensazione e moto interiore che non la asseconda sia solo un ritardo, un handicap possibile, un che che isola e che fa stare indietro, si è già nella posizione di non rispettare ciò che vive dentro se stessi, di non comprenderlo, di forzarlo a stare solo al passo con quell'unica pretesa di stare a norma. Cosa succede se la parte più intima e profonda di se stessi, ben consapevole di questa tirannia dell'andare dietro, di un'interpretazione della vita così parziale, distorta e soprattutto cieca, automatica, non rinuncia a porre l'ostacolo, perchè finalmente si prenda visione del proprio stato, ci si guardi dentro, si consideri cosa ne è di se stessi, cosa si sta facendo nel rapporto con se stessi, col proprio intimo? Cosa succede se la parte profonda di se stessi, assai meno succube del pregiudizio, consapevole della posta in gioco, cerca di mettere in crisi il tutto per riaprire l'individuo alla possibilità di capirci qualcosa di se stesso, per non perdersi, per trovare nuova e diversa linfa e ispirazione alla propria vita che non sia proseguire a testa bassa? Ahimè spesso la parte che più realmente soffre il limite di essere cieca e senza visione, ma che si arroga di essere capace e lucida, liquida la parte interiore, che non l'asseconda nelle sue pretese di efficienza e di stabilità, come insana e da rimettere in riga. E' una beffa a proprio danno, è il culmine dell'autoinganno, quello che si consuma per effetto delle certezze ignoranti, che dicono che bisogna correggere e sedare, mettere a tacere e riportare al dritto e al normofunzionante ciò che interiormente si fa sentire, la voce interna, che tutto è meno che stupida o dissennata, che tanto saprebbe e vorrebbe dare, ma che, troppo spesso, non si è capaci di capire e di rispettare.

sabato 26 ottobre 2019

Psicoterapia a che scopo?

La conquista fondamentale, che la psicoterapia dovrebbe consentire, perchè sia davvero utile, capace di portare al cambiamento di qualità nella propria vita, è imparare a stare fiduciosamente ben connessi col proprio intimo sentire e con il succedersi di tutto ciò che si vive interiormente, anche quando difficile e disagevole, imparando a reggerne la tensione, a non fuggire, di pari passo con l'acquisizione e con lo sviluppo della capacità riflessiva, che permette di vedere, come guardandosi allo specchio, cosa dentro il proprio sentire, dentro la propria esperienza interiore prende forma, di riconoscerne l'autentico significato, di raccoglierne l'originale proposta. La capacità riflessiva di cui parlo, che è conquista fondamentale, non c'entra nulla con la riflessione comunemente intesa e praticata, che si traduce in un dire e rimuginare razionale sul conto dell'esperienza, mettendole sopra spiegazioni e deduzioni, sviluppando idee che coi vissuti interiori, col sentire, reso oggetto di speculazione razionale, non hanno relazione, che non gli concedono parte attiva e propositiva. Nel sentire c’è la parte di sè che può dare a ognuno la terra sotto i piedi per ritrovarsi e per comprendere, c'è il radicamento nel vero, la guida viva per non allontanarsi mai da se stessi e dal cuore della propria ricerca. Parlo di ricerca perché il senso vero del nostro vivere non è adattarci o infilarci in qualche dove che ci definisca e che ci dia un illusorio senso di esistere e di realizzarci, ma è vedere con i nostri occhi, trovare dentro di noi le risposte e riconoscere quale vuole e può essere il senso, lo scopo della nostra vita, secondo noi stessi, coerentemente con noi stessi. La piega prevalente dell’esistenza è spesso di farsi dare dall'esterno risposte, di seguire e inseguire tracce e guide esterne, di identificarsi con altro fuori e attorno a sè, che se da un lato già sembra dire, consentire, dare risposte e soluzioni possibili, dall'altro finisce per delimitare le espressioni, le scelte, i modi della propria vita. Il nostro profondo, depositario delle nostre più originali ragioni, potenzialità  e capacità di pensiero, non ci sta a un simile passivo adeguamento, che rischia di falsare e di far fallire la nostra vita, di toglierle il bene supremo, quello della consapevolezza, della capacità di vedere con i nostri occhi e di generare il nostro pensiero, della libertà di metterci su un cammino nostro, sentito, consapevole, fattivo e creativo, non affidato al conformismo o all’approvazione/conferma altrui. La parte profonda non sta quieta e preme per sollecitare ricerca, presa di coscienza di come ci si sta muovendo, spesso e da gran tempo in modo gregario (anche se con l'illusione di essere artefici delle proprie idee e delle proprie scelte), di cosa si sta facendo di se stessi, di cosa viceversa è possibile mettendo al centro e senza risparmio il proprio sguardo, onesto, trasparente, acuto e pronto a riconoscere anche ciò che di se stessi dispiace ammettere, ma che per crescere e far crescere il nuovo e il proprio è indispensabile conoscere e riconoscere. Il malessere e la crisi interiore nelle sue diverse espressioni, tutte significative e mai casuali, nasce e si propone con forza per iniziativa del profondo. Non è un guasto o una patologia da combattere frontalmente e da mettere a tacere, neppure da spiegare e da tentare di risolvere andando a cercare in qualche accidente o condizionamento esterno la causa presente o remota che avrebbe provocato il presunto guasto o danno interiore,  è viceversa richiamo e sollecitazione profonda a occuparsi di se stessi, a prendere visione del proprio reale stato, a mobilitarsi per generare tutto ciò che manca di scoperte di significato, di conoscenza di se stessi, indispensabili per prendere davvero in mano la propria vita, per rispettarne le ragioni e per farne vivere le possibilità autentiche. Nel lavoro di psicoterapia (mi sto riferendo a una psicoterapia di impostazione analitica e che concepisca la totalità dell'essere, l'importanza della componente profonda, dell'inconscio) è fondamentale dunque dare spazio alla parte intima e profonda, che è motore della crisi e che sa cosa sta smuovendo e perché. E’ parte di noi, quella profonda, che non si perde o disperde, che non accantona nulla, che non oscura per comodo, che non rinvia la verifica, che vuole il vero, senza limiti e sconti, perché il vero è la base della libertà e della trasformazione, del poter scegliere sapendo. La ricerca nel corso della vita non è mai finita, ma è importante che sia ben e saldamente impostata, che si sia imparato a dialogare con se stessi, ad avere unità con se stessi, a dare ascolto a tutto ciò che si sente, a procedere uniti con se stessi. I nodi decisivi vanno avvicinati, sotto la guida della parte profonda che lo sa fare di dirigere la ricerca (prima di tutto attraverso i sogni, oltre che con tutto ciò che nell'esperienza del sentire, che l'inconscio plasma e dirige, vuole rendere tangibile, riconoscibile) e, imparato a dare forma nuova e consapevole e unitaria al proprio procedere con se stessi, si può andare oltre da soli dopo l’esperienza analitica. Questo l’orizzonte dentro cui va concepita la psicoterapia perché davvero sia utile e consegni le chiavi nuove per continuare il cammino non in un rapporto di fragile unità con se stessi o addirittura di disunione, di persistente timore e di propensione a sorvegliare e a controllare gli accadimenti interiori (quante volte capita di sentir dire: ho imparato con la psicoterapia a "gestire" le mie ansie), ma di fiducia e di scambio totale, senza chiusure, con la propria intima esperienza, di sintonia col proprio profondo. Quando, travisando il significato della crisi, si investe su terapie che pretendono o che si illudono di mettere sotto controllo o a tacere l'intimo malessere, anzichè aiutare a sviluppare la capacità di ascoltarne voce e proposta, quando i nodi decisivi della propria vita non sono, con la guida del profondo, riconosciuti e sciolti, quando i cambiamenti nel modo di stare in rapporto con se stessi non sono felicemente conquistati, quando non si supera la scissione tra ciò che si argomenta e ciò che si sente, quando non si raggiunge la unità dialogica con la propria interiorità, il profondo tornerà nel tempo a agitare le acque con rinnovata insistenza e a reclamare ascolto, imperiosamente premendo ancora perchè sia fatto il lavoro che serve, perchè finalmente sia fatto bene e fino in fondo.

venerdì 25 ottobre 2019

Le vicende interiori

Non è affatto facile capire le vicende interiori, particolarmente se complesse e inquiete. Prima di tutto si fa spesso l'errore di applicare agli svolgimenti interiori una logica interpretativa e una lettura che sono a loro estranee, improprie. Tutto ciò che accade interiormente tende a dare testimonianza viva di verità intime, riguardanti lo stato del rapporto con se stessi, l'orientamento e il modo di farsi interpreti della propria vita, il grado di maturità vera, di autonomia, di corrispondenza con se stessi di ciò che si persegue o segue, verità rese vive e tangibili in stati d'animo, in vissuti, che di continuo offrono base viva di comprensione e di ricerca, che solo un autentico sguardo riflessivo (che non c'entra nulla con la riflessione, di matrice razionale, comunemente intesa) può avvicinare e gradualmente cogliere. Lo sguardo razionale non sa nè raccogliere nè concepire una simile proposta, abituato com'è a far da solo, senza vincolo e senza aderenza stretta al sentire, a commentare e non a ascoltare, a definire e non a riconoscere ciò che il sentire dice e rivela. Prevenuto com'è, supponente, perchè pensa di aver già nel suo bagaglio la comprensione, impaziente, perchè non sa reggere la tensione del non vedere già e del non sapere subito o presto, poco o nulla duttile e accogliente, perchè rigidamente attaccato a idee e a principi di coerenza formale e di normalità, imbevuto di a priori, di significati presi in prestito dall'uso comune, fondamentalmente incompresi e semplicemente replicati, incline a spiegazioni lineari di causa e effetto, il pensare razionale non ha certo l'animo e la stoffa per entrare in rapporto rispettoso, utile e fecondo col sentire. Ciò che accade interiormente vuole far vedere da vicino la propria condizione, i propri modi, vuole illuminare complesse relazioni intime. Solo uno sguardo riflessivo portato su di sè può accordarsi col senso e con la proposta del sentire, viceversa l'attenzione sempre portata all'esterno, l'abitudine a riferire tutto ciò che si prova a relazioni concrete con altro e con altri non può permettere di cogliere, di capire il senso dell'esperienza interiore. Se ad esempio l'ansia cresce non è per debole capacità di procedere e di avanzare con sicurezza nel rapporto con l'esterno, sempre inteso come unica realtà di riferimento e assoluta, ma per testimoniare uno stato debole e sconnesso di ciò che fa da base d'appoggio al proprio modo di stare al mondo e di procedere, dove manca l'essenziale, dove manca tutto ciò che la renda salda. Senza unità con tutto il proprio essere, senza capacità di ascolto e di dialogo con la propria interiorità, senza conoscenza di se stessi, aperta e approfondita, non addomesticata alle proprie pretese e condizionata da convinzioni di comodo, non può esserci base salda e affidabile. Lontani dal proprio intimo e senza intesa con se stessi, senza aver compreso nulla, aggrappati solo all'agire e al ragionare spiantato, supportato da luoghi comuni, da convincimenti senza conferma interiore e sfasati rispetto al proprio sentire, come si può pretendere di starsene quieti, che non suoni l'allarme, a causa di un equipaggiamento scadente e lacunoso, dell'ignoranza di ciò che si sta realmente facendo di se stessi, di ciò a cui ci si sta nel tempo destinando?

