domenica 27 ottobre 2019

Le certezze ignoranti

La relazione che in situazioni di disagio e di sofferenza interiore si stabilisce con ciò che vive dentro se stessi è più spesso di insopportazione e di aperto conflitto che di dialogo e di ricerca di intesa. Senza esitazioni ciò che risulta spiacevole è giudicato insano, nocivo, deleterio, altro e diverso da ciò che ci si dice certi che dovrebbe esserci. Tutto sembra dare conferma a simili tesi, a simili certezze: l'opinione e il credo comune, i tanti terapeuti pronti a promettere sollievo da una sofferenza giudicata un peso e un danno psicologico da cui sarebbe auspicabile, legittimo liberarsi. Teorie psicologiche e tecniche coerenti con l'idea che ci sia nello stato di malessere un disturbo cui porre rimedio per riportare al dritto, a normalità la situazione interiore, fanno agli occhi dei più da garanzia all'idea che sia assolutamente giusto, valido e sensato combattere come nemico e insano lo stato di disagio e di sofferenza interiore. Peccato che tutto l'edificio delle spiegazioni in termini di alterazioni e di disturbo, con definizioni e etichette diagnostiche varie, dell'esperienza interiore disagevole e sofferta, che l'idea dell'individuo a norma e normofunzionante, siano il frutto di una visione monca e parziale, di un pregiudizio, di un modo di concepire l'intima esperienza che nulla ha a che vedere con ciò che è, che vale davvero, che le è insito, che vuole dire, che intende proporre, conseguenza di un modo di concepire l'uomo che non comprende cosa porti realmente dentro se stesso. Va detto che non è casuale che, come dicevo all'inizio, la risposta dell'individuo, che sperimenta dentro se stesso disagio e malessere interiore, sia di contrapposizione e insofferenza, di spinta a debellare come nemico  ciò che prova di difficile e sofferto, a evaderne il più possibile, a cercare di metterlo a tacere. L'individuo non è abituato a trattare ciò che vive interiormente se non come appendice subalterna, con la pretesa che si allinei, che sia coerente con ciò che pensa valido e giusto, con ciò che suppone e auspica essere normale. Tutta l'attenzione e le attese sono rivolte all'esterno, la realtà è intesa solo come il concreto insieme di condizioni esterne, le relazioni sono solo relazioni con altri e con altro che sta fuori. Il mondo interiore non esiste se non come satellite del mondo e della realtà esterna. Cosa si pensa abitualmente ci sia dentro se stessi se non uno stato di bisogno, se non il desiderio di acciuffare, di avere, di perseguire questo o quello che sta fuori, se non l'abilità più o meno avanzata di stare al passo, di stare dentro la cosiddetta realtà,  di stare sopra la giostra del vivere disegnato fuori? La propria interiorità è ben di più, anzi è ben altro, ma non la si conosce, non se ne ha confidenza e conoscenza. Non è stata coltivata e non s'è formata la capacità di entrare in rapporto con l'esperienza interiore, di ascoltare il proprio sentire, di intendere l'intimo e l'autentico di ogni sensazione, emozione, stato d'animo. Le antenne sono tutte rivolte al fuori e non al dentro. Nel corso del suo percorso di vita l'individuo ha appreso tante cose, a adattarsi, a intendersi col fuori, ma assai poco o per nulla ha sviluppato la capacità di relazione col dentro, col proprio intimo, la capacità di incontro, di ascolto e di dialogo con il proprio sentire, con la propria interiorità, di intenderne il linguaggio, di scoprirne la qualità, il valore, l'affidabilità. La connessione col fuori è stata e è vissuta come la priorità, anzi come la condizione vitale e essenziale, col dentro non c'è necessità di essere connessi, di intendere, di intendersi. Le antenne rivolte al fuori sono pronte a intendere gli stimoli, i segni del linguaggio convenzionale, a riprodurlo, a rimasticarlo. Ciò che succede dentro se stessi deve solo allinearsi con ciò che la giostra richiede, con i suoi schemi e tempi e se si provano ad esempio impaccio, freni, esitazioni, se non c'è carica pronta, ecco che questo appare subito come un difetto di funzionamento, come l'insicurezza che non dovrebbe esserci, cui opporre lo sprone a essere e a prodursi altrimenti, a correggersi. Addestrati a stare al passo e a norma, a fruire dello schema comune come unica fonte e occasione, abituati solo a stare sulla giostra, pensando che questa sia la realtà, la realtà in assoluto, che ogni sensazione e moto interiore che non la asseconda sia solo un ritardo, un handicap possibile, un che che isola e che fa stare indietro, si è già nella posizione di non rispettare ciò che vive dentro se stessi, di non comprenderlo, di forzarlo a stare solo al passo con quell'unica pretesa di stare a norma. Cosa succede se la parte più intima e profonda di se stessi, ben consapevole di questa tirannia dell'andare dietro, di un'interpretazione della vita così parziale, distorta e soprattutto cieca, automatica, non rinuncia a porre l'ostacolo, perchè finalmente si prenda visione del proprio stato, ci si guardi dentro, si consideri cosa ne è di se stessi, cosa si sta facendo nel rapporto con se stessi, col proprio intimo? Cosa succede se la parte profonda di se stessi, assai meno succube del pregiudizio, consapevole della posta in gioco, cerca di mettere in crisi il tutto per riaprire l'individuo alla possibilità di capirci qualcosa di se stesso, per non perdersi, per trovare nuova e diversa linfa e ispirazione alla propria vita che non sia proseguire a testa bassa? Ahimè spesso la parte che più realmente soffre il limite di essere cieca e senza visione, ma che si arroga di essere capace e lucida, liquida la parte interiore, che non l'asseconda nelle sue pretese di efficienza e di stabilità, come insana e da rimettere in riga. E' una beffa a proprio danno, è il culmine dell'autoinganno, quello che si consuma per effetto delle certezze ignoranti, che dicono che bisogna correggere e sedare, mettere a tacere e riportare al dritto e al normofunzionante ciò che interiormente si fa sentire, la voce interna, che tutto è meno che stupida o dissennata, che tanto saprebbe e vorrebbe dare, ma che, troppo spesso, non si è capaci di capire e di rispettare.

sabato 26 ottobre 2019

Psicoterapia a che scopo?

La conquista fondamentale, che la psicoterapia dovrebbe consentire, perchè sia davvero utile, capace di portare al cambiamento di qualità nella propria vita, è imparare a stare fiduciosamente ben connessi col proprio intimo sentire e con il succedersi di tutto ciò che si vive interiormente, anche quando difficile e disagevole, imparando a reggerne la tensione, a non fuggire, di pari passo con l'acquisizione e con lo sviluppo della capacità riflessiva, che permette di vedere, come guardandosi allo specchio, cosa dentro il proprio sentire, dentro la propria esperienza interiore prende forma, di riconoscerne l'autentico significato, di raccoglierne l'originale proposta. La capacità riflessiva di cui parlo, che è conquista fondamentale, non c'entra nulla con la riflessione comunemente intesa e praticata, che si traduce in un dire e rimuginare razionale sul conto dell'esperienza, mettendole sopra spiegazioni e deduzioni, sviluppando idee che coi vissuti interiori, col sentire, reso oggetto di speculazione razionale, non hanno relazione, che non gli concedono parte attiva e propositiva. Nel sentire c’è la parte di sè che può dare a ognuno il contatto vivo con se stesso, la terra sotto i piedi per ritrovarsi e per comprendere. Nel sentire c'è il radicamento nel vero, la guida viva per non allontanarsi mai da se stessi e dal cuore della propria esperienza e della propria ricerca. Parlo di ricerca perché il senso vero del nostro vivere non è adattarci o infilarci in qualche dove che ci definisca e che ci dia un illusorio senso di esistere e di realizzarci, ma è vedere con i nostri occhi, trovare dentro di noi le risposte e riconoscere quale vuole e può essere il senso, lo scopo della nostra vita, secondo noi stessi, coerentemente con noi stessi. La piega prevalente dell’esistenza è spesso di farsi dare dall'esterno risposte, di seguire e inseguire tracce e guide esterne, di identificarsi con altro fuori e attorno a sè, che se da un lato già sembra dire, consentire, dare risposte e soluzioni possibili, dall'altro finisce per delimitare le espressioni, le scelte, i modi della propria vita. Il nostro profondo, depositario delle nostre più originali ragioni, potenzialità  e capacità di pensiero, non ci sta a un simile passivo adeguamento, che rischia di falsare e di far fallire la nostra vita, di toglierle il bene supremo, quello della consapevolezza, della capacità di vedere con i nostri occhi e di generare il nostro pensiero, della libertà di metterci su un cammino nostro, sentito, consapevole, fattivo e creativo, non affidato al conformismo o all’approvazione/conferma altrui. La parte profonda non sta quieta e preme per sollecitare ricerca, presa di coscienza di come ci si sta muovendo, spesso e da gran tempo in modo gregario (anche se con l'illusione di essere artefici delle proprie idee e delle proprie scelte), di cosa si sta facendo di se stessi, di cosa viceversa è possibile mettendo al centro e senza risparmio il proprio sguardo, onesto, trasparente, acuto e pronto a riconoscere anche ciò che di se stessi dispiace ammettere, ma che per crescere e far crescere il nuovo e il proprio è indispensabile conoscere e riconoscere. Il malessere e la crisi interiore nelle sue diverse espressioni, tutte significative e mai casuali, nasce e si propone con forza per iniziativa del profondo. Non è un guasto o una patologia da combattere frontalmente e da mettere a tacere, neppure da spiegare e da tentare di risolvere andando a cercare in qualche accidente o condizionamento esterno la causa presente o remota che avrebbe provocato il presunto guasto o danno interiore,  è viceversa richiamo e sollecitazione profonda a occuparsi di se stessi, a prendere visione del proprio reale stato, a mobilitarsi per generare tutto ciò che manca di scoperte di significato, di conoscenza di se stessi, indispensabili per prendere davvero in mano la propria vita, per rispettarne le ragioni e per farne vivere le possibilità autentiche. Nel lavoro di psicoterapia (mi sto riferendo a una psicoterapia di impostazione analitica e che concepisca la totalità dell'essere, l'importanza della componente profonda, dell'inconscio) è fondamentale dunque dare spazio alla parte intima e profonda, che è motore della crisi e che sa cosa sta smuovendo e perché. E’ parte di noi, quella profonda, che non si perde o disperde, che non accantona nulla, che non oscura per comodo, che non rinvia la verifica, che vuole il vero, senza limiti e sconti, perché il vero è la base della libertà e della trasformazione, del poter scegliere sapendo. La ricerca nel corso della vita non è mai finita, ma è importante che sia ben e saldamente impostata, che si sia imparato a dialogare con se stessi, ad avere unità con se stessi, a dare ascolto a tutto ciò che si sente, a procedere uniti con se stessi. I nodi decisivi vanno avvicinati, sotto la guida della parte profonda che lo sa fare di dirigere la ricerca (prima di tutto attraverso i sogni, oltre che con tutto ciò che nell'esperienza del sentire, che l'inconscio plasma e dirige, vuole rendere tangibile, riconoscibile) e, imparato a dare forma nuova e consapevole e unitaria al proprio procedere con se stessi, si può andare oltre da soli dopo l’esperienza analitica. Questo l’orizzonte dentro cui va concepita la psicoterapia perché davvero sia utile e consegni le chiavi nuove per continuare il cammino non in un rapporto di fragile unità con se stessi o addirittura di disunione, di persistente timore e di propensione a sorvegliare e a controllare gli accadimenti interiori (quante volte capita di sentir dire: ho imparato con la psicoterapia a "gestire" le mie ansie), ma di fiducia e di scambio totale, senza chiusure, con la propria intima esperienza, di sintonia col proprio profondo. Quando, travisando il significato della crisi, si investe su terapie che pretendono o che si illudono di mettere sotto controllo o a tacere l'intimo malessere, anzichè aiutare a sviluppare la capacità di ascoltarne voce e proposta, quando i nodi decisivi della propria vita non sono, con la guida del profondo, riconosciuti e sciolti, quando i cambiamenti nel modo di stare in rapporto con se stessi non sono felicemente conquistati, quando non si supera la scissione tra ciò che si argomenta e ciò che si sente, quando non si raggiunge la unità dialogica con la propria interiorità, il profondo tornerà nel tempo a agitare le acque con rinnovata insistenza e a reclamare ascolto, imperiosamente premendo ancora perchè sia fatto il lavoro che serve, perchè finalmente sia fatto bene e fino in fondo.

