martedì 8 luglio 2014

Il peggio sul meglio

Il peggio riversato sul meglio di sé. Credo sia utile parlarne ancora, come ho fatto in molti miei scritti, perché è questione tanto diffusa quanto importante, decisiva. L’esperienza interiore, ciò che propone, non importa se in una forma ardua, impegnativa e sofferta, è risorsa vera, opportunità viva e sensata di  avvicinamento a sé, di scoperta di significati col proprio sguardo, di comprensione intima e fondata, di intelligenza utile, indispensabile come lo è la capacità di conoscersi e di guidarsi, che potrebbe finalmente prendere corpo. Eppure le va sopra troppo spesso il peggio del pregiudizio, dell’impazienza, della pretesa di stare prima di tutto liberi e sgombri da disagi e da pensieri, da impegno di capire e di capirsi, della preoccupazione di non diventare diversi da ciò che il senso comune raccomanda, caldeggia e si arroga di fissare come valido sempre e comunque, cioè normale. Cestinare, liquidare l’esperienza interiore o pretendere di raddrizzarla per renderla "sana" e conciliante, sono pratica personale e pure di “aiuto” professionale assai diffuse, senza capire quanto di prezioso e di intelligente si vuole mandare in discarica o rimettere in riga, per recuperare o salvaguardare cosa? Il riallineamento al gregge, il ritorno al solito, senza bagaglio proprio di consapevolezza e senza  capacità di orientamento, anche se lo si chiama ritorno alla normalità o recupero del benessere. E’ comprensibile che imparare da se stessi, essendo pratica inusuale e strada mai o quasi mai battuta, risulti inizialmente incredibile, anzi che la si ignori. Con impazienza ci si fa bastare qualche acrobazia del ragionamento, spacciandosela come chiarimento e come possesso di idee e ci si rivolge contro parte di sé che, se non è stata e se non sta alle attese, si giudica inutile e dannosa. Conta non farsi rompere le uova nel paniere da richiami e da iniziative interiori, che vengono giudicati senza tanti indugi intemperanze e capricci irrazionali. La protervia con cui si è pronti a bollare come storto, inutile o malfatto, se non patologico (ancor prima che intervenga qualche tecnico che apponga una qualche etichetta diagnostica) ogni proprio sentire che stona e che dissona dal normale celebrato, fa però impressione. Soprattutto, pur senza saperne cogliere senso e gravità,  è atto arrogante di una parte di se stessi, tanto presuntuosa quanto ignara della propria inconsistenza, contro parte di sé che, se si imparasse ad ascoltare e a conoscere, avrebbe tanto da insegnare e da dare.