lunedì 21 ottobre 2019

Divergenze

Il modo abituale di trattare il malessere, ciò che interiormente risulta disagevole e sofferto, è divergente rispetto all'intenzione e al senso dell'esperienza interiore. Da una parte c'è l'interiorità che testimonia uno stato di crisi finalizzato alla ricerca di verità e al cambiamento nel segno del trarre da sè consapevolezza e fondamenti d'esistenza originali e propri (i fondamenti dell'essere se stessi), dall'altra c'è la reazione della parte conscia che di fronte al malessere interiore chiede solo di rimettere le cose al punto di partenza, di riprendere la corsa solita o di renderla più efficiente, di scaricare ciò che giudica solo un disturbo, un ostacolo, un impedimento. Questa è la questione delle questioni. La psicoterapia apparentemente prende sul serio la necessità di capire, di lavorare su un problema finora sottaciuto o ignorato, anzichè pretendere solo di passare oltre, di zittire il malessere. In realtà spesso la psicoterapia cerca la presunta causa di un presunto guasto, di un presunto cattivo o non fisiologico funzionamento, cerca spesso un capro espiatorio in qualcosa, sovente nel passato, per spiegare l'origine e il perchè del malessere. Così facendo fraintende e non comprende il senso vero, la proposta che il sentire, che l'intero corso d'esperienza intima e profonda sta avanzando. Non si tratta infatti di togliere l'ostacolo, la spina nel fianco, di correggere un guasto, un (presunto) malfunzionamento, per proseguire più sciolti e regolari, l'interiorità segnala e propone ben altro. L'interiorità non è testimone passiva di un che che si è guastato o che non ha potuto funzionare per il verso giusto, normale, regolare, l'interiorità non è un congegno in cui cogliere sintomi di sofferenza e di cattivo stato da sistemare, è ben di più, è ben altro. E' parte attiva nel registrare gli andamenti e i modi di procedere, nel coglierne il senso, nello svelarne il significato vero, fuori da alibi e ipocrisie, nel vederne la distanza che li separa dal proprio che vorrebbe e che potrebbe generarsi se non prevalesse la modalità passiva di andar dietro, di farsi dire e plasmare secondo idee e modelli, di farsi attrarre da soluzioni e percorsi già segnati e prevalenti. La modalità passiva di entrare in ruoli e parti, sforzandosi di interpretarli adeguatamente, di usare e riprodurre pensieri e risposte già pronte, pur con l'illusione di pensare a modo proprio, in realtà rimasticando pensiero preso in prestito e mai compreso, di seguire un filo non proprio, di stare al passo, di inseguire visibilità e gradimento esterni, di proteggersi da cattiva considerazione altrui come scopo primario, è il vero attentato alla propria vita, perchè la spegne, la devia dal suo scopo. Interiormente gli occhi sono ben aperti, non c'è illusione o mistificazione, c'è consapevolezza di cosa sia il farsi dare e dire, di cosa sia l'alienazione del credersi se stessi e pensanti pur andando dietro e stando dentro un copione già scritto, un pensiero e orientamenti che fanno il verso al senso comune prevalente o a nuove (?) mode e tendenze. Convergere con se stessi, non divergere, avvicinarsi con disponibilità di ascolto e di dialogo alla propria interiorità, cercare in questa unità d'essere e di sguardo le proprie risposte, il coraggio e l'occasione di vedere senza veli e inganni come si è e come si procede, trovare via via linfa di pensiero proprio e progettualità propria può permettere di non stare perennemente e fatalmente sui binari di ciò che è considerato normale o degno o desiderabile, può dare autonomia di indirizzo e di progetto vera e sostanziale. Costa assai di più generare che consumare, che andar dietro, che farsi dare senso e occasioni, modi e scopi. Se si vuole si può però rinascere, da se stessi e non da qualche nuova dottrina o fede. L'inconscio non cerca altro, non vuole altro, non propone altro, se fa il guastafeste lo fa per scuotere e per rompere equilibri di vita passiva e sterile, dissociata da sè e che poggia su altro, non su proprie radici e risorse. L'inconscio interferisce e non dà tregua, col sentire, con sensazioni e stati d'animo, con corsi interiori solo in apparenza sgangherati e nocivi, solo in apparenza disfunzionali e malati, giudicati tali solo da ignoranza e pregiudizio, scuote equilibri, vuole mostrare le falle di un modo di procedere spiantato e tenuto su e in auge da supporti più esterni che interni. L'inconscio esercita forti richiami, anche se la parte conscia non ne vuole sapere di verifiche attente e approfondite, interessata solo a tenere in salute un procedere che non osa e che non sa vedere criticamente  nel suo volto e significato veri, ostinandosi solo nell'illusione di essere già a posto, di saperci fare, nella convinzione che nulla sia più favorevole a se stessi che proseguire senza intralci. L'inconscio, che apre la crisi perchè diventi foriera di cambiamenti profondi, utili e necessari,  è pronto a nutrire, pricipalmente attraverso i sogni (che devono essere analizzati e compresi nei loro autentici significato e proposta, perchè possano dare il tanto che racchiudono), percorsi e processi di presa di coscienza, di formazione di pensiero originale e vicino a se stessi. Divergenze non da poco quelle che oppongono la spinta dell'inconscio a rinascere da se stessi e a diventare soggetti della propria vita, con la tendenza della componente conscia che vuole solo persistere nei suoi intendimenti e proseguire, che pretende di mettere a tacere e che tratta come disturbo e malfunzionamento ciò che si ostina a non capire, che insegue a perdifiato occasioni e opportunità esterne, pensando che siano uniche e essenziali, che ignora le proprie e il compito di scoprirle, di coltivarle e di trarne frutto. Tanto dell'ideologia e della pratica della cura più diffuse e ricorrenti, della ricerca del superamento del malessere interiore oscura e travisa la natura del problema. Non c'è interiormente parte debole e malfuzionante da sanare e da rimettere in riga o in buona forma, c'è divergenza interna al proprio essere sul modo di intendere la propria sorte, la propria vita, i propri scopi, la verità delle cose.