lunedì 21 ottobre 2019

Divergenze

Il modo abituale di trattare il malessere, ciò che interiormente risulta disagevole e sofferto, è divergente rispetto all'intenzione e al senso dell'esperienza interiore. Da una parte c'è l'interiorità che testimonia uno stato di crisi finalizzato alla ricerca di verità e al cambiamento nel segno del trarre da sè consapevolezza e fondamenti d'esistenza originali e propri (i fondamenti dell'essere se stessi), dall'altra c'è la reazione della parte conscia che di fronte al malessere interiore chiede solo di rimettere le cose al punto di partenza, di riprendere la corsa solita o di renderla più efficiente, di scaricare ciò che giudica solo un disturbo, un ostacolo, un impedimento. Questa è la questione delle questioni. La psicoterapia apparentemente prende sul serio la necessità di capire, di lavorare su un problema finora sottaciuto o ignorato, anzichè pretendere solo di passare oltre, di zittire il malessere. In realtà spesso la psicoterapia cerca la presunta causa di un presunto guasto, di un presunto cattivo o non fisiologico funzionamento, cerca spesso un capro espiatorio in qualcosa, sovente nel passato, per spiegare l'origine e il perchè del malessere. Così facendo fraintende e non comprende il senso vero, la proposta che il sentire, che l'intero corso d'esperienza intima e profonda sta avanzando. Non si tratta infatti di togliere l'ostacolo, la spina nel fianco, di correggere un guasto, un (presunto) malfunzionamento, per proseguire più sciolti e regolari, l'interiorità segnala e propone ben altro. L'interiorità non è testimone passiva di un che che si è guastato o che non ha potuto funzionare per il verso giusto, normale, regolare, l'interiorità non è un congegno in cui cogliere sintomi di sofferenza e di cattivo stato da sistemare, è ben di più, è ben altro. E' parte attiva nel registrare gli andamenti e i modi di procedere, nel coglierne il senso, nello svelarne il significato vero, fuori da alibi e ipocrisie, nel vederne la distanza che li separa dal proprio che vorrebbe e che potrebbe generarsi se non prevalesse la modalità passiva di andar dietro, di farsi dire e plasmare secondo idee e modelli, di farsi attrarre da soluzioni e percorsi già segnati e prevalenti. La modalità passiva di entrare in ruoli e parti, sforzandosi di interpretarli adeguatamente, di usare e riprodurre pensieri e risposte già pronte, pur con l'illusione di pensare a modo proprio, in realtà rimasticando pensiero preso in prestito e mai compreso, di seguire un filo non proprio, di stare al passo, di inseguire visibilità e gradimento esterni, di proteggersi da cattiva considerazione altrui come scopo primario, è il vero attentato alla propria vita, perchè la spegne, la devia dal suo scopo. Interiormente gli occhi sono ben aperti, non c'è illusione o mistificazione, c'è consapevolezza di cosa sia il farsi dare e dire, di cosa sia l'alienazione del credersi se stessi e pensanti pur andando dietro e stando dentro un copione già scritto, un pensiero e orientamenti che fanno il verso al senso comune prevalente o a nuove (?) mode e tendenze. Convergere con se stessi, non divergere, avvicinarsi con disponibilità di ascolto e di dialogo alla propria interiorità, cercare in questa unità d'essere e di sguardo le proprie risposte, il coraggio e l'occasione di vedere senza veli e inganni come si è e come si procede, trovare via via linfa di pensiero proprio e progettualità propria può permettere di non stare perennemente e fatalmente sui binari di ciò che è considerato normale o degno o desiderabile, può dare autonomia di indirizzo e di progetto vera e sostanziale. Costa assai di più generare che consumare, che andar dietro, che farsi dare senso e occasioni, modi e scopi. Se si vuole si può però rinascere, da se stessi e non da qualche nuova dottrina o fede. L'inconscio non cerca altro, non vuole altro, non propone altro, se fa il guastafeste lo fa per scuotere e per rompere equilibri di vita passiva e sterile, dissociata da sè e che poggia su altro, non su proprie radici e risorse. L'inconscio interferisce e non dà tregua, col sentire, con sensazioni e stati d'animo, con corsi interiori solo in apparenza sgangherati e nocivi, solo in apparenza disfunzionali e malati, giudicati tali solo da ignoranza e pregiudizio, scuote equilibri, vuole mostrare le falle di un modo di procedere spiantato e tenuto su e in auge da supporti più esterni che interni. L'inconscio esercita forti richiami, anche se la parte conscia non ne vuole sapere di verifiche attente e approfondite, interessata solo a tenere in salute un procedere che non osa e che non sa vedere criticamente  nel suo volto e significato veri, ostinandosi solo nell'illusione di essere già a posto, di saperci fare, nella convinzione che nulla sia più favorevole a se stessi che proseguire senza intralci. L'inconscio, che apre la crisi perchè diventi foriera di cambiamenti profondi, utili e necessari,  è pronto a nutrire, pricipalmente attraverso i sogni (che devono essere analizzati e compresi nei loro autentici significato e proposta, perchè possano dare il tanto che racchiudono), percorsi e processi di presa di coscienza, di formazione di pensiero originale e vicino a se stessi. Divergenze non da poco quelle che oppongono la spinta dell'inconscio a rinascere da se stessi e a diventare soggetti della propria vita, con la tendenza della componente conscia che vuole solo persistere nei suoi intendimenti e proseguire, che pretende di mettere a tacere e che tratta come disturbo e malfunzionamento ciò che si ostina a non capire, che insegue a perdifiato occasioni e opportunità esterne, pensando che siano uniche e essenziali, che ignora le proprie e il compito di scoprirle, di coltivarle e di trarne frutto. Tanto dell'ideologia e della pratica della cura più diffuse e ricorrenti, della ricerca del superamento del malessere interiore oscura e travisa la natura del problema. Non c'è interiormente parte debole e malfuzionante da sanare e da rimettere in riga o in buona forma, c'è divergenza interna al proprio essere sul modo di intendere la propria sorte, la propria vita, i propri scopi, la verità delle cose.

venerdì 23 agosto 2019

L'uso degli psicofarmaci

La prescrizione e l'utilizzo assai frequente di psicofarmaci, particolarmente di ansiolitici e di recente  in modo sempre più esteso di antidepressivi, in situazioni di disagio e di sofferenza interiore, rende necessaria una riflessione sul significato e sulle implicazioni per chi ne fa impiego di una simile pratica. Assumere psicofarmaci sembra scelta innocente, priva, per chi ne fa uso, di responsabilità verso se stesso, sia perchè la responsabilità della scelta è demandata per intero al curante, cui sono spesso acriticamente riconosciute capacità di conoscere, per ruolo e per sapere acquisito, il significato dell'esperienza interiore e dei suoi modi di declinarsi e autorità di stabilire il che fare più utile e adatto, sia perchè l'idea della cura in ambito psicologico, che imita la medicina nell'applicazione del rimedio farmacologico a situazioni di malattia fisica, sembra scontatamente buona e congrua. Le vicende interiori e tutto ciò che concerne il modo di trattarle, di dare loro risposta non sono però piattamente equiparabili alle vicende di natura corporea su cui lavora abitualmente la medicina. Per la verità, aprendo una piccola parentesi, anche sul terreno medico è riconoscibile la diversità tra l'approccio curativo cui siamo più abituati, che vuole aggredire il problema, le sue cause e con mezzi chimici o fisici di varia natura correggere e sistemare e altri approcci,che riconoscono l'importanza e la complessità dei processi biologici in atto in ogni situazione di sofferenza fisica, la capacità dell'organismo di dare risposte utili e intelligenti, che con la cura andrebbero comprese, per essere sostenute, assecondate, favorite. Chiusa la parentesi, va detto che le vicende interiori presto bollate come segni di anomalo funzionamento quando assumono carattere aspro, doloroso, ostico, non conforme a ciò che è ritenuto normale, se sapute avvicinare, ascoltare e comprendere, rivelano di non essere disordinati e patologici processi e modi di funzionare. Tutto ciò che accade interiormente, tutti gli svolgimenti interiori, anche i più insoliti, difficili e sofferti, ben lungi dall'essere segni di alterazione e di malfunzionamento, sono spinte e trame vive di intima esperienza che vogliono, in modo preciso e mirato, sensato e intelligente, condurre a aprire gli occhi, a vedere. Non c'è modo più efficace di conoscere del fare intima esperienza di qualcosa che, se toccato con mano, se patito, può essere compreso. Tutti i vissuti, tutte le esperienze e gli svolgimenti interiori, anche i più ardui o estremi, che finiscono spesso nel catalogo delle anomalie e delle patologie, sono richiami fortemente incisivi, a volte potentissimi come ad esempio accade con gli attacchi di panico, che vogliono portare l'attenzione e lo sguardo, persi nel fare e nell'osservare ciò che accade nel rapporto con l'esterno, sull'interno, su se stessi, per mettere in primo piano e avvicinare questioni vitali e rilevanti. Anomalo e irregolare è solo ciò che non si sa intendere e che pregiudizialmente si considera tale. Purtroppo la presunta scienza sul terreno psicologico spesso non sa vedere il senso delle vicende interiori, ignora la funzione e la capacità propositiva della componente profonda che regola e da cui dipende  tutto il corso del sentire e degli svolgimenti interiori, ciecamente invece parte dal presupposto che esista una normalità di funzionamento e che tutto ciò che non la rispecchia entri nel capitolo della disfunzionalità e della patologia. L'uso dei farmaci discende da questi presupposti, gli psicofarmaci sono armi usate per sedare, ricomporre, stimolare, comunque per tentare di correggere nella direzione ritenuta sana la situazione interiore, cui, se stona e devia dai binari di ciò che è considerato regolare e positivo, non si riconosce nulla se non di essere nociva, sbagliata, malata. L'uso degli psicofarmaci conferma agli occhi di chi li assume, rafforza in lui la convinzione che ciò che vive dentro se stesso è un peso insopportabile di cui liberarsi, una minaccia da cui guardarsi, un che di ostile e dannoso da combattere, eliminare, mettere a tacere, emendare. Non è scelta di poco peso, equivale a squalificare e a dichiarare guerra a una parte di sè bollata come insana. La scelta di curarsi con psicofarmaci decreta che bisogna far fuori e diffidare di parte viva di se stessi, quella intima e profonda, di cui spesso si ignora la rilevanza e la stessa esistenza come componente fondamentale del proprio essere, di cui non si conosce il valore, di cui non si conosce il linguaggio, con cui non si ha familiarità, perchè tutto si è imparato nel tempo (sempre rivolto all'esterno, a capire e a interagire con l'esterno, con gli altri) meno che a comprendere la propria vita interiore, a avvicinare, a ascoltare il proprio sentire, a dialogare con la propria interiorità. Non si è cresciuti in capacità di rapporto con se stessi, riducendo o pretendendo di ridurre la propria interiorità a appendice funzionale, che avrebbe dovuto, che dovrebbe, per essere riconosciuta sana, solo continuare a assecondare le pretese di prestazione cosiddetta normale. Non si ha spesso nemmeno percezione che la propria interiorità nelle vicende interiori che promuove, pur dolorose e in apparenza incomprensibili e fuori dall'usuale, certamente gravose e tormentose, voglia utilmente dire e proporre, che non sia un arnese malfunzionante o bacato, ma che voglia lucidamente, sensatamente indurre a entrare nell'intimo vero della propria realtà e condizione, a vedere nodi e questioni decisive su cui impegnarsi a riflettere, a lavorare, pena il rischio di procedere ciechi e senza consapevolezza, senza capacità di incidere davvero sulla propria vita, di condurla fedelmente a se stessi. Usare i farmaci non è scelta innocente e di poco conto, anche se in apparenza buona, anche se pare non se ne porti la responsabilità. Se l'uso degli psicofarmaci diventa fonte di inquietudine e di tormento, a volte accade che per chi vi fa ricorso risulti problematico il loro impiego, un motivo per simili inquietudini c'è e è tutt'altro che irrilevante. Se si fanno sentire timori non è solo per paura degli effetti collaterali e per il rischio della dipendenza, ma anche perchè profondamente si avverte che quella dell'uso degli psicofarmaci è una scelta, che, pur vestita da benevola cura, segna una frattura nel rapporto con se stessi, che rende ancora più oscuro ciò che vive dentro se stessi. In questi casi non è raro che ci siano pressanti inviti a affidarsi all'autorità del curante che propone gli psicofarmaci come rimedio e soluzione  necessaria e favorevole. L'argomento che la sofferenza psicologica vada considerata malattia da curare, analogamente alle malattie del corpo, pare dare sollievo e protezione dall’idea di essere e di apparire deboli e incapaci di reagire, di non saper essere normali. Pare dare sollievo, ma getta tutto del proprio intimo sentire difficile e incompreso nel cesto dei rifiuti, di ciò che comunque è giudicato abnorme, da eliminare. Gli psicofarmaci in questa considerazione di sé come vittime di malattia si accreditano come utili e necessari. C’è un luogo comune che afferma che le espressioni di sofferenza interiore vanno moderate e contrastate, che l'ansietà è utile sedarla, che dall'abbattimento interiore bisogna risollevarsi con gli antidepressivi, che questo “beneficio” va ottenuto anche per facilitare la psicoterapia. Continua a essere ignorato che non c'è sentire e esperienza interiore, che così com'è non abbia senso e valore, che compito della psicoterapia è di rispettare ogni vissuto interiore, di aiutare l’individuo a avvicinare il suo sentire e tutto ciò che vive dentro se stesso nella sua integrità e senza preclusioni, per farlo parlare, per imparare a ascoltarlo per trarne frutto di consapevolezza, di conoscenza di sè, di intesa con se stesso. Scopo della psicoterapia che voglia essere  utile a ricomporre l'unità dell'individuo con se stesso, non è di costruire ipotesi e spiegazioni avulse dal sentire su presunte cause del malessere interiore, non è di mettere a punto tecniche di gestione e di superamento di paure o d'altro considerati anomali e disfunzionali, ma è di far trovare all'individuo capacità di incontro e di dialogo con se stesso, per fargli abbandonare la posizione di diffidenza, di insofferenza e di paura della sua esperienza interiore, di fuga da se stesso, dal proprio intimo, per fargli scoprire e constatare che di tutto ciò che vive dentro se stesso, a dispetto delle apparenze e dei pregiudizi negativi, può fidarsi. Se da un lato gli psicofarmaci sono l’espressione di una incomprensione grave dell’esperienza interiore e sono coerenti con il proposito di rimettere le cose nel verso solito, dall’altro è possibile dare al malessere e alla crisi interiore ben altra risposta, non ostile, che non pretende di correggere e di rimettere le cose in ordine, ma volta, con l'aiuto giusto, a sviluppare la capacità di entrare in relazione rispettosa e aperta con l'esperienza interiore, di ascoltarla, di comprenderla intimamente. Svolgere un lavoro su se stessi che non si ponga pregiudizialmente contro, ma che sappia intendere fedelmente e fare propria la proposta che la crisi interiore sta avanzando, fa scoprire all'individuo che tutto ciò che si svolge interiormente, pur se impegnativo, difficile e sofferto, non gli è e non vuole essergli dannoso, ma pungolo alla presa di visione del vero, guida affidabilissima per un cammino di conoscenza e di crescita personale. La vera difficoltà o se proprio vogliamo chiamarla disfunzione (disfunzione dell'individuo che non ha legame e unità con se stesso, con la propria interiorità) è provare sensazioni penose e impegnative, stati d'animo, complesse e difficile esperienze interiori e non intendere cosa stanno dicendo e rivelando, non avere occasione di scoprire che non sono un meccanismo rotto, ma che sono parte viva di se stessi che sta dando richiami e testimonianza di qualcosa che è indispensabile e utilissimo comprendere. Insomma un aiuto va trovato e offerto a se stessi, un aiuto per riuscire a comunicare col proprio intimo, per trovare intesa e unità con la propria interiorità e non per combattere come fosse nemica e nociva parte viva e intima di se stessi.