domenica 29 giugno 2014

Bloccati o zoppi per imparare a camminare

 Sembra maledizione, castigo o disgrazia la sorte cui pare voler piegare il malessere che interiormente blocca, toglie spinta, crea ostacolo o vero e proprio impedimento all'andare, al fare, al libero, disinvolto agire e interagire col mondo esterno. Sembra una sciagura, anzi a chi vive una simile esperienza pare evidente che lo sia e le persone attorno in coro probabilmente gli darebbero conferma. Ansietà, picchi di angoscia e panico, rovelli e labirinti di indecisioni e dubbi, timori, senso di svuoto e perdita di interesse, disagio nel ritrovarsi con se stessi, quasi estranei e irriconoscibili, senso di distacco da un reale (cosiddetto reale, fatto di cose e di situazioni esterne) che comincia a scolorire, ad apparire estraneo, lontano. Ho portato qualche esempio di esperienze interiori non certo facili, vissute spesso come seri intralci, come oscura minaccia, come nemica presenza dentro sè, che pare solo togliere e distruggere. Il senso della vita e del proprio benessere e beneficio sembra dire che si è finiti in un tunnel, precipitati in un pantano, da cui urgerebbe uscire il più in fretta possibile, per non perdersi, per non vedersi emarginare dalla vita, per tornare a respirare e a provar sollievo o sensazioni positive. Eppure spesso, a ben guardare, di sé, a parte la foga di procedere, di non perder colpi, di stare al passo, di non farsi tagliare fuori, di voler ben presenziare e di non far brutte figure con gli altri, c’è poco, anzi nulla di veramente conosciuto e riconosciuto come proprio. Per conoscerlo non si può certo restringere il campo e far leva solo su ragionamenti e petizioni di principio, bisognerebbe respirare a pieni polmoni se stessi, aprire per intero al proprio essere, tener conto del proprio sentire vero senza limitazioni. E’ ben qui che si è inserito il profondo, l’inconscio, l’interiorità viva, che dà tutto il sentire, che ha cominciato o che da tempo insiste nel consegnare un’esperienza interiore tutt’altro che facile. E’ un’esperienza interiore che non dà sostegno, che ormai non dà manforte all’andar via e spediti, al fare per fare, al consueto inseguire quello che, come fan tutti, sembra desiderabile e interessante, adeguato e bello, anzi lo intralcia. La propria interiorità non si fa illudere e abbagliare, non sottovaluta, non chiude un occhio sulla presenza di comportamenti solo imitativi e gregari, non lascia passare la tendenza a far proprio il programma segnato da idee e da aspirazioni comuni come fosse progetto di vita proprio, non chiude un occhio sul non saper nulla di sé. Se l’interiorità, se l’inconscio azzoppa o blocca, è proprio per far sì che si cominci a rendersi conto di come si procede, per far sì che si  impari a vedersi, a non andare a testa bassa, a guardare dentro di sè per capire da cosa si è mossi, quali sono i vincoli e i punti d’appoggio, spesso tirati e offerti  più da fuori che da dentro se stessi, più da regole e persuasioni comuni che da proprie scoperte e convinzioni fondate. Insomma l’inconscio azzoppa perché si prenda coscienza del modo in cui ci si trascina, spesso lontani da sé e senza guida e fondamento propri, perché si impari davvero a camminare, dotandosi di capacità d’orientamento, di scoperta di propri perchè e di proprie mete, di proprio senso dell'agire e del realizzare, di capacità di sostenere e di nutrire di passione, di tenacia e di convincimento, pur, come può accadere, in assenza di conferme e di sostegni esterni, scelte concepite da sè e comprese fin dalla radice, in accordo con se stessi per intero. Sono risposte e condizioni nuove che non si può pretendere di ritrovarsi in tasca già fatte e a pronto uso, devono essere cercate e coltivate. L'inconscio, senza far tanti complimenti, col malessere che blocca, detta la priorità: il dentro e il lavoro su di sè, prima del fuori. Pronto a sostenere la ricerca, a indirizzarla e a nutrirla in modo sostanziale, particolarmente con i sogni, l'inconscio dà occasione di assumere la responsabilità di aprire o meno il cantiere della ricerca (in caso affermativo, procurandosi l'aiuto necessario). In ogni caso l'inconscio non tace il problema, non accetta di lasciar prevalere la ragione dell'andare avanti purchessia e con finta completezza di mezzi su quella della conquista dell'autonomia vera.