venerdì 23 agosto 2019

L'uso degli psicofarmaci

La prescrizione e l'utilizzo assai frequente di psicofarmaci, particolarmente di ansiolitici e di recente  in modo sempre più esteso di antidepressivi, in situazioni di disagio e di sofferenza interiore, rende necessaria una riflessione sul significato e sulle implicazioni per chi ne fa impiego di una simile pratica. Assumere psicofarmaci sembra scelta innocente, priva, per chi ne fa uso, di responsabilità verso se stesso, sia perchè la responsabilità della scelta è demandata per intero al curante, cui sono spesso acriticamente riconosciute capacità di conoscere, per ruolo e per sapere acquisito, il significato dell'esperienza interiore e dei suoi modi di declinarsi e autorità di stabilire il che fare più utile e adatto, sia perchè l'idea della cura in ambito psicologico, che imita la medicina nell'applicazione del rimedio farmacologico a situazioni di malattia fisica, sembra scontatamente buona e congrua. Le vicende interiori e tutto ciò che concerne il modo di trattarle, di dare loro risposta non sono però piattamente equiparabili alle vicende di natura corporea su cui lavora abitualmente la medicina. Per la verità, aprendo una piccola parentesi, anche sul terreno medico è riconoscibile la diversità tra l'approccio curativo cui siamo più abituati, che vuole aggredire il problema, le sue cause e con mezzi chimici o fisici di varia natura correggere e sistemare e altri approcci,che riconoscono l'importanza e la complessità dei processi biologici in atto in ogni situazione di sofferenza fisica, la capacità dell'organismo di dare risposte utili e intelligenti, che con la cura andrebbero comprese, per essere sostenute, assecondate, favorite. Chiusa la parentesi, va detto che le vicende interiori presto bollate come segni di anomalo funzionamento quando assumono carattere aspro, doloroso, ostico, non conforme a ciò che è ritenuto normale, se sapute avvicinare, ascoltare e comprendere, rivelano di non essere disordinati e patologici processi e modi di funzionare. Tutto ciò che accade interiormente, tutti gli svolgimenti interiori, anche i più insoliti, difficili e sofferti, ben lungi dall'essere segni di alterazione e di malfunzionamento, sono spinte e trame vive di intima esperienza che vogliono, in modo preciso e mirato, sensato e intelligente, condurre a aprire gli occhi, a vedere. Non c'è modo più efficace di conoscere del fare intima esperienza di qualcosa che, se toccato con mano, se patito, può essere compreso. Tutti i vissuti, tutte le esperienze e gli svolgimenti interiori, anche i più ardui o estremi, che finiscono spesso nel catalogo delle anomalie e delle patologie, sono richiami fortemente incisivi, a volte potentissimi come ad esempio accade con gli attacchi di panico, che vogliono portare l'attenzione e lo sguardo, persi nel fare e nell'osservare ciò che accade nel rapporto con l'esterno, sull'interno, su se stessi, per mettere in primo piano e avvicinare questioni vitali e rilevanti. Anomalo e irregolare è solo ciò che non si sa intendere e che pregiudizialmente si considera tale. Purtroppo la presunta scienza sul terreno psicologico spesso non sa vedere il senso delle vicende interiori, ignora la funzione e la capacità propositiva della componente profonda che regola e da cui dipende  tutto il corso del sentire e degli svolgimenti interiori, ciecamente invece parte dal presupposto che esista una normalità di funzionamento e che tutto ciò che non la rispecchia entri nel capitolo della disfunzionalità e della patologia. L'uso dei farmaci discende da questi presupposti, gli psicofarmaci sono armi usate per sedare, ricomporre, stimolare, comunque per tentare di correggere nella direzione ritenuta sana la situazione interiore, cui, se stona e devia dai binari di ciò che è considerato regolare e positivo, non si riconosce nulla se non di essere nociva, sbagliata, malata. L'uso degli psicofarmaci conferma agli occhi di chi li assume, rafforza in lui la convinzione che ciò che vive dentro se stesso è un peso insopportabile di cui liberarsi, una minaccia da cui guardarsi, un che di ostile e dannoso da combattere, eliminare, mettere a tacere, emendare. Non è scelta di poco peso, equivale a squalificare e a dichiarare guerra a una parte di sè bollata come insana. La scelta di curarsi con psicofarmaci decreta che bisogna far fuori e diffidare di parte viva di se stessi, quella intima e profonda, di cui spesso si ignora la rilevanza e la stessa esistenza come componente fondamentale del proprio essere, di cui non si conosce il valore, di cui non si conosce il linguaggio, con cui non si ha familiarità, perchè tutto si è imparato nel tempo (sempre rivolto all'esterno, a capire e a interagire con l'esterno, con gli altri) meno che a comprendere la propria vita interiore, a avvicinare, a ascoltare il proprio sentire, a dialogare con la propria interiorità. Non si è cresciuti in capacità di rapporto con se stessi, riducendo o pretendendo di ridurre la propria interiorità a appendice funzionale, che avrebbe dovuto, che dovrebbe, per essere riconosciuta sana, solo continuare a assecondare le pretese di prestazione cosiddetta normale. Non si ha spesso nemmeno percezione che la propria interiorità nelle vicende interiori che promuove, pur dolorose e in apparenza incomprensibili e fuori dall'usuale, certamente gravose e tormentose, voglia utilmente dire e proporre, che non sia un arnese malfunzionante o bacato, ma che voglia lucidamente, sensatamente indurre a entrare nell'intimo vero della propria realtà e condizione, a vedere nodi e questioni decisive su cui impegnarsi a riflettere, a lavorare, pena il rischio di procedere ciechi e senza consapevolezza, senza capacità di incidere davvero sulla propria vita, di condurla fedelmente a se stessi. Usare i farmaci non è scelta innocente e di poco conto, anche se in apparenza buona, anche se pare non se ne porti la responsabilità. Se l'uso degli psicofarmaci diventa fonte di inquietudine e di tormento, a volte accade che per chi vi fa ricorso risulti problematico il loro impiego, un motivo per simili inquietudini c'è e è tutt'altro che irrilevante. Se si fanno sentire timori non è solo per paura degli effetti collaterali e per il rischio della dipendenza, ma anche perchè profondamente si avverte che quella dell'uso degli psicofarmaci è una scelta, che, pur vestita da benevola cura, segna una frattura nel rapporto con se stessi, che rende ancora più oscuro ciò che vive dentro se stessi. In questi casi non è raro che ci siano pressanti inviti a affidarsi all'autorità del curante che propone gli psicofarmaci come rimedio e soluzione  necessaria e favorevole. L'argomento che la sofferenza psicologica vada considerata malattia da curare, analogamente alle malattie del corpo, pare dare sollievo e protezione dall’idea di essere e di apparire deboli e incapaci di reagire, di non saper essere normali. Pare dare sollievo, ma getta tutto del proprio intimo sentire difficile e incompreso nel cesto dei rifiuti, di ciò che comunque è giudicato abnorme, da eliminare. Gli psicofarmaci in questa considerazione di sé come vittime di malattia si accreditano come utili e necessari. C’è un luogo comune che afferma che le espressioni di sofferenza interiore vanno moderate e contrastate, che l'ansietà è utile sedarla, che dall'abbattimento interiore bisogna risollevarsi con gli antidepressivi, che questo “beneficio” va ottenuto anche per facilitare la psicoterapia. Continua a essere ignorato che non c'è sentire e esperienza interiore, che così com'è non abbia senso e valore, che compito della psicoterapia è di rispettare ogni vissuto interiore, di aiutare l’individuo a avvicinare il suo sentire e tutto ciò che vive dentro se stesso nella sua integrità e senza preclusioni, per farlo parlare, per imparare a ascoltarlo per trarne frutto di consapevolezza, di conoscenza di sè, di intesa con se stesso. Scopo della psicoterapia che voglia essere  utile a ricomporre l'unità dell'individuo con se stesso, non è di costruire ipotesi e spiegazioni avulse dal sentire su presunte cause del malessere interiore, non è di mettere a punto tecniche di gestione e di superamento di paure o d'altro considerati anomali e disfunzionali, ma è di far trovare all'individuo capacità di incontro e di dialogo con se stesso, per fargli abbandonare la posizione di diffidenza, di insofferenza e di paura della sua esperienza interiore, di fuga da se stesso, dal proprio intimo, per fargli scoprire e constatare che di tutto ciò che vive dentro se stesso, a dispetto delle apparenze e dei pregiudizi negativi, può fidarsi. Se da un lato gli psicofarmaci sono l’espressione di una incomprensione grave dell’esperienza interiore e sono coerenti con il proposito di rimettere le cose nel verso solito, dall’altro è possibile dare al malessere e alla crisi interiore ben altra risposta, non ostile, che non pretende di correggere e di rimettere le cose in ordine, ma volta, con l'aiuto giusto, a sviluppare la capacità di entrare in relazione rispettosa e aperta con l'esperienza interiore, di ascoltarla, di comprenderla intimamente. Svolgere un lavoro su se stessi che non si ponga pregiudizialmente contro, ma che sappia intendere fedelmente e fare propria la proposta che la crisi interiore sta avanzando, fa scoprire all'individuo che tutto ciò che si svolge interiormente, pur se impegnativo, difficile e sofferto, non gli è e non vuole essergli dannoso, ma pungolo alla presa di visione del vero, guida affidabilissima per un cammino di conoscenza e di crescita personale. La vera difficoltà o se proprio vogliamo chiamarla disfunzione (disfunzione dell'individuo che non ha legame e unità con se stesso, con la propria interiorità) è provare sensazioni penose e impegnative, stati d'animo, complesse e difficile esperienze interiori e non intendere cosa stanno dicendo e rivelando, non avere occasione di scoprire che non sono un meccanismo rotto, ma che sono parte viva di se stessi che sta dando richiami e testimonianza di qualcosa che è indispensabile e utilissimo comprendere. Insomma un aiuto va trovato e offerto a se stessi, un aiuto per riuscire a comunicare col proprio intimo, per trovare intesa e unità con la propria interiorità e non per combattere come fosse nemica e nociva parte viva e intima di se stessi.

venerdì 2 agosto 2019

Se lo conosci non lo eviti

Se una parte di te ti parla e vuole dirti, quel che serve è dare disponibilità al rapporto, entrare in sintonia con lei e ascoltarla, fare percorsi di dialogo assieme per conoscere, per capire. L'inconscio dice, spontaneamente interviene e comunica, sia in ogni momento attraverso il sentire, che non è mai casuale, che comunque si proponga apre sentieri, corsi vivi d'esperienza interiore dentro cui prendere contatto con se stessi e vedere, capire per intima esperienza, sia attraverso i sogni, che sono pensiero intelligente, di acutezza e veridicità sorprendenti. E' necessario capacitarsi del linguaggio interiore e ancora prima, come dicevo, offrire disponibilità al rapporto e al dialogo, invece che opposizione e pregiudizio, come capita di fare spessissimo, quando l'insieme dell'esperienza interiore, perchè disagevole, a volte fortemente impervia o insolita, è già in partenza considerata anomala, dannosa, da correggere, da combattere, per riemergere al più presto al consueto e al normale. Il linguaggio interiore del sentire va appreso, perchè le categorie e i modi soliti di pensiero e di lettura dell'esperienza rischiano solo di fare sfracelli, stabilendo che questo non ha senso, che quello è eccessivo, che bisognerebbe invece che sentire questo provare quell'altro, che la causa sarà questa o quell'altra ecc. ecc. Solo la riflessione può far vedere e rispettosamente l'intimo messaggio, cosa ogni sensazione e stato d'animo autenticamente propone, delinea, traccia, ma la capacità riflessiva va formata e sviluppata, non ha nulla a che fare con le rimuginazioni e le invenzioni del ragionamento, col modo razionale di pensare e argomentare. I sogni devono essere avvicinati con altrettanta cura e attenzione, non con sguardo solito e concreto. Se in un tuo sogno, giusto per fare un esempio, compare una persona, il sogno non vuol parlarti di lei in quanto tale, ma solo in quanto dà volto a parte di te stesso. Se rifletti su ciò che caratterizza questa persona ai tuoi occhi, su ciò che nei suoi modi e atteggiamenti esprime, potrebbe farti vedere modalità e espressione umana che ti appartiene, che l'inconscio vuole farti riconoscere, su cui il sogno ti vuol far lavorare. E' possibile dialogare col profondo e l'inconscio ha chiara e forte intenzione di comunicare, tant'è che non di rado disturba il quieto vivere, interferisce, anche vistosamente, nella propria esperienza attraverso tutto ciò che muove e smuove sulla scena interiore ( ansia, panico e quant'altro) e non per fare danno, ma perchè vuole portare con forza l'attenzione al dentro e a se stessi, perchè è venuto il tempo e urge trovare la consapevolezza che manca, perchè l'inconscio può, se gli si dà spazio e retta, nutrire la capacità e sostenere il coraggio di guardare nell'intimo vero e di non perdersi nell'apparente, può e vuole dare spinta alla passione di divenire se stessi e non copia d'altri o d'altro. L'inconscio è la vita, l'istinto di essere che sopravanza e scardina i calcoli di convenienza e di ricerca del consenso, è l'intelligenza che guarda dentro e smonta le illusioni e gli autoinganni, che va oltre i marchingegni del ragionamento e i preconcetti, l'inconscio è la parte di se stessi che non si accontenta di una vita normale, a norma, dietro altri e passiva, ignorante, che ignora ciò che da sè e attraverso sè si potrebbe vedere e concepire, costruire e volere. Si può assecondare l'inconscio, il proprio inconscio, accogliere e comprendere la sua proposta, convergere e non divergere, far propria la spinta che viene dal profondo a trasformarsi fedelmente a se stessi. E' conquista di vita, d'essere e di pensiero non immediata o gratuita, non è soluzione già pronta da consumare, come potrebbe essere una pillola da mandar giù o un consiglio o prescrizione di comportamento da eseguire. Richiede lavoro serio su se stessi, sostenuto da passione e da desiderio di vicinanza e di unità con se stessi. Può richiedere l'aiuto di chi sappia guidare ad avvicinarsi a sè e ad ascoltarsi, a comprendere il linguaggio interiore, piuttosto che a combattere presunte anomalie di sentire e di comportamenti. L'inconscio è più vicino di quanto non si creda, ma per entrare in sintonia e in dialogo col profondo, per arricchirsi di quanto di prezioso può donare, serve prima di tutto imparare ad ascoltarlo e a capirlo, a non avere pregiudizi nei suoi confronti, nei confronti di una parte di se stessi. Se lo conosci non lo eviti. 