venerdì 2 agosto 2019

Se lo conosci non lo eviti

Se una parte di te ti parla e vuole dirti, quel che serve è dare disponibilità al rapporto, entrare in sintonia con lei e ascoltarla, fare percorsi di dialogo assieme per conoscere, per capire. L'inconscio dice, spontaneamente interviene e comunica, sia in ogni momento attraverso il sentire, che non è mai casuale, che comunque si proponga apre sentieri, corsi vivi d'esperienza interiore dentro cui prendere contatto con se stessi e vedere, capire per intima esperienza, sia attraverso i sogni, che sono pensiero intelligente, di acutezza e veridicità sorprendenti. E' necessario capacitarsi del linguaggio interiore e ancora prima, come dicevo, offrire disponibilità al rapporto e al dialogo, invece che opposizione e pregiudizio, come capita di fare spessissimo, quando l'insieme dell'esperienza interiore, perchè disagevole, a volte fortemente impervia o insolita, è già in partenza considerata anomala, dannosa, da correggere, da combattere, per riemergere al più presto al consueto e al normale. Il linguaggio interiore del sentire va appreso, perchè le categorie e i modi soliti di pensiero e di lettura dell'esperienza rischiano solo di fare sfracelli, stabilendo che questo non ha senso, che quello è eccessivo, che bisognerebbe invece che sentire questo provare quell'altro, che la causa sarà questa o quell'altra ecc. ecc. Solo la riflessione può far vedere e rispettosamente l'intimo messaggio, cosa ogni sensazione e stato d'animo autenticamente propone, delinea, traccia, ma la capacità riflessiva va formata e sviluppata, non ha nulla a che fare con le rimuginazioni e le invenzioni del ragionamento, col modo razionale di pensare e argomentare. I sogni devono essere avvicinati con altrettanta cura e attenzione, non con sguardo solito e concreto. Se in un tuo sogno, giusto per fare un esempio, compare una persona, il sogno non vuol parlarti di lei in quanto tale, ma solo in quanto dà volto a parte di te stesso. Se rifletti su ciò che caratterizza questa persona ai tuoi occhi, su ciò che nei suoi modi e atteggiamenti esprime, potrebbe farti vedere modalità e espressione umana che ti appartiene, che l'inconscio vuole farti riconoscere, su cui il sogno ti vuol far lavorare. E' possibile dialogare col profondo e l'inconscio ha chiara e forte intenzione di comunicare, tant'è che non di rado disturba il quieto vivere, interferisce, anche vistosamente, nella propria esperienza attraverso tutto ciò che muove e smuove sulla scena interiore ( ansia, panico e quant'altro) e non per fare danno, ma perchè vuole portare con forza l'attenzione al dentro e a se stessi, perchè è venuto il tempo e urge trovare la consapevolezza che manca, perchè l'inconscio può, se gli si dà spazio e retta, nutrire la capacità e sostenere il coraggio di guardare nell'intimo vero e di non perdersi nell'apparente, può e vuole dare spinta alla passione di divenire se stessi e non copia d'altri o d'altro. L'inconscio è la vita, l'istinto di essere che sopravanza e scardina i calcoli di convenienza e di ricerca del consenso, è l'intelligenza che guarda dentro e smonta le illusioni e gli autoinganni, che va oltre i marchingegni del ragionamento e i preconcetti, l'inconscio è la parte di se stessi che non si accontenta di una vita normale, a norma, dietro altri e passiva, ignorante, che ignora ciò che da sè e attraverso sè si potrebbe vedere e concepire, costruire e volere. Si può assecondare l'inconscio, il proprio inconscio, accogliere e comprendere la sua proposta, convergere e non divergere, far propria la spinta che viene dal profondo a trasformarsi fedelmente a se stessi. E' conquista di vita, d'essere e di pensiero non immediata o gratuita, non è soluzione già pronta da consumare, come potrebbe essere una pillola da mandar giù o un consiglio o prescrizione di comportamento da eseguire. Richiede lavoro serio su se stessi, sostenuto da passione e da desiderio di vicinanza e di unità con se stessi. Può richiedere l'aiuto di chi sappia guidare ad avvicinarsi a sè e ad ascoltarsi, a comprendere il linguaggio interiore, piuttosto che a combattere presunte anomalie di sentire e di comportamenti. L'inconscio è più vicino di quanto non si creda, ma per entrare in sintonia e in dialogo col profondo, per arricchirsi di quanto di prezioso può donare, serve prima di tutto imparare ad ascoltarlo e a capirlo, a non avere pregiudizi nei suoi confronti, nei confronti di una parte di se stessi. Se lo conosci non lo eviti. 

La visione capovolta

Ciò che abitualmente è considerato sano, positivo e desiderabile è spesso parte e scaturisce da una visione di se stessi, delle proprie esperienze, che, appoggiandosi e fondendosi col senso comune e con la lettura convenzionale, non ne cerca il fondamento, la verifica, il significato vero. La comprensione attenta di ciò che lega alle proprie convinzioni e agli scopi voluti è trascurata, li si dà per scontati e si insiste nella conferma di ciò che si ama credere, per comodità oltre che per inerzia. Accade allora che tutto ciò che interiormente col malessere nelle sue possibili diverse espressioni, che sia ansia, panico o  sfiducia e caduta di autostima o altro, interviene a scuotere e a aprire crepe nei propri convincimenti, a intralciare il cammino solito,  per spingere a rivedere tutto, cercando non il significato apparente e di comodo, ma quello vero, sia oltre che incompreso, perentoriamente osteggiato e squalificato come disturbo, come malfunzionamento da correggere, come malattia da combattere e risanare. Proprio la componente di sè che in modo sano, provvidenziale e intelligente vuole far emergere il vero, spingendo oltre l'attaccamento all'usuale, che rischia di affossare qualsiasi processo di crescita e di conquista di autonomia, di capacità di farsi interpreti fedeli di se stessi e della propria vita, è combattuta e denigrata come un fastidio, come una anomalia, come una patologia. Un capolavoro di cecità e di mistificazione a proprio danno, spesso col conforto e col suggello di qualche terapia che pretende di definirsi utile e capace di risolvere i problemi, di ridare il beneficio dello star bene. E' un danno che passa sotto silenzio, che il senso comune non intende, che la parte profonda dell'individuo non ignora di certo, che non può accettare, tant'è che il malessere, anche se osteggiato e in vario modo preso di mira e frainteso, torna a più riprese a farsi avanti. La musica però non cambia e in questi casi il pregiudizio, che non arretra, definisce e liquida il tutto come una ricaduta di malattia. La parte profonda vuole promuovere il cambiamento, vuole che si veda in cosa si è infilati. Ha a cuore che non si sciupi tutto di se stessi, rimanendo nel buio del preconcetto, di una visione che non concede al vero, che illude di esserci nelle proprie idee e modalità di procedere, di perseguire i propri scopi, che sbarra in realtà la strada a un diverso e originale modo di concepire la vita, coerente con se stessi, alimentato dal proprio intimo. Battaglia persa quella del profondo? Non sempre. A volte l'alleanza dell'individuo col proprio intimo diventa una scelta voluta e portata avanti con tenacia, con passione e con coraggio. Nulla è più felice di una intesa con se stessi, dando fiducia e condividendo la visione capovolta, che all'inizio da solo il proprio profondo sostiene, che rompe le illusioni solite, che dell'abituale modo di pensare svela equivoci e restringimenti, che apre a nuova e viva conoscenza, che costruisce e fonda tutto sul vero, che apre strade prima sconosciute, inconcepibili.