giovedì 26 giugno 2014

Le ragioni del malessere

Perché succede, cosa vuole questo malessere interiore, questo tormento? Spesso chi lo vive lo tratta con preoccupazione crescente e con insofferenza. Teme sia, oltre che un ostacolo, una minacciosa presenza. Lo vive come un accidente sfavorevole, una sorta di corpo estraneo, che lavorerebbe contro i propri interessi, pur così interno, intimo, addentro il proprio essere. E' convinzione assai diffusa che il malessere sia provocato o indotto da circostanze e da condizionamenti  sfavorevoli, che sia la manifestazione o la conseguenza di un meccanismo, fisico o psicologico, logoro o guasto. Dirò subito che il malessere interiore, nelle sue diverse possibili espressioni, tutte significative e da comprendere attentamente, è viceversa la manifestazione di una forte, risoluta presa di posizione interna della parte intima e profonda, che non vuol tacere, che vuole che la verità e l'attenzione a se stesso diventino per l'individuo questioni centrali e esigenze prioritarie. Pensa che sia un’anomalia, vuoi la manifestazione di un meccanismo guasto, vuoi la conseguenza di un distorto modo di vedere la realtà e di reagire, vuoi ancora una pena intima indotta da qualcosa, esterno a sè, nocivo, risalente al passato o attuale, chi, pur con diverse spiegazioni circa il presunto "guasto", concepisce la superficie come fosse il tutto. Pensa al guasto e alla necessità della riparazione per la ripresa del normale, chi pensa la modalità solita e presente di esistere e di procedere come l’unica possibile, chi non comprende il malessere interiore come intervento e espressione, non cieca, del profondo. Liquida sbrigativamente il malessere interiore come disturbo e basta, chi pensa che emozioni, vissuti, sentire e vita interiore, che tutto ciò che non è ragionamento e volontà, sia solo un accessorio irrilevante e subalterno, un po’ colorito, ma poco o nulla affidabile quanto a intelligenza e a capacità di dare orientamento. Nel nostro essere il profondo, l'inconscio c’è e non è certo presenza di poco peso e valore. Tutto ciò che accade nel nostro sentire e nel corso della nostra esperienza interiore è governato, in modo mirato e intelligente, dal nostro inconscio, è sua voce, non è affatto casuale, non è semplice risposta automatica, riflessa a situazioni e a stimoli esterni. Che accada di sentire inquietudine, timore e apprensione insistenti e pervasivi, persistente pena, senso di fragilità, di vuoto, di infelicità e quant’altro definito come ansia, depressione o altrimenti, non è frutto del caso, non è  traduzione meccanica di logorio subito, nè sgangherato modo di reagire, non è insana o abnorme risposta, è viceversa lucida e consapevole, ferma e irremovibile espressione di capacità e di volontà interiore e profonda, di una parte non irrilevante di se stessi, di intervenire perché si guardi dentro di sè, nell‘intimo vero, cosa sta accadendo della propria vita, perché non ci siano stasi e assenza di consapevolezza, lontananza da se stessi e passivo adattamento. Basta, con l'aiuto giusto, di chi sappia guidare ad avvicinarsi a se stessi e al proprio mondo interiore,  risolversi a cercare rapporto, ascolto e dialogo con se stessi e col proprio profondo, basta risolversi a dargli voce, a riconoscergli voce, senza squalificarlo in partenza come dannoso, negativo o malato, perché il malessere, perchè l'intimo sentire faccia ben intendere e vedere cosa sa, cosa riesce efficacemente e puntualmente a evidenziare, a far conoscere di se stessi, a smuovere. Basta disporsi, come si è aiutati e incoraggiati a fare dentro una buona esperienza analitica, all’ascolto, aperto e disponibile, senza pregiudizi, alla ricerca del senso piuttosto che del rimedio che spazzi via, con impazienza e ciecamente, tutta l’esperienza interiore disagevole,  per rendersi conto (sempre meglio via via che dialogo e ricerca procedono), che non c’è guasto e meccanismo rotto, che non c’è caos o irrazionalità dentro se stessi, che il malessere non è maledetta sorte o accidente, patologia o altro, ma specchio per vedersi e per capire. E' potente richiamo, invito fermo a lavorare su di sé, a prendere coscienza di come si è e di come si procede, di ciò che manca, che va finalmente costruito, che mai finora è stato cercato e costruito. Non ci sono cause e responsabilità da cercare altrove da se stessi, in altro e in altri, come odiosi impedimenti al proprio star bene, non c'è stupida incapacità di vivere normalmente e felicemente, c'è semmai prima di tutto consapevolezza da trovare, senza sconti e senza equivoci, del proprio stato attuale, verità anche scomode da riconoscere e da non rimpallare. L'inconscio, sia con le tracce vive del sentire sia coi sogni, non tace nulla e cerca l'intimo vero, il senso, non usa nè pregiudizio nè camuffamento. L'inconscio, che richiama in modo così forte l'individuo alla partecipazione al dentro prima che al fuori, esercita una spinta formidabile, che, se saputa comprendere e condividere, offre visione lucida e appassionata, consapevolezza profonda di sè e del proprio da mettere al centro e a fondamento della propria vita. L'inconscio col malessere interiore smuove e turba il quieto vivere per uno scopo riconosciuto nel profondo del proprio essere come irrinunciabile: far vivere se stessi, il proprio potenziale vero. Per realizzare questo scopo, non già in tasca e traducibile in un attimo, come spesso si pretende, è necessaria una graduale e profonda trasformazione. Ci sono fondamenta nuove da gettare, nuovo rapporto da creare pazientemente con se stessi, nuove scoperte, originali e utili, anzi essenziali, da fare dentro sè e col