La visione capovolta

Ciò che abitualmente è considerato sano, positivo e desiderabile è spesso parte e scaturisce da una visione di se stessi, delle proprie esperienze, che, appoggiandosi e fondendosi col senso comune e con la lettura convenzionale, non ne cerca il fondamento, la verifica, il significato vero. La comprensione attenta di ciò che lega alle proprie convinzioni e agli scopi voluti è trascurata, li si dà per scontati e si insiste nella conferma di ciò che si ama credere, per comodità oltre che per inerzia. Accade allora che tutto ciò che interiormente col malessere nelle sue possibili diverse espressioni, che sia ansia, panico o  sfiducia e caduta di autostima o altro, interviene a scuotere e a aprire crepe nei propri convincimenti, a intralciare il cammino solito,  per spingere a rivedere tutto, cercando non il significato apparente e di comodo, ma quello vero, sia oltre che incompreso, perentoriamente osteggiato e squalificato come disturbo, come malfunzionamento da correggere, come malattia da combattere e risanare. Proprio la componente di sè che in modo sano, provvidenziale e intelligente vuole far emergere il vero, spingendo oltre l'attaccamento all'usuale, che rischia di affossare qualsiasi processo di crescita e di conquista di autonomia, di capacità di farsi interpreti fedeli di se stessi e della propria vita, è combattuta e denigrata come un fastidio, come una anomalia, come una patologia. Un capolavoro di cecità e di mistificazione a proprio danno, spesso col conforto e col suggello di qualche terapia che pretende di definirsi utile e capace di risolvere i problemi, di ridare il beneficio dello star bene. E' un danno che passa sotto silenzio, che il senso comune non intende, che la parte profonda dell'individuo non ignora di certo,  che non può accettare, tant'è che il malessere, anche se osteggiato e in vario modo preso di mira e frainteso, torna a più riprese a farsi avanti. La musica però non cambia e in questi casi il pregiudizio, che non arretra, definisce e liquida il tutto come una ricaduta di malattia. La parte profonda vuole promuovere il cambiamento, vuole che si veda in cosa si è infilati. Ha a cuore che non si sciupi tutto di se stessi, rimanendo nel buio del preconcetto, di una visione che non concede al vero, che illude di esserci nelle proprie idee e modalità di procedere, di perseguire i propri scopi, che sbarra in realtà la strada a un diverso e originale modo di concepire la vita, coerente con se stessi, alimentato dal proprio intimo. Battaglia persa quella del profondo? Non sempre. A volte l'alleanza dell'individuo col proprio intimo diventa una scelta voluta e portata avanti con tenacia, con passione e con coraggio. Nulla è più felice di una intesa con se stessi, dando fiducia e condividendo la visione capovolta, che all'inizio da solo il proprio profondo sostiene, che rompe le illusioni solite, che dell'abituale modo di pensare svela equivoci e restringimenti, che apre a nuova e viva conoscenza, che costruisce e fonda tutto sul vero, che apre strade prima sconosciute, inconcepibili.

venerdì 7 giugno 2019

La ricerca del rimedio

Cercare il rimedio in presenza di una condizione di disagio e di sofferenza interiore sembra la scelta più ovvia e più favorevole. Sotto sotto nel rapporto con una simile esperienza interiore prevalgono timore e insofferenza, come di fronte a qualcosa che sembra ostile, limitante, nocivo. Provarsi a combattere e a neutralizzare ciò che è vissuto come un impedimento e una minaccia, che ai propri occhi rischia di compromettere uno stato di benessere e il perseguimento di risultati utili, sembra non possa che fare bene. Sembra ovvio reagire al dolore con il tentativo di provvedere al suo annullamento. Quell'esperienza interiore però non si è prodotta per caso e senza uno scopo, senza l'intento preciso di sollevare un problema, di rendere riconoscibile qualcosa di importante. C'è uno scopo, c'è un senso e niente affatto di poco conto o trascurabile in ciò che l'esperienza interiore, che il sentire solleva e rimarca. Si pensa in genere che a garantire buona capacità di orientamento sia la mente razionale che osserva i fatti, che ne spiega le ragioni, che indica ciò che è valido da fare o da proseguire. Affidati a una simile guida, che tende ad avere il controllo e il governo delle operazioni e a mettere da parte o in subordine altri apporti e  sollecitazioni interne, le emozioni, il sentire, considerati poco affidabili e troppo parziali per una corretta e lucida visione, si è in realtà più sprovvisti che provvisti di validi punti d'appoggio per capire. E' il sentire che garantisce di non stare sospesi, di non insistere nelle congetture, di non rimanere ciechi e senza capacità di vedere le implicazioni e il significato vero di ciò che si sta facendo e pensando, ciò che li muove. Il sentire è più cauto di quanto non pensi di essere la guida razionale, perchè non trascura ciò che sta realmente accadendo e gli sviluppi cui sta portando. Il sentire è vigile nel segnalare i punti critici del proprio modo di procedere e le conseguenze cui si è esposti dove non si aprissero gli occhi. Nella visione di se stessi si trascura spesso di considerare che i confini del proprio essere sono ben più ampi di ragione e volontà, che il sentire non è un accessorio colorito, che un pò piace se dà piacere, che poco è gradito se consegna sensazioni difficili, che va tenuto a bada perchè ritenuto cieco e viscerale, perchè conterrebbe più rischi di cedimento, di capriccio o di arbitrio che capacità di fornire apporti utili e validi per capirsi, per orientarsi. Se il sentire propone paure, esitazioni, se frena l'iniziativa e se delude l'attesa di risposte prestanti e ritenute positive, diventa subito l'espressione di un difetto, di una insufficienza da colmare, da superare, da capovolgere e raddrizzare. Nella psicologia comune come in quella propugnata da non pochi esperti della psiche e della sua cura è ricorrente e imperante  l'intento prima di tutto di superare il disagio, attribuendo  all'esperienza interiore disagevole il significato di un disturbo, di una condizione anomala, casomai da ricondurre a qualche causa o accidente, a un cattivo modo di porsi e di trattare l'esperienza, ma sempre considerandola una disfunzione e un difettoso modo, con pronto l'armamentario dei rimedi e dei suggerimenti per mettere a posto le cose, per raddrizzarle. La vita interiore in questo modo è completamente travisata nel suo significato vero, nel suo potenziale, nel suo valore. Il proprio essere include la vita interiore, la componente profonda del proprio essere è importante, anzi è imprescindibile se si vuole trovare se stessi e dare volto proprio alla propria vita, se si vuole cominciare a capire davvero qualcosa di se stessi, se ci si vuole attrezzare di strumenti di conoscenza e di orientamento fondamentali. Tutta l'esperienza interiore vuole ricondurci sul terreno vivo della conoscenza di noi stessi, di ciò che stiamo facendo di noi stessi e della nostra vita, di ciò che potremmo invece trasformare e far vivere in consonanza e nel pieno utilizzo delle nostre risorse, che il profondo vuole farci scoprire e impiegare. Stare bene non è navigare nell'ignoranza e nell'illusione di una vita valida perché conforme agli standard, senza scosse, ma anonima e senza volto, stare bene è avere piena consapevolezza e unità con se stessi, dove non si cerca il superamento di ciò che interiormente si fa sentire se disagevole, squalificandolo subito come ostacolo da abbattere, ma dove si accoglie e si valorizza l'apporto interiore sempre, perchè prezioso, perchè irrinunciabile per non perdersi e per essere se stessi. Non c'è rimedio da cercare se non alla paura di se stessi, alla diffidenza verso il proprio intimo, alla incapacità di ascoltare e di comprendere il proprio sentire.