venerdì 7 giugno 2019

La ricerca del rimedio

Cercare il rimedio in presenza di una condizione di disagio e di sofferenza interiore sembra la scelta più ovvia e più favorevole. Sotto sotto nel rapporto con una simile esperienza interiore prevalgono timore e insofferenza, come di fronte a qualcosa che sembra ostile, limitante, nocivo. Provarsi a combattere e a neutralizzare ciò che è vissuto come un impedimento e una minaccia, che ai propri occhi rischia di compromettere uno stato di benessere e il perseguimento di risultati utili, sembra non possa che fare bene. Sembra ovvio reagire al dolore con il tentativo di provvedere al suo annullamento. Quell'esperienza interiore però non si è prodotta per caso e senza uno scopo, senza l'intento preciso di sollevare un problema, di rendere riconoscibile qualcosa di importante. C'è uno scopo, c'è un senso e niente affatto di poco conto o trascurabile in ciò che l'esperienza interiore, che il sentire solleva e rimarca. Si pensa in genere che a garantire buona capacità di orientamento sia la mente razionale che osserva i fatti, che ne spiega le ragioni, che indica ciò che è valido da fare o da proseguire. Affidati a una simile guida, che tende ad avere il controllo e il governo delle operazioni e a mettere da parte o in subordine altri apporti e  sollecitazioni interne, le emozioni, il sentire, considerati poco affidabili e troppo parziali per una corretta e lucida visione, si è in realtà più sprovvisti che provvisti di validi punti d'appoggio per capire. E' il sentire che garantisce di non stare sospesi, di non insistere nelle congetture, di non rimanere ciechi e senza capacità di vedere le implicazioni e il significato vero di ciò che si sta facendo e pensando, ciò che li muove. Il sentire è più cauto di quanto non pensi di essere la guida razionale, perchè non trascura ciò che sta realmente accadendo e gli sviluppi cui sta portando. Il sentire è vigile nel segnalare i punti critici del proprio modo di procedere e le conseguenze cui si è esposti dove non si aprissero gli occhi. Nella visione di se stessi si trascura spesso di considerare che i confini del proprio essere sono ben più ampi di ragione e volontà, che il sentire non è un accessorio colorito, che un pò piace se dà piacere, che poco è gradito se consegna sensazioni difficili, che va tenuto a bada perchè ritenuto cieco e viscerale, perchè conterrebbe più rischi di cedimento, di capriccio o di arbitrio che capacità di fornire apporti utili e validi per capirsi, per orientarsi. Se il sentire propone paure, esitazioni, se frena l'iniziativa e se delude l'attesa di risposte prestanti e ritenute positive, diventa subito l'espressione di un difetto, di una insufficienza da colmare, da superare, da capovolgere e raddrizzare. Nella psicologia comune come in quella propugnata da non pochi esperti della psiche e della sua cura è ricorrente e imperante  l'intento prima di tutto di superare il disagio, attribuendo  all'esperienza interiore disagevole il significato di un disturbo, di una condizione anomala, casomai da ricondurre a qualche causa o accidente, a un cattivo modo di porsi e di trattare l'esperienza, ma sempre considerandola una disfunzione e un difettoso modo, con pronto l'armamentario dei rimedi e dei suggerimenti per mettere a posto le cose, per raddrizzarle. La vita interiore in questo modo è completamente travisata nel suo significato vero, nel suo potenziale, nel suo valore. Il proprio essere include la vita interiore, la componente profonda del proprio essere è importante, anzi è imprescindibile se si vuole trovare se stessi e dare volto proprio alla propria vita, se si vuole cominciare a capire davvero qualcosa di se stessi, se ci si vuole attrezzare di strumenti di conoscenza e di orientamento fondamentali. Tutta l'esperienza interiore vuole ricondurci sul terreno vivo della conoscenza di noi stessi, di ciò che stiamo facendo di noi stessi e della nostra vita, di ciò che potremmo invece trasformare e far vivere in consonanza e nel pieno utilizzo delle nostre risorse, che il profondo vuole farci scoprire e impiegare. Stare bene non è navigare nell'ignoranza e nell'illusione di una vita valida perché conforme agli standard, senza scosse, ma anonima e senza volto, stare bene è avere piena consapevolezza e unità con se stessi, dove non si cerca il superamento di ciò che interiormente si fa sentire se disagevole, squalificandolo subito come ostacolo da abbattere, ma dove si accoglie e si valorizza l'apporto interiore sempre, perchè prezioso, perchè irrinunciabile per non perdersi e per essere se stessi. Non c'è rimedio da cercare se non alla paura di se stessi, alla diffidenza verso il proprio intimo, alla incapacità di ascoltare e di comprendere il proprio sentire.

domenica 19 maggio 2019

Avere da dire

Capita che la parola sia in alcuni difficile, stentata o talmente impacciata in presenza d'altri da diventare un motivo di forte frustrazione, di avvilimento. La pretesa sarebbe di vincere questi impacci, per non essere da meno di altri, per non sentirsi insufficienti, per non apparire tali. La prestazione, saper dire scioltamente e senza timori e vuoti, pare dovuta, pare cosa desiderabile da ottenere per normalità e per propria buona riuscita. La questione però può essere ben più complessa, se saputa avvicinare con coraggio e con intelligenza, senza preconcetti, senza schierarsi subito sul fronte della riuscita e del combattimento contro ansietà e impacci interiori giudicati solo retaggi e ostacoli da superare. Avere da dire, non per riempire il discorso e per fare chiacchiera, non per accontentare le presunte o reali aspettative dell'altro, non per dare prova di intelligenza o di vitalità di pensiero e per darsene conferma, ma perchè realmente si ha qualcosa che merita di essere detto e opportunamente al proprio interlocutore e soprattutto sapendo cosa si sta dicendo, è condizione tutt'altro che frequente e garantita. Come esseri umani non siamo una macchina di produzione di parole a volontà, anche se così in molti, per essere ben considerati e al passo col gusto e con l'idea di normalità prevalente, si considerano e vorrebbero essere, ma siamo per nostra natura umana più complessi, c'è infatti una parte, profonda, di noi stessi, della nostra psiche, che non bada alla cosiddetta buona riuscita, all'efficienza della prestazione, ma che interroga la qualità e il senso di ciò che si vorrebbe ottenere da se stessi e mettere in atto e fuori, le parole ad esempio. Perciò la presenza costante e non casuale di tutte le manifestazioni della propria vita interiore, del proprio sentire, capaci non raramente di interferire in modo forte, creando situazioni, che sembrerebbero sfavorevoli, di impaccio, di blocco o di forte incertezza e apprensione, che paiono a prima vista inutili e esagerati grovigli, complicazioni spiacevoli, segni di malfunzionamento. Da qui a parlare di patologia, di segni di malattia il passo è breve. In realtà la componente profonda della nostra psiche, che una lettura tutta all'insegna del funzionalismo e della ricerca dell'efficienza, del cosiddetto buon funzionamento, nemmeno ammette e riconosce, è la parte di noi stessi che non si estranea mai dall'esperienza, che non si limita e costringe a assecondarla nei suoi andamenti abituali, che non si fa complice di confermarla nei significati che le si vuole attribuire o che i più le darebbero, significati che fanno comodo. La parte profonda è ben presente e vigile nella nostra esperienza, sa interrogare, ponendo in mezzo i segnali del sentire, il perchè, il senso, le ragioni e lo scopo di ciò che facciamo, a tutela dell'interesse di non raccontarcela e di non perderci nell'inconsapevolezza, di non fallire i nostri scopi, ciò di cui saremmo capaci se uscissimo da una visione di noi stessi e della nostra esperienza miope e gregaria. Fare e perseguire ciò che fanno e inseguono tutti, prendere per buone le attribuzioni di significato e di valore correnti e farsi portare nel pensiero e nell'azione è tendenza tutt'altro che rara. A salvaguardia del nostro non ridurci a essere passivi, gregari nel portare acqua all'andazzo prevalente, con l'illusione di avere idee e propositi nostri, di essere attivi e pensanti, in realtà facendo solo il verso a aspirazioni e a pensiero comune e corrente, c'è la parte profonda del nostro essere che lavora con insistenza dando segnali che se saputi intendere, vogliono mettere in discussione e sotto la lente di ingrandimento il nostro modo di procedere. La visione meccanicistica dell'individuo che vuole che tutto proceda nel verso solito, che vuole solo correggere e sistemare ciò che interiormente si fa di mezzo in modo discordante, come fosse malfunzionamento, è oggi assai presente. E' la visione che tratta come disturbi i segnali interiori di crisi, i richiami a guardare ben dentro le particolarità e le storture di un modo di procedere che non esalta di certo la capacità personale e autonoma di pensare, di capire, di trovare risposte a altezza di ciò che l'individuo potrebbe, se aprisse gli occhi, se conoscesse se stesso e ciò di cui sarebbe capace, se non inseguisse solo l'adeguamento a ciò che è comunemente inteso come valido e normale. Questa visione oggi assai diffusa nella psicologia comune trova nella stessa psicologia scientifica o che si accredita come tale, in non poche sue elaborazioni teoriche ciò che le fa il verso, che si muove nella stessa orbita. Mettere le cose a posto, raddrizzare, ridare efficienza, correggere ciò che interiormente è considerato disfunzionale è l'imperativo e il proposito di non poca psicoterapia oggi in voga e in uso. Il rischio è di lavorare contro la parte più profonda e attenta dell'individuo, di remarle contro, di far persistere un'incomprensione con se stessi, che peraltro non cesserà di far sentire i suoi effetti in termini di malessere perdurante. La parte profonda non si lascerà certo né incantare dalle promesse della rimessa in stato di efficienza, né mettere al guinzaglio dalle pretese e dalla foga di mettere tutto in ordine e in stato di preteso, presunto buon funzionamento e benessere. Insisterà viceversa, stonando col resto, per riaprire la strada della presa di coscienza, della formazione e dello sviluppo di un modo proprio di pensare, sincero, fondato sul vero e non sull'illusorio, di concepire la propria vita e il suo scopo con idee e progetti autonomi, con prospettive di reale benessere, non il benessere dell'essere liberi da richiami interiori, bensì il benessere di essere se stessi e non altro, di far vivere qualcosa di proprio e corrispondente a se stessi e non alla cosiddetta normalità.

domenica 12 maggio 2019

Le nostre paure

Le nostre paure prima di tutto vanno tenute e avvicinate nel loro spazio, nello spazio intimo, non vanno scaricate, non vanno a priori combattute e trattate come corpo estraneo, messe a distanza e giudicate, non vanno commentate senza dare loro ascolto. Le nostre paure ci prendono, ci stringono a noi stessi. Le nostre paure ci vogliono dire e la difficoltà è quella di ascoltarle, di raccoglierne il messaggio, la proposta. Non sono esperienza solita. Non è impiegando il senso comune o chiudendosi nei ragionamenti che si dialoga con le paure. Paure "irrazionali" si dice assai spesso e, dicendo questo, si pretende di ridimensionarle e di negare loro dignità e valore. Certamente sono fuori dal quadro, dal modo di esprimersi e di operare razionale. Non per questo le paure sono insensate, incapaci di dire, inespressive, anzi! Sono testimoni di qualcosa di intimamente valido e vero, non sono mai infondate, sono non solo testimoni e segno, ma anche luogo di esperienza, di incontro e di riconoscimento di qualcosa di ignorato e sviato nel modo di condursi abituale, sono luogo di elaborazione e di ricerca. Sono dunque tramite e occasione per avvicinarci al vero che ci riguarda, che ci compete, per dare volto chiaro, per ritrarre efficacemente ciò che abbiamo necessità di riconoscere, di fare nostro, di capire. Il problema è la difficoltà, spesso l'incapacità di esercitare la riflessione, la riflessione vera, mezzo e modo di porci in rapporto rispettoso, di aprirci cioè all'incontro, al dialogo con la parte di noi stessi intima, che vive, che sente, che accoglie, che elabora l'esperienza. Trattare in partenza come nemico, come molesto, come ospite indesiderato, perchè spiacevole, perchè inatteso e incoerente o dissonante con la visione e col programma razionali, ciò che invece è parte di noi più sensibile, viva, attenta e partecipe, può essere un grave errore. Ciò che sentiamo è ciò che ci è più vicino, più aderente a noi stessi. Spesso invece siamo tentati di trattarlo come un ostacolo, come un assurdo, come faccenda da regolare e da sanare al più presto, da soli o con l'aiuto di qualcuno che inventi o ci faccia applicare strategie per ricondurci nel solito rassicurante senso-andazzo comune. Se è comprensibile che ciò che è ignoto e inusuale faccia paura, assai meno comprensibile è che qualcosa di così intimo e proprio lo si tratti con pregiudizio, che lo si voglia liquidare e estromettere senza appello. E' parte viva di noi stessi, parte tutt'altro che superflua o nociva. Il nostro sentire in genere, quello che ci risulta molesto o che ci appare patologico ancora di più, punta dritto a noi, ci parla di noi, non ci dà chiacchiera e non ci incoraggia all'evasione, ci dà indicazioni molto vere, importanti. Le nostre paure segnano il percorso da seguire se vogliamo davvero conoscere, conoscerci. Se ci si cala sul terreno vivo segnato dalle paure, se si regge la tensione di un sentire non facile e non piacevole, se stando in rapporto e lasciandosi coinvolgere le si ascolta e comprende, ci si accorge che non sono limitanti, che non sottraggono possibilità, che non conducono alla deriva. Ci si può rendere conto che, a dispetto delle diffidenze iniziali, riescono a portare vicino alla consapevolezza che rende più vicini e in sintonia piena con se stessi, che rafforza. Ci si rende conto che, ben comprese e valorizzate, le paure non invalidano, non bloccano e non fanno smarrire la strada, ma ridanno orientamento e fanno trovare il proprio cammino, cammino di scoperte vitali e utili, cammino di ricerca, vivo, coerente con se stessi, sensato. E finalmente si arriva a vedere con i propri occhi, a scoprire, a pensare non astrattamente e, se su queste nuove basi si dice, si sa cosa si sta dicendo, perché si sta dicendo ciò di cui si è fatta intima esperienza e conoscenza.

venerdì 10 maggio 2019

L'ansia da dove origina?