proprio sguardo, ci sono vicinanza al proprio sentire, comprensione intima e unità d’essere con se stessi, mai possedute e mai cercate, da trovare e rafforzare finalmente. Era sufficiente infatti in precedenza, prima della stretta più decisa del malessere, andare per la strada segnata, fare come si usa in genere e in genere si dice, bastava quel riferimento comune, bastava un po’ di ordine mentale regolato dal ragionamento, che chiarisce e oscura contemporaneamente ciò che fa comodo oscurare o che non si comprende, bastava tutto questo per sentirsi a posto e "normali". Capitava in realtà, non raramente, che il proprio sentire complicasse l'esperienza, che inserisse elementi dissonanti, veri richiami per vedere le cose più nitidamente, per non trascurare implicazioni, non certo dettagli insignificanti, ma tutto questo lo si trattava come un inutile rumore di fondo, come fastidiose interferenze di una parte emotiva "irrazionale". Era sufficiente darsi un pò di quieto vivere, di adattamento, bastava variare qualche luogo, abitudine o altro per convincersi che la questione decisiva per il proprio "star bene" fosse solo la scelta delle circostanze e delle persone giuste, delle opzioni esterne che avrebbero cambiato tutto per sè, deciso le proprie fortune in bene o in male. Bastava un pò di allineamento al modello comune, un pò di parvenza di buon funzionamento, di possesso delle cose o delle espressioni ritenute in genere irrinunciabili o da molti apprezzate, non importa se portandosi interiormente mille segnali diversi e incompresi, non importa se senza mai sentirsi davvero su terreno saldo di consapevolezza, su sostegno di desiderio profondo, di corrispondenza con se stessi.  Procedere in quel modo bastava alla parte di sé cosiddetta conscia, ma non bastava di certo alla parte profonda, meno illusa dalle apparenze, meno preoccupata di stare in linea e al passo con la normalità, meno timorosa di perdere quel treno, più preoccupata di non perdere se stessi. Quel che sto dicendo lo dico dopo lunga ricerca e dialogo col profondo, dopo aver fatto cammino di ascolto e di ricerca con chi accompagno da oltre trent’anni nella ricerca di comprensione della radice del perché, del senso e dello scopo del proprio malessere interiore. Quando davvero gli si dà retta, come si fa in una buona esperienza analitica, il profondo prende a dire subito il perché e il senso del malessere. Bisogna ascoltarlo sia dentro il sentire, che il profondo muove e orienta, sia nei sogni. Da subito nei sogni l’inconscio comincia a  far vedere dov’è la ragione del malessere e della crisi, da subito conduce a vedersi allo specchio nel proprio modo d’essere e di procedere, da subito comincia a evidenziare i nodi mai avvicinati, i vuoti, le illusorie verità che non reggono, da subito, con grandi forza e fiducia, apre il cantiere della costruzione del proprio originale modo di essere, di esistere, di pensare e di progettare. E’ un cantiere dove serve fare un lavoro serio e paziente, perché la normalità è maschera o vestito già confezionato che basta indossare, mentre essere individui pensanti di pensiero e di visione propria e coerente con se stessi richiede molto, molto di più e comprensibilmente. Si pensa la psicoterapia e la si pratica spesso come officina di riparazione per tornare normali, per trovare da qualche parte qualche ipotetica causa attuale o preferibilmente remota, che avrebbe ingrippato il meccanismo. Non c’è, per ciò che, pur difficile e sofferto, vive oggi interiormente, da cercare causa o fattore avverso di cui si sia o si sia stati vittime, c’è semmai da comprendere ciò che l’intimo sentire oggi dice e fa vedere di se stessi.  C'è da intendere ciò che la propria interiorità spinge, attraverso sentire e sogni, a formare di consapevolezza, di pensiero proprio e di progetto, che finora sono mancati e che sono prezioso e indispensabile bagaglio, per non perdere davvero scopo e valore della propria vita. So che questa mia lettura del significato della crisi e del malessere interiore, non filosofica o inventata, ma frutto di esperienza e di confronto con l’intima esperienza e sofferenza, di dialogo e di lavoro quotidiano col profondo, non coincide con l‘immediata attesa di molti che vivono disagio interiore, che chiedono, come proprio bene,  prima di tutto l'annullamento del malessere e la normalizzazione, come so che non è omogenea a modi assai frequenti di intendere la cura, il prendersi cura di chi vive simili esperienze interiori. L’atteggiamento curativo, che, in apparenza benevolo e favorevole, cerca il rimedio, che col farmaco vuole sedare o mitigare, che con prescrizioni e suggerimenti vuole riplasmare i comportamenti e le reazioni, abbattere "l'ostacolo" interiore o che va a caccia di ipotetiche cause per costruire una sorta di spiegazione logica del perché del malessere, per tornare a chiudere il cerchio, lasciando tutto, del procedere e del rapporto con se stessi, come prima, rischia, malgrado le buone intenzioni, di diventare una barriera, se non una vera pietra tombale messa sopra una parte di sé intima e profonda, tutt’altro che malintenzionata, certamente non compresa nella sua intenzione e non valorizzata nella sua capacità propositiva. Rischia di perpetuare paura e incomprensione di se stessi, di ciò che vive dentro se stessi, di bloccare sul nascere o di non favorire, come la spinta interiore richiede, un necessario, utilissimo processo di cambiamento, di rinnovamento. Prendersi davvero cura di sè significa aprire a se stessi e scoprire che ciò che di sè si temeva può diventare la fonte, il fondamento della propria salvezza, del proprio vero benessere.