domenica 19 maggio 2019

Avere da dire

Capita che la parola sia in alcuni difficile, stentata o talmente impacciata in presenza d'altri da diventare un motivo di forte frustrazione, di avvilimento. La pretesa sarebbe di vincere questi impacci, per non essere da meno di altri, per non sentirsi insufficienti, per non apparire tali. La prestazione, saper dire scioltamente e senza timori e vuoti, pare dovuta, pare cosa desiderabile da ottenere per normalità e per propria buona riuscita. La questione però può essere ben più complessa, se saputa avvicinare con coraggio e con intelligenza, senza preconcetti, senza schierarsi subito sul fronte della riuscita e del combattimento contro ansietà e impacci interiori giudicati solo retaggi e ostacoli da superare. Avere da dire, non per riempire il discorso e per fare chiacchiera, non per accontentare le presunte o reali aspettative dell'altro, non per dare prova di intelligenza o di vitalità di pensiero e per darsene conferma, ma perchè realmente si ha qualcosa che merita di essere detto e opportunamente al proprio interlocutore e soprattutto sapendo cosa si sta dicendo, è condizione tutt'altro che frequente e garantita. Come esseri umani non siamo una macchina di produzione di parole a volontà, anche se così in molti, per essere ben considerati e al passo col gusto e con l'idea di normalità prevalente, si considerano e vorrebbero essere, ma siamo per nostra natura umana più complessi, c'è infatti una parte, profonda, di noi stessi, della nostra psiche, che non bada alla cosiddetta buona riuscita, all'efficienza della prestazione, ma che interroga la qualità e il senso di ciò che si vorrebbe ottenere da se stessi e mettere in atto e fuori, le parole ad esempio. Perciò la presenza costante e non casuale di tutte le manifestazioni della propria vita interiore, del proprio sentire, capaci non raramente di interferire in modo forte, creando situazioni, che sembrerebbero sfavorevoli, di impaccio, di blocco o di forte incertezza e apprensione, che paiono a prima vista inutili e esagerati grovigli, complicazioni spiacevoli, segni di malfunzionamento. Da qui a parlare di patologia, di segni di malattia il passo è breve. In realtà la componente profonda della nostra psiche, che una lettura tutta all'insegna del funzionalismo e della ricerca dell'efficienza, del cosiddetto buon funzionamento, nemmeno ammette e riconosce, è la parte di noi stessi che non si estranea mai dall'esperienza, che non si limita e costringe a assecondarla nei suoi andamenti abituali, che non si fa complice di confermarla nei significati che le si vuole attribuire o che i più le darebbero, significati che fanno comodo. La parte profonda è ben presente e vigile nella nostra esperienza, sa interrogare, ponendo in mezzo i segnali del sentire, il perchè, il senso, le ragioni e lo scopo di ciò che facciamo, a tutela dell'interesse di non raccontarcela e di non perderci nell'inconsapevolezza, di non fallire i nostri scopi, ciò di cui saremmo capaci se uscissimo da una visione di noi stessi e della nostra esperienza miope e gregaria. Fare e perseguire ciò che fanno e inseguono tutti, prendere per buone le attribuzioni di significato e di valore correnti e farsi portare nel pensiero e nell'azione è tendenza tutt'altro che rara. A salvaguardia del nostro non ridurci a essere passivi, gregari nel portare acqua all'andazzo prevalente, con l'illusione di avere idee e propositi nostri, di essere attivi e pensanti, in realtà facendo solo il verso a aspirazioni e a pensiero comune e corrente, c'è la parte profonda del nostro essere che lavora con insistenza dando segnali che se saputi intendere, vogliono mettere in discussione e sotto la lente di ingrandimento il nostro modo di procedere. La visione meccanicistica dell'individuo che vuole che tutto proceda nel verso solito, che vuole solo correggere e sistemare ciò che interiormente si fa di mezzo in modo discordante, come fosse malfunzionamento, è oggi assai presente. E' la visione che tratta come disturbi i segnali interiori di crisi, i richiami a guardare ben dentro le particolarità e le storture di un modo di procedere che non esalta di certo la capacità personale e autonoma di pensare, di capire, di trovare risposte a altezza di ciò che l'individuo potrebbe, se aprisse gli occhi, se conoscesse se stesso e ciò di cui sarebbe capace, se non inseguisse solo l'adeguamento a ciò che è comunemente inteso come valido e normale. Questa visione oggi assai diffusa nella psicologia comune trova nella stessa psicologia scientifica o che si accredita come tale, in non poche sue elaborazioni teoriche ciò che le fa il verso, che si muove nella stessa orbita. Mettere le cose a posto, raddrizzare, ridare efficienza, correggere ciò che interiormente è considerato disfunzionale è l'imperativo e il proposito di non poca psicoterapia oggi in voga e in uso. Il rischio è di lavorare contro la parte più profonda e attenta dell'individuo, di remarle contro, di far persistere un'incomprensione con se stessi, che peraltro non cesserà di far sentire i suoi effetti in termini di malessere perdurante. La parte profonda non si lascerà certo né incantare dalle promesse della rimessa in stato di efficienza, né mettere al guinzaglio dalle pretese e dalla foga di mettere tutto in ordine e in stato di preteso, presunto buon funzionamento e benessere. Insisterà viceversa, stonando col resto, per riaprire la strada della presa di coscienza, della formazione e dello sviluppo di un modo proprio di pensare, sincero, fondato sul vero e non sull'illusorio, di concepire la propria vita e il suo scopo con idee e progetti autonomi, con prospettive di reale benessere, non il benessere dell'essere liberi da richiami interiori, bensì il benessere di essere se stessi e non altro, di far vivere qualcosa di proprio e corrispondente a se stessi e non alla cosiddetta normalità.

domenica 12 maggio 2019

Le nostre paure

Le nostre paure prima di tutto vanno tenute e avvicinate nel loro spazio, nello spazio intimo, non vanno scaricate, non vanno a priori combattute e trattate come corpo estraneo, messe a distanza e giudicate, non vanno commentate senza dare loro ascolto. Le nostre paure ci prendono, ci stringono a noi stessi. Le nostre paure ci vogliono dire e la difficoltà è quella di ascoltarle, di raccoglierne il messaggio, la proposta. Non sono esperienza solita. Non è impiegando il senso comune o chiudendosi nei ragionamenti che si dialoga con le paure. Paure "irrazionali" si dice assai spesso e, dicendo questo, si pretende di ridimensionarle e di negare loro dignità e valore. Certamente sono fuori dal quadro, dal modo di esprimersi e di operare razionale. Non per questo le paure sono insensate, incapaci di dire, inespressive, anzi! Sono testimoni di qualcosa di intimamente valido e vero, non sono mai infondate, sono non solo testimoni e segno, ma anche luogo di esperienza, di incontro e di riconoscimento di qualcosa di ignorato e sviato nel modo di condursi abituale, sono luogo di elaborazione e di ricerca. Sono dunque tramite e occasione per avvicinarci al vero che ci riguarda, che ci compete, per dare volto chiaro, per ritrarre efficacemente ciò che abbiamo necessità di riconoscere, di fare nostro, di capire. Il problema è la difficoltà, spesso l'incapacità di esercitare la riflessione, la riflessione vera, mezzo e modo di porci in rapporto rispettoso, di aprirci cioè all'incontro, al dialogo con la parte di noi stessi intima, che vive, che sente, che accoglie, che elabora l'esperienza. Trattare in partenza come nemico, come molesto, come ospite indesiderato, perchè spiacevole, perchè inatteso e incoerente o dissonante con la visione e col programma razionali, ciò che invece è parte di noi più sensibile, viva, attenta e partecipe, può essere un grave errore. Ciò che sentiamo è ciò che ci è più vicino, più aderente a noi stessi. Spesso invece siamo tentati di trattarlo come un ostacolo, come un assurdo, come faccenda da regolare e da sanare al più presto, da soli o con l'aiuto di qualcuno che inventi o ci faccia applicare strategie per ricondurci nel solito rassicurante senso-andazzo comune. Se è comprensibile che ciò che è ignoto e inusuale faccia paura, assai meno comprensibile è che qualcosa di così intimo e proprio lo si tratti con pregiudizio, che lo si voglia liquidare e estromettere senza appello. E' parte viva di noi stessi, parte tutt'altro che superflua o nociva. Il nostro sentire in genere, quello che ci risulta molesto o che ci appare patologico ancora di più, punta dritto a noi, ci parla di noi, non ci dà chiacchiera e non ci incoraggia all'evasione, ci dà indicazioni molto vere, importanti. Le nostre paure segnano il percorso da seguire se vogliamo davvero conoscere, conoscerci. Se ci si cala sul terreno vivo segnato dalle paure, se si regge la tensione di un sentire non facile e non piacevole, se stando in rapporto e lasciandosi coinvolgere le si ascolta e comprende, ci si accorge che non sono limitanti, che non sottraggono possibilità, che non conducono alla deriva. Ci si può rendere conto che, a dispetto delle diffidenze iniziali, riescono a portare vicino alla consapevolezza che rende più vicini e in sintonia piena con se stessi, che rafforza. Ci si rende conto che, ben comprese e valorizzate, le paure non invalidano, non bloccano e non fanno smarrire la strada, ma ridanno orientamento e fanno trovare il proprio cammino, cammino di scoperte vitali e utili, cammino di ricerca, vivo, coerente con se stessi, sensato. E finalmente si arriva a vedere con i propri occhi, a scoprire, a pensare non astrattamente e, se su queste nuove basi si dice, si sa cosa si sta dicendo, perché si sta dicendo ciò di cui si è fatta intima esperienza e conoscenza.

venerdì 10 maggio 2019

L'ansia da dove origina?