L'ansia, come ogni espressione di disagio e di sofferenza interiore, origina da dentro di noi, è generata e modulata dal nostro profondo, non è certo un corpo estraneo o altro temibile che ci stia molestando, non è l'effetto o il seguito sgradito e sgradevole di cause, di traumi patiti, di situazioni esterne sfavorevoli, presenti o passate, come non è il sintomo di una patologia. Definire patologica un'espressione della propria vita interiore significa non comprendere che c'è una parte intima e profonda della propria psiche che, non concorde col proposito di rendere tutto scontato e di porre al primo posto come scopo la continuità del procedere abituale, interviene viceversa, interferendo anche vivacemente, agitando il quadro interiore, per indurre a calarsi nel vero, nella verifica del proprio modo di condursi, che casomai non è felicemente in accordo con se stessi, che è deficitario di scoperte di significato e di valore fatte in proprio, non prese da pensiero comune e ripetute o in qualche modo ricombinate col ragionamento, ma formate da sè e aprendo i propri occhi, lavorando su propria intima esperienza, scoperte che abbiano davvero capacità di fare da guida affidabile e da orientamento. Sono un bagaglio di conquiste essenziali di cui non si può essere privi se si vuole condurre autonomamente e in profonda sintonia con se stessi la propria vita, sono conquiste di cui spesso invece si è ancora totalmente privi. Tutto il nostro sentire, che certamente non si muove sul binario delle nostre previsioni e attese, ci informa di continuo di ciò che ci accade passo dopo passo e tende a portarci alla scoperta del vero, dei nodi e delle questioni importanti che ci riguardano, che sono ineludibili se vogliamo essere consapevoli e non affezionati solo alla continuità del solito e alla pretesa di una quiete che equivale a nasconderci a noi stessi. Se il quadro interiore è mosso un motivo c'è, si tratta di imparare a comunicare col nostro sentire, a ascoltarlo, a comprenderne il senso e l'intimo dire. Non serve ragionare sul conto di ciò che si sta provando costruendo spiegazioni che non tengono conto, che non si curano di ascoltare ciò che le emozioni e gli stati d'animo stanno dicendo, bensì è necessario imparare a riflettere, cioè a vedere cosa c'è nell'intimo del proprio sentire, cosa si muove, cosa dice, cosa rivela. Come mettendoci allo specchio possiamo, vedendo la nostra immagine riflessa, guardarci in volto e raccogliere dai nostri occhi quel che ci fanno capire di noi stessi, così con la riflessione possiamo vedere nei nostri vissuti, nei nostri stati d'animo, nelle nostre emozioni, anche le meno piacevoli e le più spigolose, cosa racchiudono, cosa svelano. Il nostro sentire è intelligente, è la forma più intelligente di cui disponiamo di capacità di entrare nel vivo della conoscenza di noi stessi. Come toccando percepiamo e riconosciamo le caratteristiche di un oggetto, così sentendo, provando emozioni tocchiamo nel vivo qualcosa di noi stessi che per intima viva esperienza possiamo cominciare a comprendere. Perciò dicevo all'inizio che l'ansia viene da dentro di noi e non è patologia, non è espressione di un guasto, di un meccanismo rotto, bensì voce della nostra parte profonda, di cui siamo dotati e di cui spesso siamo purtroppo ignari, è mezzo prezioso per avvicinarci a noi stessi, alla conoscenza di noi stessi. Zittire questa voce, combatterla come fosse nociva e patologica è una grossa svista e dispetto che si rischia di fare a se stessi. La psicoterapia potrebbe, anzi nel proprio vero interesse, dovrebbe essere il luogo in cui si impara, non già a correggere e a riparare presunti disturbi e  malfunzionamenti, ma a comunicare con se stessi, a comprendere ogni espressione del proprio sentire, nessuna esclusa, ansia compresa, nel suo significato originale, conquistando così non solo la consapevolezza che manca, ma anche l'unità piena con se stessi, con una parte intima di sè, sinora temuta e trattata con sospetto e diffidenza, tanto da giudicarne malate le espressioni che risultano spiacevoli e difficili, scoprendo che non è certo nemica o dannosa, anzi proprio il contrario.

lunedì 1 aprile 2019

I sogni: motore di pensiero e di cambiamento

I sogni sono l'espressione e il prodotto dell'attività di pensiero del nostro profondo. E' pensiero di qualità diversa da quella comunemente messa in opera dalla nostra parte conscia. E' pensiero riflessivo, che cerca di cogliere e di rappresentare i nostri modi di procedere, a cosa ci affidiamo e cosa cerchiamo, come soprattutto ci mettiamo o non ci mettiamo in rapporto con ciò che sentiamo, che viviamo interiormente. I sogni ci mettono allo specchio, ci consentono di riflettere finalmente su di noi, di "vederci" non in superficie e nell'apparenza, ma nell'intimo vero. Diversamente dal modo che seguiamo abitualmente di procedere, in cui cerchiamo principalmente di trovare soluzioni, in cui spesso diamo per scontati o ci accomodiamo i significati e non ci curiamo di vedere cosa c'è veramente in gioco nella nostra esperienza, cosa significa quel che stiamo facendo, cosa ci spinge, i nostri sogni cercano e mostrano con estremo acume il senso. I sogni ritraggono con cura cosa si sta muovendo in noi e cosa accade nell'incontro tra spinte e iniziativa profonde e tendenze e modi abituali, tra il nostro profondo e la parte di noi stessi, quella dei pensieri e dell'agire consci, in cui siamo abitualmente collocati e confinati. Non sono rari ad esempio i sogni in cui si è vittime di inseguimenti o di ladri o di altre più o meno oscure presenze, che paiono nemiche. Sono presenze che ben lungi dall'essere esterne a noi, sono la rappresentazione di ciò che dal nostro profondo vuole interferire e intervenire con forza nella nostra esistenza. Sono vissute come tali, come minaccia solo dalla parte di noi che non accetta di far spazio al profondo (vissuto come intruso, come elemento estraneo e minaccioso), dalla parte che teme di confrontarsi col sentire e che non vuole accettare di perdere convinzioni inveterate e sicurezze fasulle e altro. Ci sono sogni che descrivono cadute e vertigini, rischio di precipitare nel vuoto, rendendo tangibile la paura di perdere la posizione sospesa, perchè tale è la posizione in cui ci manteniamo quando non entriamo in rapporto col vissuto, col nostro sentire, che è in grado di darci la terra sotto i piedi, il contatto vivo con noi stessi e con ciò che realmente ci sta accadendo. I sogni segnalano poi, senza fare sconti, ciò che ci manca, che di sostanziale, fatte salve le illusioni, ancora non ci appartiene, ciò che ci spetta di cercare e di costruire. Sogni che insistono ad esempio nel riproporre esami di maturità, prove scolastiche, che, pur nella realtà già superate, tornano nell’esperienza notturna come assillo dell’oggi. L’inconscio vuole ricordare e spingere a riconoscere che la maturità, non come facciata e maschera, ma come sostanza è conquista ancora da fare, questione aperta ed attualissima. Ho portato questi esempi, pur in modo assai semplificato e discutibilmente paradigmatico (i sogni vanno analizzati e compresi ogni volta nel loro originale e unico), per far capire dove possono spingere a rivolgere attenzione i sogni e per far intendere il tipo di linguaggio, simbolico, usato dall'inconscio per ritrarre la nostra situazione interna. I sogni sono un patrimonio di incommensurabile valore, capaci, se saputi comprendere e valorizzare, di darci conoscenza vera e fondata, di guidarci in cambiamenti profondi, di restituirci noi stessi, la consapevolezza di ciò che più intimamente ci appartiene. I sogni sono dei fari nella ricerca, in grado di illuminare, con ampiezza e lucidità di visione, quanto l'insieme dell'esperienza interiore sta proponendo. Quando un individuo vive situazioni di malessere e di sofferenza interiore, fatica a comprendere il senso, le ragioni di ciò che sta vivendo, in genere le teme, le maledice. In realtà già dettando e modulando il sentire l'inconscio, che nei sogni dà guide di ricerca così efficaci, interviene in modo mirato per mettere in risalto qualcosa di importante. Quando il profondo smuove la situazione interiore lo fa per dare richiami e indicazioni molto nette e precise. All'occorrenza può intervenire con mezzi forti, vedi ad esempio con gli attacchi di panico, per spingere a riconoscere in modo drammatico, attraverso il senso di smarrimento e di insicurezza estreme anche rispetto alle proprie funzioni vitali, il proprio abituale scollamento e lontananza dalla propria interiorità. Per chi abitualmente è sospeso nel fare, nell'andare di cosa in cosa, nel seguire richiami esterni, collocando il cuore della vita all'esterno, ecco che improvvisamente il dentro, il cuore intimo, diventa il richiamo e l'incognita prevalente, del tutto inaspettato, ma ormai non evitabile, non eludibile, incombente, che non può più essere ignorato. Da qui, da questo brusco richiamo, spesso ripetuto e incalzante, da questa condizione di forte smarrimento, può accadere che sia riconosciuta la necessità di costruire un rapporto nuovo con se stessi, con la propria interiorità, che è l'intento, lo scopo verso cui spinge l'inconscio. Il profondo, che tiene vivo il malessere per rendere acuta la percezione della crisi e della necessità del cambiamento, è anche pronto attraverso i sogni a dare un supporto fondamentale e una guida affidabilissima e luminosa per cominciare a capire, a conoscersi davvero e a lavorare efficacemente su se stessi. I sogni, di cui non va dimenticato che usano il linguaggio simbolico e non concreto, sono l'espressione più alta e matura della nostra umana capacità di pensiero, un pensiero utile per vedere con i nostri occhi, un pensiero riflessivo, un pensiero creativo e fecondo.

domenica 31 marzo 2019

Malessere senza reali motivi?