lunedì 2 giugno 2014

A te, che vuoi capirti

Vivere appieno un'esperienza interiore, un'emozione, uno stato d'animo, un vissuto è certamente la base e la premessa per intendere, per capire, rendendoti partecipe, lasciandoti segnare da ciò che senti, condividendolo con la tua interiorità. Il tuo sentire è la base del tuo capire, sentendo fai intima esperienza, tocchi con mano. Se oltre a concederti, a farti tutt'uno e a farti segnare dal tuo sentire, impari a prendere distanza per vedere cosa stai provando, cosa sta prendendo forma nel tuo sentire, cosa stai intimamente sperimentando ( tutto questo lo possiamo chiamare riflessione), ecco che crei una situazione del tutto nuova di rapporto con te, non di fuga, non di pregiudizio, non di scissione tra ciò che pensi e vuoi e ciò che senti, ma viceversa di unità dialogica con te stesso. Il tuo sentire, comprensivo di ciò che chiami ansia ( o d'altro che ti è interiormente disagevole)  è parte di te, è modo vivo della tua interiorità di calarti in qualcosa, per farti vedere, intendere, capire. Se hai un pregiudizio negativo sul tuo sentire, solo perchè è disagevole e in partenza te ne vuoi sbarazzare, considerandolo inutile, immotivato, dannoso, patologico, certamente chiudi a qualsiasi possibilità di dialogo, ti privi di un apporto vitale, che, se sapessi ascoltare e comprendere, potrebbe rivelarsi tutt'altro che inopportuno, inutile o deleterio. Aggiungo che definire, ad esempio,  ansia un'esperienza interiore è spesso un modo sbrigativo di liquidarla. Vivere viceversa quel singolo momento e cercare di vedere con attenzione cosa senti, dandogli il volto che ha compiutamente, con parole che lo descrivono fedelmente, significa valorizzare quell'esperienza, non fare di ogni erba un fascio, rendendola uguale ad altre, banalizzandola. Spesso si è prigionieri dell'idea che l'esperienza interiore disagevole vada prima di tutto combattuta, senza tanti indugi con farmaci o che vada evitata, sminuita, con atteggiamenti di fuga, sostituendola con altro, svagandosi. Tentativi destinati a fallire, l'interiorità, per convinto e insopprimibile senso di necessità, non accetterà di essere zittita o scansata, tornerà a smuovere, a "disturbare". Se il tuo sentire vuole dirti e calarti in qualcosa, testimoniarti, darti la percezione di qualcosa da intendere assolutamente, agirgli contro è come voler soffocare una consapevolezza intima, è come boicottare un modo di volerti portare con i piedi per terra, nella consapevolezza di qualcosa che non va oscurato. Lo star bene ad ogni costo, inteso come liberazione dal sentire attuale e vivo, rischia di tradursi nel non voler aprire gli occhi, nel bloccare tutto, nel voler solo una quiete fine a se stessa, che nel tempo non ti darebbe che impotenza e incapacità di governo della tua vita, uno svuoto di idee e di consapevolezza, una desertificazione dell'animo capace solo di farti inseguire gli altri, di farti concepire la vita unicamente come uniformità al solito e comune, come "normalità". C'è chi ammette che il sentire sofferto possa avere un significato e però lo intende come la meccanica conseguenza di una causa, pensa che sia il segno, la conseguenza di qualcosa, esterno a sè, che sta agendo o che ha agito sfavorevolmente contro se stesso. Si parla spesso e volentieri di stress, del possibile influsso negativo di cause attuali o, preferibilmente, remote. Anche qui non si cerca quell'incontro aperto, rispettoso e dialogico col sentire di cui dicevo all'inizio. Si cercano spiegazioni, si fanno lunghi giri per cercare da qualche parte nella propria storia  una plausibile causa e, una volta scovata, si confeziona il teorema che quello è il motivo dell'ansia, della sofferenza. Contento il terapeuta, contento il paziente, ma il sentire eccolo là presto, dopo momentaneo sollievo, intatto e inascoltato, ancora corpo estraneo con cui non si riesce a entrare in rapporto aperto, utile, fecondo, ancora incapaci di capirsi dentro e attraverso il proprio sentire, purtroppo ancora allontanato, dissociato da sè. Si dice allora che si è imparato a capire il perchè dell'ansia, a gestirla meglio, ma la fragilità del rapporto con se stessi e la paura di sè rimangono, l'estraneità rimane, l'incomunicabilità con se stessi, col proprio sentire, tale e quale a prima. Il sentire, cui si è cercato di dare una causa, senza ascoltarlo, voleva e continua a premere e a chiedere ascolto per proporre, per far capire di se stessi cose essenziali, per far fare passi avanti utili e necessari. Dunque, se vuoi davvero capirti,  è fondamentale che impari ad aprirti al tuo sentire, ad ascoltarlo per davvero, a lasciarlo dire, a raccoglierne l'intima proposta, cosa ben diversa dal mettergli sopra spiegazioni, trattandolo come oggetto temibile da disarmare o da tenere a bada. Potresti imparare a costruire unità piena e dialogica con te stesso. Potresti essere aiutato in questo.