L'ansia, come ogni espressione di disagio e di sofferenza interiore, origina da dentro di noi, è generata e modulata dal nostro profondo, non è certo un corpo estraneo o altro temibile che ci stia molestando, non è l'effetto o il seguito sgradito e sgradevole di cause, di traumi patiti, di situazioni esterne sfavorevoli, presenti o passate, come non è il sintomo di una patologia. Definire patologica un'espressione della propria vita interiore significa non comprendere che c'è una parte intima e profonda della propria psiche che, non concorde col proposito di rendere tutto scontato e di porre al primo posto come scopo la continuità del procedere abituale, interviene viceversa, interferendo anche vivacemente, agitando il quadro interiore, per indurre a calarsi nel vero, nella verifica del proprio modo di condursi, che casomai non è felicemente in accordo con se stessi, che è deficitario di scoperte di significato e di valore fatte in proprio, non prese da pensiero comune e ripetute o in qualche modo ricombinate col ragionamento, ma formate da sè e aprendo i propri occhi, lavorando su propria intima esperienza, scoperte che abbiano davvero capacità di fare da guida affidabile e da orientamento. Sono un bagaglio di conquiste essenziali di cui non si può essere privi se si vuole condurre autonomamente e in profonda sintonia con se stessi la propria vita, sono conquiste di cui spesso invece si è ancora totalmente privi. Tutto il nostro sentire, che certamente non si muove sul binario delle nostre previsioni e attese, ci informa di continuo di ciò che ci accade passo dopo passo e tende a portarci alla scoperta del vero, dei nodi e delle questioni importanti che ci riguardano, che sono ineludibili se vogliamo essere consapevoli e non affezionati solo alla continuità del solito e alla pretesa di una quiete che equivale a nasconderci a noi stessi. Se il quadro interiore è mosso un motivo c'è, si tratta di imparare a comunicare col nostro sentire, a ascoltarlo, a comprenderne il senso e l'intimo dire. Non serve ragionare sul conto di ciò che si sta provando costruendo spiegazioni che non tengono conto, che non si curano di ascoltare ciò che le emozioni e gli stati d'animo stanno dicendo, bensì è necessario imparare a riflettere, cioè a vedere cosa c'è nell'intimo del proprio sentire, cosa si muove, cosa dice, cosa rivela. Come mettendoci allo specchio possiamo, vedendo la nostra immagine riflessa, guardarci in volto e raccogliere dai nostri occhi quel che ci fanno capire di noi stessi, così con la riflessione possiamo vedere nei nostri vissuti, nei nostri stati d'animo, nelle nostre emozioni, anche le meno piacevoli e le più spigolose, cosa racchiudono, cosa svelano. Il nostro sentire è intelligente, è la forma più intelligente di cui disponiamo di capacità di entrare nel vivo della conoscenza di noi stessi. Come toccando percepiamo e riconosciamo le caratteristiche di un oggetto, così sentendo, provando emozioni tocchiamo nel vivo qualcosa di noi stessi che per intima viva esperienza possiamo cominciare a comprendere. Perciò dicevo all'inizio che l'ansia viene da dentro di noi e non è patologia, non è espressione di un guasto, di un meccanismo rotto, bensì voce della nostra parte profonda, di cui siamo dotati e di cui spesso siamo purtroppo ignari, è mezzo prezioso per avvicinarci a noi stessi, alla conoscenza di noi stessi. Zittire questa voce, combatterla come fosse nociva e patologica è una grossa svista e dispetto che si rischia di fare a se stessi. La psicoterapia potrebbe, anzi nel proprio vero interesse, dovrebbe essere il luogo in cui si impara, non già a correggere e a riparare presunti disturbi e  malfunzionamenti, ma a comunicare con se stessi, a comprendere ogni espressione del proprio sentire, nessuna esclusa, ansia compresa, nel suo significato originale, conquistando così non solo la consapevolezza che manca, ma anche l'unità piena con se stessi, con una parte intima di sè, sinora temuta e trattata con sospetto e diffidenza, tanto da giudicarne malate le espressioni che risultano spiacevoli e difficili, scoprendo che non è certo nemica o dannosa, anzi proprio il contrario.

giovedì 4 aprile 2019

Le paure e le cantonate

Le paure che si pongono in mezzo al proprio cammino sembrano una limitazione, uno spiacevole intralcio. Talora sono prepotenti, non concedono nulla. Se l'auspicio è quello di liberarsene e l'obiettivo è considerato di beneficio ovvio, i mezzi per provarci non mancano. C'è chi predica che le paure vanno superate, che non bisogna indietreggiare, che non bisogna evitarle, perchè altrimenti ingigantiscono, diventano una barriera ancora più forte. Ci sono proposte d'aiuto psicologico che vogliono aiutare a smontare e a abbattere le paure, con l'obiettivo di dare spazio a quello che è giudicato un più sano e libero movimento. Tutto pare buono e convincente, ma il rischio di prendere cantonate è assai elevato. Se le paure, anzichè stupide fossero intelligenti, se intervenissero accortamente per segnalare un problema, per favorire sviluppi assolutamente nuovi e importanti, che non coincidono col non aver paura e con la ripresa fluida del movimento solito, ma con ben altro, ecco che l'intervento riparatore rischierebbe di rivelarsi tutt'altro che benefico e corrispondente ai propri interessi. Se la paura poniamo di stare in luoghi aperti o affollati volesse portare a invertire la rotta rispetto al cercare tutto fuori, al porre in primo piano sempre il rapporto e lo scambio con gli altri, se la necessità da riconoscere e da assecondare fosse quella di ritrarsi per entrare in una diversa dimensione, quella raccolta e appartata dell'incontro con se stessi, dell'ascolto della propria interiorità, dove tanto o tutto di sè possa essere finalmente compreso e scoperto, coltivato e fatto nascere, per non condurre avanti una vita guidata e indirizzata da altro, senza contenuto e progetto propri, se, in risposta a questo, lo scopo che ci si dà fosse, come spesso accade, di superare e vincere la paura, il rischio di prendere una cantonata e di procurarsi più danno che utile sarebbe sonoro e forte. Bisogna stare attenti a come ci si rapporta a ciò che vive dentro se stessi. Le paure sono una espressione della propria vita interiore, i cui svolgimenti non sono la risultante meccanica dell'agire di fattori e stimoli esterni e di schemi appresi e abitudini e punto, ma sono orientati e alimentati da una parte profonda, che sa quel che vuole, che, compensando la miopia della parte conscia, sa premere con l'arma del sentire per indirizzare le cose in una direzione non certo sciagurata. Purtroppo l'ignoranza, non poco diffusa, del significato della vita interiore, del suo linguaggio, delle sue espressioni, della presenza rilevante del profondo, fa sì che si possano prendere decisioni che paiono di valore e di bontà scontate, ma che rischiano di essere vere cantonate, con conseguenze affatto piacevoli. Spazzare via una paura, perlomeno dirigere gli sforzi in quella direzione, può comportare venir meno al richiamo profondo, che crea barriere per aprire nuove possibilità, privandosi della occasione di intenderle e di coglierle, di arricchirsi di ciò che potrebbe nascere da lì. Apparentemente, abbattendo la paura come ostacolo o come limite, si crede di darsi più libertà e ampiezza di respiro, in realtà si rischia di  menomarsi, vincolandosi ancora più strettamente all'unica idea e prospettiva di vita e di modo di procedere conosciuto, non necessariamente corrispondente al proprio potenziale umano.

lunedì 1 aprile 2019

I sogni: motore di pensiero e di cambiamento

I sogni sono l'espressione e il prodotto dell'attività di pensiero del nostro profondo. E' pensiero di qualità diversa da quella comunemente messa in opera dalla nostra parte conscia. E' pensiero riflessivo, che cerca di cogliere e di rappresentare i nostri modi di procedere, a cosa ci affidiamo e cosa cerchiamo, come soprattutto ci mettiamo o non ci mettiamo in rapporto con ciò che sentiamo, che viviamo interiormente. I sogni ci mettono allo specchio, ci consentono di riflettere finalmente su di noi, di "vederci" non in superficie e nell'apparenza, ma nell'intimo vero. Diversamente dal modo che seguiamo abitualmente di procedere, in cui cerchiamo principalmente di trovare soluzioni, in cui spesso diamo per scontati o ci accomodiamo i significati e non ci curiamo di vedere cosa c'è veramente in gioco nella nostra esperienza, cosa significa quel che stiamo facendo, cosa ci spinge, i nostri sogni cercano e mostrano con estremo acume il senso. I sogni ritraggono con cura cosa si sta muovendo in noi e cosa accade nell'incontro tra spinte e iniziativa profonde e tendenze e modi abituali, tra il nostro profondo e la parte di noi stessi, quella dei pensieri e dell'agire consci, in cui siamo abitualmente collocati e confinati. Non sono rari ad esempio i sogni in cui si è vittime di inseguimenti o di ladri o di altre più o meno oscure presenze, che paiono nemiche. Sono presenze che ben lungi dall'essere esterne a noi, sono la rappresentazione di ciò che dal nostro profondo vuole interferire e intervenire con forza nella nostra esistenza. Sono vissute come tali, come minaccia solo dalla parte di noi che non accetta di far spazio al profondo (vissuto come intruso, come elemento estraneo e minaccioso), dalla parte che teme di confrontarsi col sentire e che non vuole accettare di perdere convinzioni inveterate e sicurezze fasulle e altro. Ci sono sogni che descrivono cadute e vertigini, rischio di precipitare nel vuoto, rendendo tangibile la paura di perdere la posizione sospesa, perchè tale è la posizione in cui ci manteniamo quando non entriamo in rapporto col vissuto, col nostro sentire, che è in grado di darci la terra sotto i piedi, il contatto vivo con noi stessi e con ciò che realmente ci sta accadendo. I sogni segnalano poi, senza fare sconti, ciò che ci manca, che di sostanziale, fatte salve le illusioni, ancora non ci appartiene, ciò che ci spetta di cercare e di costruire. Sogni che insistono ad esempio nel riproporre esami di maturità, prove scolastiche, che, pur nella realtà già superate, tornano nell’esperienza notturna come assillo dell’oggi. L’inconscio vuole ricordare e spingere a riconoscere che la maturità, non come facciata e maschera, ma come sostanza è conquista ancora da fare, questione aperta ed attualissima. Ho portato questi esempi, pur in modo assai semplificato e discutibilmente paradigmatico (i sogni vanno analizzati e compresi ogni volta nel loro originale e unico), per far capire dove possono spingere a rivolgere attenzione i sogni e per far intendere il tipo di linguaggio, simbolico, usato dall'inconscio per ritrarre la nostra situazione interna. I sogni sono un patrimonio di incommensurabile valore, capaci, se saputi comprendere e valorizzare, di darci conoscenza vera e fondata, di guidarci in cambiamenti profondi, di restituirci noi stessi, la consapevolezza di ciò che più intimamente ci appartiene. I sogni sono dei fari nella ricerca, in grado di illuminare, con ampiezza e lucidità di visione, quanto l'insieme dell'esperienza interiore sta proponendo. Quando un individuo vive situazioni di malessere e di sofferenza interiore, fatica a comprendere il senso, le ragioni di ciò che sta vivendo, in genere le teme, le maledice. In realtà già dettando e modulando il sentire l'inconscio, che nei sogni dà guide di ricerca così efficaci, interviene in modo mirato per mettere in risalto qualcosa di importante. Quando il profondo smuove la situazione interiore lo fa per dare richiami e indicazioni molto nette e precise. All'occorrenza può intervenire con mezzi forti, vedi ad esempio con gli attacchi di panico, per spingere a riconoscere in modo drammatico, attraverso il senso di smarrimento e di insicurezza estreme anche rispetto alle proprie funzioni vitali, il proprio abituale scollamento e lontananza dalla propria interiorità. Per chi abitualmente è sospeso nel fare, nell'andare di cosa in cosa, nel seguire richiami esterni, collocando il cuore della vita all'esterno, ecco che improvvisamente il dentro, il cuore intimo, diventa il richiamo e l'incognita prevalente, del tutto inaspettato, ma ormai non evitabile, non eludibile, incombente, che non può più essere ignorato. Da qui, da questo brusco richiamo, spesso ripetuto e incalzante, da questa condizione di forte smarrimento, può accadere che sia riconosciuta la necessità di costruire un rapporto nuovo con se stessi, con la propria interiorità, che è l'intento, lo scopo verso cui spinge l'inconscio. Il profondo, che tiene vivo il malessere per rendere acuta la percezione della crisi e della necessità del cambiamento, è anche pronto attraverso i sogni a dare un supporto fondamentale e una guida affidabilissima e luminosa per cominciare a capire, a conoscersi davvero e a lavorare efficacemente su se stessi. I sogni, di cui non va dimenticato che usano il linguaggio simbolico e non concreto, sono l'espressione più alta e matura della nostra umana capacità di pensiero, un pensiero utile per vedere con i nostri occhi, un pensiero riflessivo, un pensiero creativo e fecondo.

domenica 31 marzo 2019

Malessere senza reali motivi?