Un argomento tutt'altro che infrequente quando si vive una condizione di sofferenza interiore, argomento sostenuto dal diretto interessato o da chi gli sta attorno, è che non ci sono motivi reali e concreti per il malessere che si prova, per quell'ansietà così esasperata e insistente o per quel senso di infelicità e per la perdita di stima e di fiducia in se stessi, solo per fare degli esempi. Lo sguardo punta al fuori, a indagare e a valutare situazioni, circostanze esterne, la verifica utilizza criteri e parametri comuni e soliti per stabilire il grado di soddisfazione o di benessere presunti, che si ritiene debbano conseguire a quelle situazioni concrete. Reale però non equivale a concreto. Concreto è solo un ordine di ragioni e di cose visibili e già ben riconosciute e comunemente. Reale e di peso non secondario può essere anche ciò che ancora non si sa vedere e concepire, che casomai, per preconcetto e per difesa di convinzioni inveterate, non si sa e non si vuole ammettere e riconoscere. Lo stato delle cose riguardante se stessi, il proprio modo di vivere e di procedere, può ad esempio non essere felicemente rispondente a se stessi e soprattutto può essere travisato, ritenendolo normale e scontato, solo perché simile e copia di ciò che pare concepisca e faccia la maggioranza delle persone. Nel nostro profondo però siamo dotati di una capacità di sguardo, quella del nostro inconscio, che non cede all'illusione e alla mistificazione, che sa vedere ad esempio quanto soffrono la nostra identità vera e il nostro potenziale d'essere e di crescita originali quando rimaniamo aderenti e affidati nel pensiero e nello stile di vita a quanto suggerito e impartito dalla cosiddetta normalità, confortati da questo affidamento e nello stesso tempo illusi di essere in qualche misura artefici della nostra vita e realizzati, l'inconscio sa riconoscere lo stato vero delle cose e ammettere l'inconsistenza di un modo di vivere che ancora non racchiude nulla di compreso veramente di noi stessi, nulla di scoperto, di generato da noi. Se la parte profonda di noi stessi volesse darci uno scossone e imporci la necessità e l'urgenza di riaprire tutto, di vedere la nostra lontananza da noi stessi, di intendere per tempo il rischio di fallire il nostro cammino di vita dove non cominciassimo a fare sul serio, impegnandoci prima di tutto a capire la nostra condizione vera senza veli e autoinganni, iniziando a preoccuparci seriamente di formare ciò che manca non per apparire normali, ma per far vivere noi stessi e il nostro, è comprensibile che possa intervenire muovendo in noi con forza una esperienza di malessere interiore, fatta di insicurezza e paura insistite, anche esasperate, di senso di infelicità e di vuoto? Sarebbe realmente motivata questa presa di posizione o sarebbe senza motivo e senso? Quando si giudicano immotivate, assurde o semplicemente dannose esperienze interiori come quelle catalogate ad esempio come ansia o attacchi di panico, come depressione o altro, bisognerebbe andarci cauti. Può esserci motivo valido e fondamento reale per simili esperienze interiori pur spigolose e difficili, pur dolorose o estreme. Abbiamo un profondo (tutta l’esperienza interiore che viviamo che va oltre ragionamento e volontà, cioè emozioni stati d’animo, pulsioni, sogni, è di matrice profonda) che sa vedere e che non vuole tacere, che vuole segnalarci il vero senza sconti per aprire una crisi certamente impegnativa, ma necessaria, utilissima se ben interpretata come occasione di profonda trasformazione e di crescita. Comunque ciò che sentiamo, pur brusco, spiacevole o incalzante o sconquassante, vuole che ci guardiamo in faccia e ben dentro e profondamente, senza tirare avanti inconsapevoli o con una visione di noi stessi approssimativa e vaga, peggio ancora ipocrita o inventata. Ne va della nostra sorte. Se è a rischio la realizzazione della nostra vita fedelmente a noi stessi, se ancora ci manca tutto per essere davvero soggetti consapevoli, se siamo più in sintonia e in accordo con altri che con noi stessi, più adesi ad altro che vicini a noi stessi, dissociati e discordanti tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo e diciamo, il nostro profondo può darci segnali forti, può col malessere metterci alle corde e esercitare su di noi fortissimi richiami. Dunque se anche i motivi della sofferenza interiore non sono di ordine concreto e facilmente identificabili, se anche non sono esterni ma interni a noi, ciò nondimeno esistono e sono reali, realissimi. 

domenica 17 marzo 2019

Perchè è fondamentale affidarsi alla guida dell'inconscio

Il malessere interiore, in tutte le sue possibili espressioni, ognuna significativa e non casuale, non è nè la manifestazione di un guasto o di una patologia, nè la conseguenza malaugurata di qualche fattore o condizionamento negativo, di qualche carenza o trauma patiti attuali o remoti, è l'espressione dell'intervento dell'inconscio che sta sollevando un problema cruciale. Di tutto ciò che accade e che si muove sulla nostra scena interiore l'inconscio, la parte profonda del nostro essere, è artefice e protagonista. E' perciò con l'inconscio che bisogna imparare a entrare in rapporto e in dialogo per capire, è all'inconscio che va rivolto lo sguardo e l'ascolto per farsi dire cosa sta succedendo, qual'è il problema, per farsi dare le guide della ricerca, mettendosi nella condizione di assecondare e di fare propri i processi di presa di coscienza e di trasformazione che l'inconscio sa e vuole promuovere e alimentare. E' proprio questo che si scopre possibile e che si fa in una vera esperienza analitica. Va tenuto presente che in genere non si conosce né il modo di comunicare dell'inconscio, né l'aiuto importante e decisivo che può offrire. Si pensa che gli svolgimenti interiori siano una sorta di meccanismo, che a tratti si teme possa andare in tilt. Si ignora che i confini del proprio essere sono ben più ampi di ciò che si è abituati a abitare e a riconoscere come proprio e affidabile. L'analisi offre la possibilità di entrare in rapporto, di familiarizzare e di sviluppare capacità di dialogo con la parte più intima di se stessi, di scoprire che le esperienze interiori anche le meno facili, anche le più in apparenza strane, anche le più dolorose e spiacevoli non sono distruttive, ma hanno un senso, dicono, svelano, vogliono portare vicino a se stessi, vogliono produrre crescita e trasformazioni, non sono un che di ostile e minaccioso, un che di anomalo da cui guardarsi. Se si affronta il malessere interiore travisandolo e squalificandolo come patologia o disturbo da combattere, se si pensa di condurre il lavoro di conoscenza di se stessi, di ricerca di un nuovo star bene, di un cambiamento della qualità della propria vita, senza includere da protagonista l'inconscio, ci si destina a costruire risposte inappropriate e fragili, che in un caso si traducono in un atto ostile verso la parte intima e profonda di se stessi di cui si ha la pretesa di mettere a tacere i segnali e di correggere le iniziative considerandole appunto insane, che nell'altro caso riducono il lavoro conoscitivo e di ricerca del cambiamento a un lungo giro di ricognizione, che fa conto e leva sulla capacità di osservazione e comprensione razionale, dentro episodi che fanno parte della personale biografia, momenti interiori e  esperienze vissute del presente e del passato, spesso filtrati con cura e letti con la lente deformante del pregiudizio di chi si considera potenziale vittima, mettendo assieme una concatenazione di interpretazioni e di spiegazioni, in apparenza logiche e coerenti, di presunte cause che nulla hanno a che fare col vero significato e scopo del malessere interiore. Affidare la guida del percorso conoscitivo alla parte conscia razionale implica il rischio di rimanere intrappolati dentro la sua struttura logica, dentro il modo di pensare e concepire abituale, facendo solo qualche rifinitura. La conseguenza sarà che il malessere interiore non sarà riconosciuto nelle sue ragioni, che facilmente tornerà a premere perchè inascoltato, mentre persisterà, al di là delle apparenze, la lontananza e la separazione dalla propria vita interiore, l'incapacità di comunicare col proprio sentire, l'incomprensione sostanziale del proprio profondo, casomai con qualche irrigidimento e barriera in più, data dalla pretesa di aver spiegato ciò a cui in realtà non si è dato voce. Non è raro che chi ha compiuto un lavoro su se stesso fondato sull'iniziativa della componente conscia risulti a un'attenta osservazione, seppur in apparenza più consapevole e aperto a se stesso, più rigido, affidato a modi di pensare e di interpretare se stesso e le vicende interiori che sembrano prefissati e sempre uguali. Dunque ciò che la crisi interiore voleva aprire e consentire, lo scopo del malessere rischia di non essere compreso e assecondato. Parlo di scopo perchè il malessere interiore, sollevato e tenuto vivo dall'inconscio, tende a uno scopo, prima di tutto di portare con forza l'attenzione e la preoccupazione su se stessi, facendo percepire critico il proprio stato. L'intento è di condurre a un'attenta rivisitazione del proprio modo abituale di procedere e di stare in rapporto con se stessi, con la propria interiorità, ponendo se stessi al centro dello sguardo, senza far risalire tutto a altro e all'interagire con altri. L'inconscio vuole che si prenda visione del volto attuale della propria vita e dei suoi fondamenti, una vita spesso solo in apparenza propria, in cui, se lontani da se stessi, se ignari del significato originale di ciò che vive dentro se stessi, si procede fatalmente dentro direzioni e su guide segnate da altro comune e già concepito, che orienta e che dà credibilità alle proprie scelte e ai propri pensieri ragionati, una vita in cui si è in sintonia più con l'esterno, con gli altri e col senso comune, che col proprio intimo. Questo l'inconscio spesso vuole segnalare, spingendo con forza e con insistenza la parte conscia, che vorrebbe considerare tutto già a posto e da proseguire, verso una graduale e lucida presa di coscienza del vero del proprio stato e di pari passo verso una profonda trasformazione che veda il congiungersi a sè, il legame con la propria vita interiore, come passo decisivo e condizione irrinunciabile per formare, dentro e attraverso questa unità con se stessi, con la propria interiorità, finalmente ascoltata e compresa nel suo linguaggio, il proprio bagaglio di conoscenze, di scoperte di significati e di valore, non più presi da fuori, ma formati e compresi da dentro e alla radice. Tutto questo l'inconscio vuole promuovere e a questo è pronto a dare nutrimento e guida col sentire e soprattutto con i sogni. Lo scopo è di rinascere con una vita propria, con una visione propria, con una capacità di dirigersi autonoma e coerente con se stessi, con le proprie passioni, idee e aspirazioni scoperte e verificate da sè profondamente e non prese in prestito e fasulle. Lavorare su se stessi, cercare di capire e di conoscersi, di trovare le proprie risposte, lasciando la guida delle operazioni alla parte conscia, significa ricadere nei limiti del già pensato e concepito, significa confermare le stesse condizioni e l'orizzonte mentale di sempre, casomai con qualche rinnovamento e abbellimento di facciata, inutile e inconsistente. E' importante coinvolgere l'inconscio, affidarsi alla sua guida perchè questo garantisce di trovare la risposta al malessere interiore la più consona e felice e perchè crea un nuovo modo di stare in rapporto con se stessi, unitario e dialogico, dove il profondo, dove l'inconscio diventa parte integrante della propria vita, superando una condizione di scissione tra pensare e sentire, tra sè e il proprio intimo.

lunedì 11 marzo 2019

Il rapporto col dolore

Il rapporto con l'esperienza interiore dolorosa è questione decisiva. Spesso il dolore è vissuto come pena indebita, come afflizione immeritata, come danno patito. Prontamente lo si riconduce a cause esterne, lo si tratta come segnale e indice di situazione a sè sfavorevole, che opprime e lede, come carico esagerato che toglie serenità, che non offre il dovuto (tale è considerato) agio o il meglio. Allontanare l'insieme che pare responsabile di arrecare dolore, vuoi il legame con una o più persone, vuoi un luogo o una situazione concreta e cercare altrove tregua, sollievo o miglior fortuna e beneficio sono risposte frequenti al dolore. Smorzare o soffocare, zittire con ogni mezzo, psicofarmaci, alcol, cibo, distrazioni varie o altro, il dolore come fosse il peggio da cui trarsi in salvo, a cui non concedere spazio, da cui evadere è risposta non certo rara. Sfogarsi con qualcuno, casomai inanellando spiegazioni sommarie miste a recriminazioni, a atti d'accusa rivolti a altri e a altro, a autocompiangimento è un altro mezzo frequentemente usato per provare a scaricare il dolore. Il dolore però, ben lungi dall'essere una pena inflitta da causa esterna e una sciagura, preme interiormente, sostenuto da iniziativa del proprio profondo, assai lucida e niente affatto maligna, per dare pungolo e occasione di aprire gli occhi e di lavorare prima di tutto, senza risparmio e senza veli, su se stessi, per rivedere quanto vissuto, per ripercorrere non nella superficie dei fatti ma all'interno il cammino fatto dentro l'esperienza, collocando se stessi, i perchè delle proprie scelte, i modi e le risposte date, al centro dell'attenzione. Cosa nel dolore si muove, cosa il dolore svela e acuisce è ciò che merita di essere riconosciuto, che chiede di essere ascoltato, valorizzato e compreso. Non farlo significa non raccogliere il messaggio della propria interiorità, la proposta di riflessione attenta e puntuale tracciata dal proprio sentire doloroso, che incalza, che non dà tregua, significa passare oltre e andar via immutati, sprovvisti di una guida utile e indispensabile, di una intesa nuova con se stessi, di una scoperta di verità e di significati che il passaggio critico e doloroso vuole far trovare. Riversare su altro la causa e i perchè, provare a superare in fretta o a evadere dal dolore significa, pur pensando di aver ben risposto al proprio disagio, tornare fatalmente a riprodurre altrove le stesse modalità e implicazioni proprie non riconosciute, in definitiva significa ricreare la stessa situazione da cui si proviene e di cui ci si è voluti liberare. Il dolore interiore non è sciagura, è voce, è occasione di approfondito sguardo, che è necessario imparare a esercitare su di sè principalmente, con attenzione e con pazienza. La riflessione combinata a capacità di tener dentro il malessere, di reggere l'esposizione al dolore, accettando il coinvolgimento nell'esperienza disagevole, è indispensabile. La riflessione non è, come spesso si fraintende, esercizio di ragionamento che cerca di spiegare, ma è capacità di ascolto e di vedere cosa l'intimo sentire delinea e sottolinea, disegna e dice. Nulla va spiegato o interpretato spingendosi oltre ciò che il sentire dice, perchè ogni elaborazione che non poggi e che non stia nella traccia viva del sentire rischia di essere spiantata e di dare occasione solo alla voglia di chiudere in fretta, casomai mettendo al riparo se stessi da ammissioni difficili. E' di fondamentale importanza non squalificare l'esperienza interiore vissuta, comunque sia, non pretendere di cancellare, di superare subito ciò che invece preme interiormente, pur dolorosamente, per dare occasione di presa di visione e di consapevolezza. Scopo di una buona  psicoterapia è proprio di favorire e di far crescere la capacità di entrare in rapporto con l'intima esperienza, anche se dolorosa, imparando a comprendere il linguaggio della propria interiorità, a non commentare o spiegare ma a ascoltare il proprio sentire, scoprendo che quanto si sta provando nell'intimo, anche se assai difficile, non è una minaccia o uno stato anomalo da correggere, non è la spiacevole conseguenza di qualche danno o trauma subiti, bensì la guida preziosa per conoscere e per capirsi, per trovare profonda sintonia e vicinanza con se stessi. Capire, capirsi è assai più proficuo che fuggire dal dolore e apre a se stessi strade, che la scelta di alleggerirsi e di procurarsi qualche soluzione o rimedio, lasciando tutto intatto, non aprirà mai.