Rigenerare il pensiero

Non c'è altro mezzo per rigenerare davvero i nostri pensieri che non sia legarli a filo doppio, di fedeltà e passione, al nostro sentire e non una tantum, ma sempre. Quando i pensieri viaggiano scissi e distanti dal sentire intimo, considerandolo casomai roba inaffidabile che non serve a capire o che toglie lucidità al ragionamento, accade che o cerchino di fare acrobazie impossibili o che, più facilmente, ricadano nel già conosciuto e in ciò che, unanimemente o quasi, è considerato realistico. Il pensiero scisso dal sentire è anche quello che, dando l'illusione di tenerne conto e di comprenderlo, non lo rispecchia fedelmente, non lo segue con piena aderenza nei percorsi di ricerca e di verità che, a volte scomodi e impegnativi, sa aprire, ma gli costruisce sopra e gli ricama addosso ciò che fa comodo pensare, a tutela dei soliti equilibri e dei più rassicuranti convincimenti. Non è un caso che il sentire dentro di noi spesso alzi la voce e provochi. In genere la cosiddetta ansia e tutto ciò che in svariati modi ed espressioni interiormente capita di patire, sono considerati fastidi o malattia. Che siano l'invito, senza far tanti complimenti, a mettersi finalmente con i piedi per terra, sulla terra dei propri vissuti, richiamando attenzione e pensiero a occuparsi di esperienza vissuta, di materia viva, tutt'altro che futile o astratta? Se ben ascoltati l'esperienza interiore, il sentire, le emozioni, gli stati d'animo, tutti senza esclusioni, dicono, tracciano percorsi vivi, propongono e in modo affatto impreciso, sbilenco o insensato. Anzi sono davvero l'unica opportunità per vedere e per vedere nuovo, non cessano mai di spingere e di condurre verso ciò che va assolutamente conosciuto, pena il rischio di rimanere sospesi e in balia del pregiudizio, di idee incallite e di comodo che non favoriscono certo la propria crescita, di idee date per scontate, che il coro unanime o quasi vorrebbe uniche e univoche. Senza idee fondate su di noi, guidate e alimentate dal nostro sentire, coerenti con noi e in continuo divenire e crescita, finiamo per non avere alternativa al pensare la vita come cosa già più o meno chiarita e detta e per accodarci al "normale", di pensieri e scelte. 