Un argomento tutt'altro che infrequente quando si vive una condizione di sofferenza interiore, argomento sostenuto dal diretto interessato o da chi gli sta attorno, è che non ci sono motivi reali e concreti per il malessere che si prova, per quell'ansietà così esasperata e insistente o per quel senso di infelicità e per la perdita di stima e di fiducia in se stessi, solo per fare degli esempi. Lo sguardo punta al fuori, a indagare e a valutare situazioni, circostanze esterne, la verifica utilizza criteri e parametri comuni e soliti per stabilire il grado di soddisfazione o di benessere presunti, che si ritiene debbano conseguire a quelle situazioni concrete. Reale però non equivale a concreto. Concreto è solo un ordine di ragioni e di cose visibili e già ben riconosciute e comunemente. Reale e di peso non secondario può essere anche ciò che ancora non si sa vedere e concepire, che casomai, per preconcetto e per difesa di convinzioni inveterate, non si sa e non si vuole ammettere e riconoscere. Lo stato delle cose riguardante se stessi, il proprio modo di vivere e di procedere, può ad esempio non essere felicemente rispondente a se stessi e soprattutto può essere travisato, ritenendolo normale e scontato, solo perché simile e copia di ciò che pare concepisca e faccia la maggioranza delle persone. Nel nostro profondo però siamo dotati di una capacità di sguardo, quella del nostro inconscio, che non cede all'illusione e alla mistificazione, che sa vedere ad esempio quanto soffrono la nostra identità vera e il nostro potenziale d'essere e di crescita originali quando rimaniamo aderenti e affidati nel pensiero e nello stile di vita a quanto suggerito e impartito dalla cosiddetta normalità, confortati da questo affidamento e nello stesso tempo illusi di essere in qualche misura artefici della nostra vita e realizzati, l'inconscio sa riconoscere lo stato vero delle cose e ammettere l'inconsistenza di un modo di vivere che ancora non racchiude nulla di compreso veramente di noi stessi, nulla di scoperto, di generato da noi. Se la parte profonda di noi stessi volesse darci uno scossone e imporci la necessità e l'urgenza di riaprire tutto, di vedere la nostra lontananza da noi stessi, di intendere per tempo il rischio di fallire il nostro cammino di vita dove non cominciassimo a fare sul serio, impegnandoci prima di tutto a capire la nostra condizione vera senza veli e autoinganni, iniziando a preoccuparci seriamente di formare ciò che manca non per apparire normali, ma per far vivere noi stessi e il nostro, è comprensibile che possa intervenire muovendo in noi con forza una esperienza di malessere interiore, fatta di insicurezza e paura insistite, anche esasperate, di senso di infelicità e di vuoto? Sarebbe realmente motivata questa presa di posizione o sarebbe senza motivo e senso? Quando si giudicano immotivate, assurde o semplicemente dannose esperienze interiori come quelle catalogate ad esempio come ansia o attacchi di panico, come depressione o altro, bisognerebbe andarci cauti. Può esserci motivo valido e fondamento reale per simili esperienze interiori pur spigolose e difficili, pur dolorose o estreme. Abbiamo un profondo (tutta l’esperienza interiore che viviamo che va oltre ragionamento e volontà, cioè emozioni stati d’animo, pulsioni, sogni, è di matrice profonda) che sa vedere e che non vuole tacere, che vuole segnalarci il vero senza sconti per aprire una crisi certamente impegnativa, ma necessaria, utilissima se ben interpretata come occasione di profonda trasformazione e di crescita. Comunque ciò che sentiamo, pur brusco, spiacevole o incalzante o sconquassante, vuole che ci guardiamo in faccia e ben dentro e profondamente, senza tirare avanti inconsapevoli o con una visione di noi stessi approssimativa e vaga, peggio ancora ipocrita o inventata. Ne va della nostra sorte. Se è a rischio la realizzazione della nostra vita fedelmente a noi stessi, se ancora ci manca tutto per essere davvero soggetti consapevoli, se siamo più in sintonia e in accordo con altri che con noi stessi, più adesi ad altro che vicini a noi stessi, dissociati e discordanti tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo e diciamo, il nostro profondo può darci segnali forti, può col malessere metterci alle corde e esercitare su di noi fortissimi richiami. Dunque se anche i motivi della sofferenza interiore non sono di ordine concreto e facilmente identificabili, se anche non sono esterni ma interni a noi, ciò nondimeno esistono e sono reali, realissimi. 