mercoledì 27 febbraio 2019

L'intelligenza del sentire

Il desiderio di star bene, quando non è inteso, come spesso capita, come desiderio di uno stato di quiete, di assenza di tensione interiore, quando aspira a fondarsi su vera unità, su fiducioso e pieno legame e accordo con se stessi, con la propria interiorità, necessariamente deve rimettere in discussione il ruolo e l’importanza attribuiti al sentire. Il sentire non è e non può essere plasmabile a piacimento, il sentire non è e non può essere ingenuo. La felicità ad esempio è un sentimento maturo e intelligente, non può sposare o esaltare qualsiasi cosa, incurante di ciò che è, che racchiude, che vale davvero. Tutto il nostro sentire è intelligente, più di quanto non sia il nostro pensare e argomentare, che tanto ci sembra a volte capace e convincente, ma che non disdegna di ripetere cose sentite dire, di cercare quadrature di comodo o di soccorrere bisogni di autoconferma e di rassicurazione. Il sentire, non quello artefatto e rifatto, ma quello spontaneo, autentico e vero, è autonomo nei suoi movimenti, nelle sue espressioni e proposte, non è docile alle pretese di chi lo vorrebbe sempre solidale con le proprie aspettative e “positivo”. Sembra a molti una regola indiscutibile quella che vorrebbe allineare il proprio sentire alla cosiddetta normalità. I punti di forza del ragionamento, così diffuso e insistito da diventare una specie di litania, è che tutto ciò che interiormente si presenta difficile, insolito e doloroso, è in modo scontato un che di sfavorevole e negativo, che presto, se insiste, è giudicato un disturbo, una anomalia da correggere, da eliminare perché costituisce un impedimento, ritenuto sciagurato, a essere come prima, normali ecc. Tutti a maledire ansia, disagi, pene e difficoltà che sulla scena interiore non di rado tengono banco, che non permettono di tirar dritto come prima, che intralciano il legame con l'esterno, che obbligano ad avere come prima preoccupazione se stessi, il proprio stato, che tengono inchiodata l'attenzione agli svolgimenti interni. Nulla interiormente succede per caso, c'è una parte di noi stessi che non è incurante o disattenta al nostro stato, che non concede a sviste e a autoinganni, a impazienza o a semplificazioni. C’è una parte di noi, profonda, la si può chiamare inconscio ( che non significa cieco e primitivo, poco incline al veder chiaro e puntuale, al veder lungo e ampio, anzi!!), che, se vede la nostra attuale inconsistenza, non se la tace e non ce la manda a dire, che se siamo solo inclini ad andar dietro alla corrente, a investire in ciò che altri considera valido e degno, col rischio di far vita gregaria o di fallire le nostre direzioni e i nostri scopi, non sta certo a dormire. L'età anagrafica da sola non rende adulti, la scuola, gli studi e le letture rendono cresciuti in conoscenza e in consapevolezza si fa per dire, le esperienze non sono di per sé e in automatico maestre di vita, soprattutto quando non si è capaci di riflettere, di cogliere l'intimo significato di ciò che si muove in noi e che sentiamo. Questo per dire che troppo spesso ci si fa l'illusione di essere già arrivati, che non ci sia nulla di fondamentale da rivedere e da costruire per ciò che riguarda la conoscenza di se stessi e il maturo possesso di capacità di guidarsi. Chi, in presenza di disagi e di sofferenze interiori, invoca subito il diritto di spazzare via l'ostacolo interiore definendolo un accidente negativo, un impedimento da abbattere e una distorsione da correggere e annullare, crede che tutto di sè sia già a posto, che la priorità sia di non perdere o compromettere il legame con l'esterno, la possibilità di fare, pretendendo di trovare sul piano interiore fiducia e ottimismo, senza insicurezze ed altro. Il nostro sentire è intelligente e è espressione della parte più intelligente e meno abbindolabile di noi, meno incline a far coro con chi dice che basta farsi coraggio, che tutto va solo preso e proseguito come fan tutti e che l'ansia e simili sono solo maledetti nemici, una stupida zavorra, un insieme di irrazionali timori o di atteggiamenti e modi di pensare sbagliati. Se tutto andasse davvero bene e per il verso giusto perché mai il nostro intimo e profondo sguardo e sentire non dovrebbero confermarlo e sostenerlo? La felicità come la fiducia, il fondato veder chiaro della consapevolezza, non sono cose qualsiasi, un diritto o altro che si possa rivendicare e avere gratuitamente, a meno d’essere fin nel profondo ciechi e ottusi, a meno di farsi andare bene tutto, anche le proprie illusioni. A noi serve avere davvero consapevolezza, legame con noi stessi, capacità di capire e di mettere assieme cose valide, comprese e ben verificate da noi, vicine a noi stessi. Tutto questo non lo si ha per diritto naturale o perché in qualche modo ci si è dati da fare. Interiormente non ci si tace nulla e, casomai creando allarme e facendo sentire sonori scricchiolii, la propria interiorità vuole far prendere atto che si è mancanti. La fiducia degli altri ce la si può a volte astutamente accaparrare, ma quella propria intima è faccenda più seria, perché una parte di se stessi, profonda, non si lascia convincere dalle apparenze. Sapendo vedere ciò che di sostanziale manca, saggiamente il profondo nega nel sentire stabilità e conferma, scuote col malessere e senza tregua sprona per costruire quello che non c’è e che, solo se fatto bene e con pazienza, potrà far sentire davvero intimamente confermati e fiduciosi. Il nostro sentire è intelligente.

domenica 24 febbraio 2019

Il malessere interiore chiede risposte consone e intelligenti

Quel che più conta non è procedere a norma e regolari, senza tensioni, senza patire disagi, ma è formare capacità propria di orientamento e di visione, rompendo l'usuale di schemi e di luoghi comuni applicati alla conoscenza di se stessi prima che di ogni altra cosa. Non è questione da poco, senza pensiero proprio non c'è motore e guida di una vita propria. Se nel profondo del proprio essere c'è la consapevolezza dell'esistenza del problema e dell'importanza della questione, nella parte di superficie, nella parte cosiddetta conscia l'individuo ritiene spesso che tutto sia a posto e soddisfacente, che non ci sia problema. Lo sguardo del profondo non fa sconti e non cede alle illusioni e alle apparenze, lo sguardo del profondo dell'individuo ha a cuore il vero, non sottovaluta le conseguenze di una mancata crisi e trasformazione. Proviamo allora a riflettere per entrare in sintonia con lo sguardo profondo. Non si può andare incontro alla scoperta dei significati veri, comprenderli nel vivo e profondamente, se ci si affida, come spesso si fa, a ragionamenti scissi dal proprio sentire o che pretendono dall'alto di spiegarlo senza lasciarlo dire, se, pur con l'illusione di capire attivamente, ci si muove passivamente su basi di pensiero e su percorsi già segnati, facendosi portare da riferimenti, da attribuzioni di significato presi in prestito, attinti da altro già concepito e formato. Capita non di rado che si faccia sentire dentro se stessi, accolta non certo favorevolmente, vissuta con timore e con insofferenza, la tensione interiore, nella forma dell'ansia o di altro disagevole sentire, che complica il consueto procedere, che non dia tregua la pressione insistita nell'intimo che non concede e che non sostiene un fluido procedere. Capita che il malessere interiore segni nell'esperienza un punto di discontinuità e di rottura, perchè è tempo di aprire gli occhi su se stessi e sul proprio procedere, è tempo di smettere di aderire al consueto, è ora di vedere senza veli, di concepire da sè. E' tempo di capire e di capirsi davvero. La risposta più frequente al malessere interiore è di considerarlo un inconveniente, un ostacolo, che minaccia di portare fuori dal sano e quieto vivere. Il fraintendimento è spesso totale, la ricerca della cura è più per mettere a tacere il richiamo interiore che per ascoltarlo e per comprenderlo nelle sue ragioni e nei suoi veri intenti. Se di fronte al malessere c'è volontà e interesse di capire è solo nella direzione di trovare qualche causa, possibilmente esterna e di altrui responsabilità, che abbia provocato quello stato interiore penoso di cui ci si considera vittime e di cui si ha solo desiderio di liberarsi. Il malessere interiore chiede risposte consone e intelligenti, capaci di riconoscerne il significato e l'intenzione, tutt'altro che sfavorevoli o negative. L'idea che sia in atto un processo simile alla malattia, che il malessere sia un segno di logorio e di malfunzionamento, travisa totalmente il significato di ciò che interiormente sta accadendo, dove parte viva e profonda di se stessi, tutt'altro che passiva alle influenze esterne, tutt'altro che scriteriata e debole, sta segnalando con forza la necessità e la priorità di un cambiamento nel modo di procedere e di governare la propria esistenza. E' tempo di confrontarsi senza fughe e autoinganni con se stessi, è tempo di vedere nitidamente cosa si sta facendo e come si sta conducendo la propria vita, è l'ora di scoprire se nella propria vita si ha del proprio da dire e realizzare, che non sia un prodotto già pronto da usare e consumare come un oggetto che si può prendere dallo scaffale del supermercato. E' un proprio che prima di tutto va interiormente avvicinato, sentito e compreso, con cura coltivato, stavolta non andando dietro e facendo il verso a qualcun altro o a qualcos'altro, ma imparando a ascoltare ciò che si sente, imparando a seguire ciò che la propria interiorità traccia come percorso vivo di stati d'animo e di emozioni, di vissuti da abitare, seguire, intimamente comprendere (senza fare gli schizzinosi, senza lagnarsi e senza maledire la sorte se sono vissuti scomodi o poco piacevoli, quel che conta è che in quella forma sappiano dire, far capire). Si è abituati a pensare che la “realtà” è il sistema di cose, di pensato e organizzato che sta là fuori, che si vive la vita solo aderendo e stando su quella giostra, dimenticando o ignorando che reale può diventare ogni conquista di consapevolezza, ogni pensiero nuovo che nasce dentro se stessi. Intimamente concepito, senza ingenuità, ma coltivando quel rapporto con se stessi e con la propria interiorità che pochi sanno rispettare, considerare importante, davvero valorizzare, ogni pensiero e scoperta diventano base e leva di nuova realtà possibile. Sulla strada della ricerca interiore, spesso, come detto, non cercata e voluta, bensì imposta dall'interno e dal profondo di se stessi con malesseri e crisi interiori, che spingono con forza a dare più peso a ciò che accade dentro sè piuttosto che fuori, è possibile che si vada incontro all'inatteso, che diventi tangibile e che si renda comprensibile ciò che prima era inconcepibile, soprattutto perchè si continuava a dar retta ad altro, a sintonizzarsi col fuori piuttosto che col dentro. Andare verso se stessi non è un preoccupante e insano ripiegare, andare verso se stessi è l’occasione per rinascere protagonisti e non gregari. E' necessario un cambio di mentalità e di sguardo per entrare in sintonia e in accordo con la proposta interiore mossa con forza nel malessere interiore, è necessario imparare a dialogare con la propria interiorità, per riceverne tutto il prezioso apporto e sostegno. Tutta l'esperienza del sentire, tutti i propri stati d'animo e emozioni, anche se difficili e non piacevoli, sono guida e alimento di conoscenza di se stessi che bisogna imparare a riconoscere e intendere. I sogni sono fari e guide di pensiero di qualità e di capacità enormi che è necessario imparare a avvicinare e comprendere. E' necessario farsi aiutare da chi sappia favorire la formazione di questa nuova capacità di incontro fiducioso e di ascolto della propria intima esperienza. Bisogna far le cose bene, trarre il meglio di occasioni di crescita dall’incontro e dal dialogo con la propria interiorità, senza paura dello spazio dato al contatto con se stessi. Dove spesso si teme ci sia solo pericolo di isolamento, di privazione e di sradicamento dal reale, c’è la possibilità dell’esatto contrario. Senza aver trovato radici dentro sé, senza accordo con se stessi, senza visione propria, senza bagaglio proprio di idee vive e pienamente consapevoli, di passioni forti e radicate non si va da nessuna parte. Oppure si continua un po’ illusi e un po’ rintronati a farsi portare in giostra.