sabato 24 maggio 2014

Cadute e ricadute

In riferimento a situazioni di crisi e di sofferenza interiore, che si riaccendono nel tempo, si parla spesso convenzionalmente di cadute e di ricadute. Si usano non casualmente queste espressioni, perchè di ciò che si prova, che si sperimenta interiormente, non si comprende il senso, perchè lì dentro non ci si riconosce, perché lì dentro si vede solo disordine e danno. Diventano, le si fa diventare per paura e diffidenza,  esperienze cieche, verso cui c'è solo ostilità e pregiudizio, nessun incontro, nessuna intesa. Il nostro sentire dice, infilandoci in corsi d'esperienza difficili, dolorosi ci vuol far capire cose di noi e per noi essenziali e utili, ma la reazione è di considerarlo anomalo, patologico, sbagliato, solo perchè non ci allieta e non ci dà conferma, solo perchè diverso. Il nostro sentire siamo noi, è voce nostra, è sensibilità e intelligenza nostra, è volontà nostra di non tacerci verità spesso eluse e mai comprese, anche scomode, ma utilissime, è volontà di trasformare, anche radicalmente, lo stato del nostro pensare e procedere, è passione di libertà e di unità con noi stessi. Il nostro sentire ha forza e onestà di smuovere, di rompere la continuità, di segnalare un'urgenza interiore, di metterci sul chi va là, di impegnarci in un lavoro alla radice per evitare, procedendo incuranti, di andare a sbattere in fallimenti. Quando una vita rimane ad esempio ispirata all'adattamento, alla rincorsa dell‘approvazione, al fare ciò che fan tutti, al considerare legge la normalità, quando si fa confusione tra autorealizzazione e successo secondo tutti, questa vita rischia di fallire, di tradire se stessa, di non dare frutto, il proprio frutto. Quando si procede coprendo la propria responsabilità di ogni proprio gesto e movimento, camuffandone il senso, puntando il dito contro altro e altri, omettendo verifiche oneste su di sè, accade che il proprio sentire non taccia, ma contrappunti ogni movimento e cerchi di dare segnali impertinenti ma utili e puntuali per capire. Se infine la sofferenza prende piede non è per nuocere e non è affatto segno di patologia, è viceversa pungolo e richiamo, spinta potente a prendere coscienza, a iniziare a fare un lavoro finalmente serio su di sè, a comporre con se stessi l'unità e la consapevolezza che non ci sono. Siamo fatti non solo di ragionamento e volontà, siamo fatti di intimo sentire, di esperienza profonda, che dice, che continuamente dice, che ci dà spunti e pungoli di conoscenza nelle emozioni e negli stati d'animo, che ci dà guide di pensiero nei sogni. La maggioranza di noi vive arroccata nella parte cosiddetta conscia e convive con fatica e spesso con atteggiamento diffidente e sordo con l'altra parte, intima, del sentire. Costruire rapporto dialogico e rispettoso con la parte intima è necessità primaria, in genere sottovalutata, anzi incompresa. Perciò, non capendo ciò che l'intimo sentire dice e propone, respingendolo e giudicandolo insano quando dà spinte e proposte difficili o dolorose, non immediatamente comprensibili, ma non per questo incomprensibili o insensate, si finisce per squalificarlo come male, come malattia, come bestia nera da mettere a tacere. Perciò si parla di cadute e di ricadute. Costruire rapporto col proprio intimo sentire è possibile, creando ascolto e dialogo, unità dove ora c'è rottura e incomprensione, diffidenza e paura, paura di se stessi. Con l'aiuto necessario il cambiamento è possibile.