sabato 30 marzo 2019

Conoscere se stessi

Come arrivare alla conoscenza di se stessi? Il corso dell’esperienza interiore, il proprio sentire sono la guida più sicura per capire se stessi, il terreno su cui poggiare, la traccia da seguire. Nel sentire prende volto e vuole rendersi riconoscibile la verità di noi stessi, il nostro sentire acuisce, evidenzia, sottolinea, ci fa toccare con mano ciò che vive in noi e che ci muove nelle nostre scelte, nelle nostre risposte, ci fa riconoscere ciò che, al di là delle apparenze, ci sta accadendo, i nodi e le questioni scottanti dentro cui rispecchiarci e con cui confrontarci, per una conoscenza di noi stessi non astratta, ma fondata e vera. E' idea comune che le emozioni e tutti i moti e stati interiori, che il sentire sia una componente da trattare con riserva, da tenere sotto tutela, che, definita irrazionale, sia per ciò stesso niente affatto affidabile come guida, come fondamento per capire, perchè soggetta a eccessi, a parzialità a intemperanze. Si dà viceversa in genere fiducia prevalente e indiscussa alla componente razionale, considerata capace di dare visione lucida e obiettiva, non in balia di capricciose, viscerali e miopi istanze. In realtà, se isolati in questa funzione razionale, non si può che rimanere confinati in un pensiero, che, a un attento esame e ben diversamente dalle aspettative, si rivela spesso tutt'altro che libero da limiti e parzialità, da distorsioni e capricci. Quando ci si occupa di se stessi si ama infatti rappresentarsi in ciò che pregiudizialmente si ritiene consono e adeguato all'immagine che si ha cara di se stessi, con fatica si accolgono verità scomode, con frequenza nel percorso di pensiero ragionato si omette, anche se in modo velato, ciò che scombina o che smentisce le proprie convinzioni, che delude le proprie attese e previsioni. In ciò che passo dopo passo, cogliendoci spesso di sorpresa, prende forma nel nostro corso interiore, in ciò che sentiamo, che si muove dentro di noi, c’è invece la testimonianza più sincera, il continuo stimolo, acuto e intelligente, a aprire gli occhi, a guardare dentro di noi, a non trascurare parti essenziali. La prospettiva da cui e entro cui si muove il profondo, che è la parte di noi che muove e che plasma il nostro corso interiore, il succedersi di tutto ciò che sentiamo e che, fuori dal controllo di volontà e ragione, accade dentro di noi, è ben diversa da quella della nostra parte cosciente. L'inconscio, libero dal vincolo di essergli compiacente e di dargli conferma, è interessato a garantire all'individuo l'accesso al vero e a una visione ben più aperta e lungimirante di quella che in superficie lo sguardo e il pensiero cosciente sanno offrirgli, spesso vincolati al bisogno di tenere compatta e ben difesa col ragionamento l’idea di se stesso che gli è gradita, di proseguire e di far persistere ciò che gli è usuale, in conformità e dentro i limiti di ciò che comunemente è considerato normale, degno e possibile. Si soffre, pur non patendolo e non riconoscendolo come problema, anzi a volte con l'illusione di disporre di chissà quale libertà e ampiezza di idee, di appiattimento della visione, di univocità del pensiero, come se altro non fosse possibile, concepibile e da salvare se non ciò che è nel solco di ciò che già si sa, dentro cui da tempo si è incanalati. E' comprensibile che, ignorando le proprie risorse interiori, inconsapevole e incurante di vedere la vera natura le ragioni del proprio modo di procedere, spesso, anche se coperto da illusioni circa il suo valore, senza radice dentro se stesso, dove il pensiero e l’intenzione, persino i progetti sono desunti da ipotesi e da modelli preconfezionati, riprodotti pari pari o in qualche misura riplasmati, l'individuo si disperi se interiormente, per iniziativa del profondo, che sa vedere oltre le apparenze, gli si aprono crepe, discontinuità o se si impongono veri e propri intralci. Dando tutto per già compreso e acquisito di se stesso, l'individuo si oppone come a una minaccia e a un fastidio a tutto ciò che interiormente non gira per il verso voluto e considerato valido e conveniente, non si dà disponibilità di ascolto, concentra viceversa il suo interesse sul proseguire linearmente, spesso avendo come aspirazione più forte quella di dare prova di capacità di riuscita, di merito. Verso se stesso la pretesa e l'attesa prevalenti sono di tirar fuori da sè argomenti e abilità da mostrare e dimostrare, come se nient'altro contasse. Come se tutto dovesse di sè concordare con i propositi di efficienza e di riuscita, dare espressione e dare prova sono la principale attesa rivolta a se stessi, perchè la buona riuscita da dimostrare è l'unica o la più forte sorgente di entusiasmo e di autostima da inseguire, da non compromettere. Il profondo dell'individuo, depositario delle personali e originali ragioni di vita e potenzialità, con la consapevolezza di ciò che l'individuo coerentemente con se stesso potrebbe concepire, generare, far vivere, dare al mondo e dire, non ci sta a una simile misera resa della propria esistenza, dove allinearsi e farsi apprezzare e benedire, farsi confermare in ciò che allo sguardo dei più pare degno e adeguato, sembrano gli unici scopi perseguibili, fortemente sostenuti e strenuamente dalla parte ragionante e volitiva di superficie. Il profondo non getta la spugna, anzi dà di continuo attraverso il sentire l’occasione per veder chiaro dentro se stessi. Si vorrebbe far funzionare le cose, si vede spesso tutto in termini di riuscita e di resa efficiente, come se su un cammino già segnato non ci fosse che da proseguire e col miglior passo, illudendosi che in questo ci sia l'espressione della propria forza e capacità di iniziativa e ci siano le migliori fortune possibili da non farsi sfuggire. Non per caso e coerentemente con questa tendenza comune, oggi nell'ambito delle psicoterapie sono assai diffusi gli indirizzi che si propongono di correggere in senso funzionale ciò che nel malessere interiore è considerato (dando questo per evidente e certo) solo una risposta anomala e inadatta, non utile, che penalizza chi la vive, non diversamente da come con l'uso degli psicofarmaci, pure assai diffuso, ci si propone di intervenire sul sentire giudicato anomalo e patologico per metterlo a tacere, per correggerlo, per rimetterlo in riga con ciò che è ritenuto normale, sano, vantaggioso. L'importante è risolvere, rimettere tutto in "buono" stato di funzionamento. L'individuo e il modo di pensare comune sono predisposti a una simile scelta curativa, dove quel che conta è superare, passare oltre tutto ciò che nell'esperienza interiore disagevole è giudicato solo un peso, un aggravio inutile e limitante, un assurdo, un ostacolo di troppo e svantaggioso. Se dentro di sè compare disagio, se interiormente la propria situazione si complica, subito, ancor prima di rivolgersi al curante riparatore di turno, si interpreta l’accadimento come condizione malaugurata, come guasto e espressione di insufficienza, di incapacità di vivere le cose per il verso giusto e normale, come disturbo, come patologia che preoccupa, che allarma. Proporrò un esempio per far capire la diversità tra lo sguardo e il modo di intervenire del profondo e il modo di giudicare e di reagire dell'individuo strettamente attaccato alla visione razionale. Accade che ci sia chi si sente, via via in modo più paralizzante e intenso, impacciato, timoroso, intimidito nel contatto con gli altri, particolarmente con individui a cui, per ruolo, per statuto e per considerazione comune, si riconosce e attribuisce autorità, titolo d'essere capaci e intelligenti, in grado di fare da modello e di valutare dall'alto meriti e capacità personali. Di fronte a un'esperienza come questa la risposta più frequente dell'individuo, affidato ai criteri e ai giudizi razionali, è di volersi porre prontamente al riparo dal disagio patito, di considerare come difettoso il proprio sentire, di volerlo spegnere e sostituire, invocando una sicurezza, una fiducia in se stesso che ritiene essergli dovuta, che pensa sia scontato, normale possedere. Può partire la ricerca del rimedio nel farmaco, che smorzi l'ansia e risollevi l'umore o nell'aiuto psicologico che, mettendosi nelle mani del terapeuta, delle sue spiegazioni, dei suoi suggerimenti, delle tecniche proposte, consenta di mettere le cose a posto, che aiuti a rovesciare presto quelle sensazioni così disagevoli in altre più desiderabili e positive o che, andando a cercare nel passato, in esperienze dolorose, in traumi patiti, in condizionamenti negativi subiti, in carenze di figure significative, la presunta causa, l'origine nascosta di una così debole sicurezza e fiducia in se stessi, consenta di rompere la catena del malessere. In sintesi l'idea che sottende non poche esperienze di psicoterapia, così come l'uso degli psicofarmaci, è che quel sentire nel rapporto con altri ansia, timore e soggezione, così marcata insicurezza e impaccio, sia il risultato di una cattiva impostazione, che sia un guasto, una distorsione che andrebbe prontamente sanata, aggiustata, corretta o da cui ci si potrebbe liberare scavando nel passato, scovando la causa che avrebbe creato il punto debole, la distorsione. L'ottica e il punto di vista del profondo, il problema che vuole sollevare, lo scopo cui tende l'inconscio, che tiene vivo il disagio di cui ho parlato, sono decisamente tutt'altra cosa. Ciò che il disagio vuole far capire, le questioni fondamentali che vuole sollevare, sono ben altro che un problema di cattivo funzionamento da riparare con qualche tecnica o trucco, per (provare a) proseguire contenti e regolari. Si tratta di ascoltare ciò che il sentire dice con attenzione e fedelmente. Se il profondo vuole rendere consapevole l'individuo, non attraverso ragionamento, ma attraverso esperienza viva, da un lato del suo affannasi a cercare consenso, del peso non secondario che ha nella sua vita lo sguardo altrui, dall'altro della scarsità di autonomia di giudizio attorno a se stesso, conseguente al non aver coltivato e dato sviluppo alla conoscenza di se stesso, cos'altro di meglio potrebbe scegliere che rendere acuta nell'esperienza la percezione del problema, non consentendo di passare oltre? Non è casuale che, senza conoscenza di sè profonda, senza lo sviluppo di una autonomia di sguardo e di giudizio su se stessi e sulla propria esperienza, senza la conquista di una vera capacità di guidarsi da sè (lacune e necessità di crescita cui non si rimedia con qualche tecnica e ragionamento), lo sguardo e il giudizio altrui siano un riferimento così presente e condizionante, che diventino l'autorità a cui rifarsi e da cui dipendere. Se il profondo dell'individuo prende l'iniziativa di rendergli nel sentire cocente tutta questa questione, accentuando le sensazioni di impaccio, di soggezione, di paura dello sguardo altrui, lo fa per indurlo a aprire gli occhi, a non prescindere da questa verità, a trattare questa come l’occasione per cominciare a capire, a capirsi, a lavorarci sopra e in profondità e non come la disfunzione da correggere con qualche tecnica impartita di gestione e di preteso controllo sul proprio sentire o come il disturbo da debellare andando a ritroso a cercare qualche motivo di afflizione, trauma o cattivo condizionamento subito che possa spiegare tutto, augurandosi di riportare tutto al dritto, per proseguire come prima e nelle stesse condizioni fondamentali di sempre. Se il profondo, anzichè sostenerlo nello sforzo di ben funzionare, gli scassa e gli intralcia la corsa a dar buona prova, a dare dimostrazione, a metter fuori gli argomenti, a dire, rendendola affannosa e timida, fino a imbrigliarla, lo fa perché casomai quella di ottenere la buona prestazione e di averci un pò di apparente sicurezza è da un lato solo una maschera e una figura da mostrare e difendere (per non fare brutta figura), con sotto nulla che sostenga davvero quella messa in scena e dall'altro perchè, anche dove gli riuscisse, sarebbe misera cosa e altra da ciò che l'individuo potrebbe scoprire, costruire e offrire a se stesso passando attraverso di sè, facendo un valido lavoro su se stesso. Prima di dare buona prova per sentirsi a norma e funzionanti, c’è la necessità di vedere chiaro il proprio modo di procedere, di conoscersi senza restrizioni, in profondità e senza veli, prendendo consapevolezza di ciò che ai propri occhi vale e merita davvero di essere conquistato, smettendola di cercare soltanto e ciecamente prestazioni vuote per raccattare consenso esterno e poco più. Il rischio per l'individuo, ancora privo di visione propria, di comprensione di ciò che profondamente gli appartiene e che potrebbe comprendere e generare, di incanalare e di spingere la sua vita in qualcosa che è pallida sembianza di una vita propria e di ciò che sarebbe capace di realizzare, fa sì che il profondo prenda ferma, intransigente posizione. Se l'individuo, che vive l'esperienza disagevole che ho descritto, affidandosi ai suoi criteri razionali, cerca di porre rimedio e di correggere o di farsi aiutare a correggere ciò che considera solo una distorsione da sanare per procedere più libero da intralci il cammino di sempre, il suo inconscio vuole invece attraverso il malessere metterlo alle strette su una questione ben più importante, vuole evidenziargli invece il vuoto che sta sotto il  suo procedere abituale, la sua non conoscenza di se stesso e la non consapevolezza del modo di condurre la sua vita, vuole stimolare in lui la responsabilità di prenderne visione e di modificarne i fondamenti. Nell'incontro col proprio intimo, nell'ascolto e nel dialogo con la propria interiorità, c'è tutto ciò che può dare la visione chiara del proprio stato, senza mistificazioni, la scoperta della propria identità vera, la formazione graduale del proprio bagaglio di idee fondate, comprese da sè e alla radice, che rendono capaci di sostenere progetti e percorsi di cui essere protagonisti e artefici, con passione e  con convinzione salda, liberando se stessi dalla dipendenza dalla autorità dello sguardo e del giudizio degli altri. E' questa la condizione per dare un nuovo volto, originalmente proprio, alla propria vita di cui essere fieri, capace di sostenere e a ragion veduta una fiducia in se stessi forte e tenace come non si è mai avuta, una fiducia, un'autostima e una sicurezza ben piantate e motivate, non gonfiate ad arte e gratuite come si sarebbe preteso. L'inconscio spinge verso la conquista di questi traguardi. Se serve aiuto, questo può rivelarsi valido e prezioso se favorisce la scoperta di se stessi, particolarmente della parte di sè più intima e profonda sinora ignorata, sottovalutata o temuta, se favorisce la propria crescita solida e vera e non aggiustamenti che lasciano intatta la propria fragilità e lontananza da se stessi. La conoscenza di se stessi può essere  piegata alla pretesa di tenersi sul binario di ciò che si considera normale, adoperandosi per far funzionare tutto secondo gli andamenti soliti, anche se in disarmonia e in disaccordo col proprio profondo, che non ha mancato e che non mancherà di farsi sentire. Ben altra cosa è la conoscenza trasparente, sincera e approfondita verso cui spinge il profondo, una conoscenza che, alimentata dall'inconscio col sentire e in modo straordinariamente valido con i sogni, se assecondata e coltivata, diventa la base del cambiamento di qualità e di sostanza della propria vita, per prenderla davvero in mano, per darle volto e contenuto originali e propri, per avere unità di visione e d'intenti con tutto il proprio essere.