venerdì 22 febbraio 2019

Si può

Si può fare dell’intima sofferenza non la minaccia da combattere e da cui fuggire, ma viceversa l’occasione, il punto di incontro vivo ritrovato con se stessi, la via d’ingresso per cominciare a comunicare con la propria interiorità, con la parte di sé, intima e profonda, che ha scelto di non stare inerte e zitta e che, smuovendo l'interno anche vivacemente e non dando tregua, ha in realtà intenzione di comunicare, di dare. Dove, rinunciando a contrastarla o a metterle sopra giudizi o spiegazioni, le si dà apertura e ascolto, come si impara a fare in una buona esperienza analitica, questa parte viva del proprio essere si rivela capace di dire e di dare tanto. Formare e sviluppare la capacità di accogliere, di ascoltare, di comunicare con parte viva e profonda di se stessi è una conquista, che tanto è fondamentale e decisiva per l'andamento e per la qualità della propria vita, quanto è solitamente trascurata e sottovalutata. Tutto si è imparato in anni e anni nel corso della propria vita tranne che a rivolgersi a se stessi, a ascoltarsi, a capire il linguaggio delle proprie emozioni e dei propri stati d’animo, a scoprire il potenziale e il valore, l’affidabilità del proprio sentire, a comprendere che i propri sogni notturni sono ben di più e ben altro che residui sparsi d’esperienza diurna o costruzioni immaginarie ingenue e di nessun valore, ma potentissime guide di pensiero e di conoscenza, a intendere che i confini del proprio essere, delle proprie potenzialità conoscitive e di realizzazione vanno ben oltre quelli di ragionamento, volontà e controllo. Tutto questo va costruito e coltivato. Se ci si è esercitati solo a trattare il rapporto col mondo esterno e la rincorsa di occasioni esterne, va costruita la capacità di entrare in rapporto col proprio mondo interno, con ciò che vive e che di continuo si propone dentro se stessi. Quello interiore non è un mondo fragile e di nessuna consistenza, nel proprio intimo e profondo c’è la parte di se stessi più attenta a cogliere senso e implicazioni della propria esperienza, meno incline alla dispersione e alla fuga, c’è un potenziale di forza e di pensiero che non ci si aspetta. Si può andargli incontro, stabilire un rapporto, far sì che possa dare a se stessi ciò di cui si ha profonda necessità. Senza il contributo di questa parte preziosa di se stessi, che purtroppo tanto è essenziale, quanto è facilmente sottovalutata e fraintesa nel suo significato, si è esposti al rischio di non capire nulla di se stessi, di non avere occhi per vedere il vero, che, anche se scomodo, fa crescere e dà forza, di non avere guida per orientarsi, di rimanere ingabbiati nella visione che considera realistico e possibile solo ciò che è già comunemente concepito e dato. Senza questa unità con se stessi, orfani del proprio intimo, incapaci di un dialogo aperto e fecondo con la propria interiorità, si è inclini a cercare sostegno e compensazione in altro per avere una parvenza di stabilità e di contatto vitale, di vicinanza. La paura della solitudine, vissuta come terra arida e come vuoto, spinge di continuo a legarsi e a fondersi con altro e con altri, allontanando sempre più la possibilità di un rapporto aperto e sincero, caldo e fecondo con se stessi e di conseguenza di un rapporto autentico e rispettoso, non strumentale con chiunque. Non si può essere se stessi se non si è uniti a se stessi. Se, come è inevitabile, vista l’inesperienza, si rende necessario l’aiuto di chi introduca al dialogo con se stessi, di chi sappia aiutare a formare e a far crescere capacità di ascolto e di incontro con la propria interiorità, per ritrovare finalmente il filo di un discorso proprio e per tesserlo con cura perché diventi bussola per orientarsi e terreno saldo su cui poggiare, ciò non minerà, ma arricchirà soltanto la propria crescita. Far ricorso a un simile aiuto non intaccherà la propria autonomia, ma contribuirà viceversa a farle trovare il suo più valido e solido fondamento: il legame e il rapporto con la propria interiorità, l'unità con se stessi. Si può, basta volerlo.

domenica 17 febbraio 2019

Volersi bene

Di recente si parla con più frequenza dell'importanza di voler bene a se stessi. E' una raccomandazione che benevolmente capita di sentirsi fare o che da sé ci si rivolge, particolarmente quando si sente scontentezza e insoddisfazione, senso di fatica e di malessere interiori. Tutto bene se questo significa sollecitazione e desiderio di non essere incuranti di se stessi. Siamo i depositari delle nostre risorse, dentro di noi c'è la fonte della nostra vita, dei nostri pensieri, non aver a cuore e non aver cura di noi stessi sarebbe come sminuire e non aver considerazione del patrimonio di cui disponiamo. Sarebbe come rassegnarci a fare solo da eco a altro, a procedere a testa bassa e a passare da questo a quello ciecamente, accettando quel che capita capita, riservando zero attenzione alla comprensione del senso, delle implicazioni delle esperienze che viviamo, delle conseguenze di ciò che facciamo, destinando zero interesse alle risposte intime che da dentro ci segnalano e ci vogliono far capire il vero. Nulla si può portare al mondo se non lo si coltiva e genera dentro e con se stessi, l'attaccamento e la cura di se stessi non c'entrano nulla con l'egoismo o con l'egocentrismo, non si può dare se non si sa generare, non c'è possibilità di rivolgersi sinceramente all'altro, rispettandolo e riconoscendo la sua autonomia e il suo valore, senza secondi fini o equivoci, se non si sa trovare verità dentro se stessi. La dedizione a altri, la centralità dell'altro, compagno/a di vita o figlio o altro, rischiano non di rado di essere ricerca di una scorciatoia dipendente, dove rendere altri ragione e fondamento della propria vita, significa procurarsi un mezzo facile e immediato per tenersi su, per soddisfare a buon mercato il proprio desiderio di novità e di valore, per farsi riconoscere e per riconoscersi importanti e degni, a volte e più banalmente per riempire la propria esistenza, per trovare punti d’appoggio, sostegni per il presente e per il futuro. Senza chiarezza, senza incontro e confronto serio con se stessi, non c’è volersi bene, non c’è possibilità di voler bene davvero a chicchessia. Volerci bene è non trascurare di ascoltarci, di prendere prima di tutto contatto con la parte intima di noi stessi, dove il nostro sentire ci riporta al vivo e al vero, ci spinge a riconoscere dell'esperienza che viviamo significati e implicazioni anche diverse da quelle che siamo pronti o inclini a riconoscere e a accettare, a vedere cosa stiamo facendo di noi stessi, cosa stiamo omettendo, come stiamo procedendo, se in accordo o in disaccordo con ciò che autenticamente siamo, con ciò che profondamente vorremmo e potremmo far vivere. Volerci bene non è provare a smorzare o a eliminare ogni tensione interna, pensando che inquietudini, sensazioni di disagio, contrasti intimi lavorino a nostro danno, che la loro presenza equivalga a disamore, a pena inflitta a noi stessi. Volerci bene non è liberarci del peso della nostra interiorità, ma è imparare a ascoltarla e a capirla fedelmente in ciò che con la sua voce, con il linguaggio del sentire ci dice. Conciliarci con noi stessi non è pretendere di avere quiete e ragione in ciò che in superficie vorremmo farci credere, ma che profondamente in noi non trova conferma. Combattere o pretendere di capovolgere rapidamente la condizione interiore che ci fa sentire inquieti o insicuri e in crisi di fiducia potrebbe sembrarci atto e espressione di voler bene a noi stessi, ma per trovare fiducia fondata e non fasulla è necessario fare chiarezza in modo approfondito e convincente, fare passi avanti nella consapevolezza, significa guadagnarci davvero la fiducia ai nostri e non agli altrui occhi. Si cercano spesso e spesso si trovano proposte sciocche di tecniche e di argomenti di autoconvincimento per risollevare o per incrementare la propria autostima, autostima fondata sul niente e sempre finalizzata a dare buona prova, a fare mostra. Si dimentica in questi casi o si vuole ignorare che avere autostima e fiducia in se stessi, con conferma e sostegno profondo (il profondo di se stessi, per fortuna, non è né stupido, né ingenuo), è possibile solo vedendosi capaci di farsi interpreti fedeli di se stessi, di dare forma e vita a qualcosa di proprio. Trovare fiducia e autostima seriamente è possibile solo imparando a dialogare con se stessi, cercando risposte sincere e fondate, a conoscersi senza limiti e senza pregiudizi, senza arroccamenti, aprendosi al confronto con la propria interiorità, a ciò che il proprio sentire sa svelare, sia ciò che ferisce e che è scomodo riconoscere di se stessi, sia ciò che svela e restituisce le proprie ragioni e necessità più profonde e vere. Volerci bene è volere il nostro bene, non è farci coccole senza rivolgerci attenzione vera, senza dedicarci ascolto e dialogo. Volerci bene non è farci belli, offrirci qualche regalino o cura estetica, qualche svago o amenità analoga, senza curarci del nostro stato al di là della superficie e dell'apparenza. Non siamo né bambocci, né deficienti, cui propinare qualche contentino, non siamo bisognosi sempre e soltanto di piacere a altri, di trovare autostima su queste basi. Se questa è la tendenza e lo è spesso, casomai è importante riconoscerla e soffermarci per capirne peso e conseguenze nella nostra vita. Abbiamo prima di tutto necessità di non rimanere lontani da noi stessi, abbiamo necessità di trovare vera sintonia col nostro sentire, di non attutirlo o ignorarlo, di non rimanere sordi e incuranti di ciò che la nostra interiorità ha urgenza e volontà di dirci. Se c'è chi concepisce il volersi bene solo come regalo a se stesso di qualche "balocco", di cose, di oggetti o divertimenti di vario tipo, c'è chi cerca tra i regali possibili qualcosa, che di aspetto e carattere culturale, come un libro, la visita a una mostra, uno spettacolo, un viaggio a scopo conoscitivo o simili, parrebbe offerta più intelligente e utile. Non poco intanto, proprio per volersi bene, ci sarebbe da scoprire senza portare lo sguardo e l'attenzione sempre altrove, ci sarebbero da leggere i messaggi della propria interiorità, da conoscere il proprio mondo interiore perché non rimanga territorio estraneo, per non essere stranieri in terra propria. Non poco, sempre per volersi bene, ci sarebbe da fare e da realizzare con intelligenza e con iniziativa proprie. Ci sarebbe da comprendere passo dopo passo e da "scrivere" la propria storia, ci sarebbe il proprio filo da trovare e da tessere, pena il rischio di rimanere soltanto spettatori, di celebrare solo opere altrui, di far parlare e di far condurre sempre il discorso a altri, che comprensibilmente lo hanno fatto o lo fanno a modo loro, non importa se da persone più o meno geniali oppure dotte, esperte e intelligenti o considerate tali, non sempre per merito, a volte solo per statuto o per fama. Volerci bene è coltivare la nostra terra e trarne frutto, è destinarci la gioia di esserci nella vita con tutto di noi stessi in unità e in sintonia, la soddisfazione di vederci capaci di pensare autonomamente, di generare pensiero nostro, di vedere le cose col nostro sguardo senza restrizioni e senza veli, di stare nella vita a modo nostro, di spenderci il più possibile per nostri scopi e progetti, dentro di noi profondamente concepiti e profondamente amati. Volerci bene è non essere passivi, buoni solo a consumare e a ripetere, a andare dietro a guide esterne, pronte a dirci come vivere, cosa avere per essere soddisfatti, come pensare e intendere la nostra realizzazione e la nostra crescita, il nostro stare bene e il nostro gioire, addirittura come volerci bene.