mercoledì 21 maggio 2014

Spettatore o artefice

La condizione dello spettatore, che si fa dire e consegnare contenuto e senso della vita (della propria vita) da ciò che pare già disegnato e dato là fuori (la cosiddetta realtà), che cerca nella mentalità comune e nel turbinio di cose, di notizie e offerte varie per sapere/ istruirsi /divertirsi/ realizzarsi le proprie occasioni ed espressioni, che cerca di segnalarsi agli occhi degli altri come questa fosse la massima conquista, è la condizione che da molti e in genere è ritenuta sana, oltre che scontata. Come se vivere fosse solo usare, imitare, inseguire, dare prova ad altri, lasciando a sè solo parte passiva, di adeguamento, di rincorsa. In sostanza è proprio in questa "normalità" che ci si ritrova ad essere spettatori di un discorso sulla vita, che sembra già scritto e fatto. La propria interiorità però, in simili condizioni, non di rado non sta quieta. Sensazioni, anche dolorose ed insistenti, tentano di far presa sull'individuo, di strapparlo al passivo corso, cercano di fare da guide per aprire gli occhi, per cominciare a sentire sè, a percepire la propria condizione, a riconoscere l'incatenamento al dato, l'adesione automatica, la preminenza dello sguardo e del giudizio altrui rispetto al proprio. Il proprio intimo sentire sa far cogliere non di rado quanto si sia divisi da se stessi, quanto si sia precari, inconsistenti e infelici in quella condizione di gregari, anche se di qualche successo, dietro a un tutto già definito e dato. Ansietà e timori, smarrimento, esitazioni e intoppi, scoramento, svuoto di passione vera, di convinzione profonda, di fiducia fondata, serpeggiano e via via non danno tregua. L'interiorità a volte fa la voce grossa, la sofferenza si acuisce e segnala come un evidenziatore le aree critiche, la verità che non si vuole vedere. A volte sferra colpi durissimi, come gli attacchi di panico, l'orrore di luoghi affollati, per tagliar le gambe, per farla finita di inseguire automaticamente altro, per cercare di imporre all'attenzione sè e l'intimo e non la gente o la piazza. Se, come spesso accade, queste sensazioni vengono viste pregiudizialmente come disturbo e impedimento al  vivere, se ci si limita a cercare espedienti per metterle a tacere e per levarsele di torno, se ci si accontenta dello sfogo e della consolazione di sapere che anche altri patisce, come si patisse un'affezione, una malattia, certamente con le proprie sensazioni un rapporto, un dialogo vero non si aprirà mai. Imparare ad ascoltarsi e a capirsi attraverso le proprie sensazioni sarebbe la conquista da fare, scoprendo che finalmente si può diventare protagonisti di una presa di coscienza, della costruzione di un pensiero proprio, sentito fin nelle viscere. Per fare delle proprie sensazioni l'occasione per cominciare ad aprire occhi e per non essere spettatori impotenti di un discorso sulla vita ( sulla propria vita) già allestito e fatto, bisogna fare un gran lavoro, essere aiutati a farlo, possibilmente da chi non abbia in mente solo di dare medicine o consigli toccasana per rimettere tutto a posto in fretta, per tornare a fare gli spettatori. E' possibile iniziare a vivere davvero. E' possibile partendo dalla crisi, non scrollandosela di dosso, ma prendendola sul serio, procurarsi seria occasione per costruire e dare forma a quello che nella normalità non c'è, a se stessi, a ciò che fa la differenza tra l'essere spettatori e l'essere davvero artefici del proprio cammino, protagonisti della propria vita. 

domenica 29 gennaio 2012

L'analisi: a cosa serve e che cambiamento produce?

Il cambiamento decisivo per l'individuo in analisi sta nella possibilità di trovare con se stesso incontro e vicinanza, di generare dialogo e conoscenza dove prima c'era silenzio, diffidenza e fuga, come in presenza di un estraneo o come dinnanzi a un meccanismo rotto, malgrado fosse in presenza di sè e in rapporto col proprio sentire e con la propria intima esperienza. Acquisire questa capacità in analisi, che io definisco come il luogo dell'incontro e del dialogo dell'individuo con se stesso, con la propria interiorità, è processo che inizia subito, ma che giunge a maturazione gradualmente. Come analista cerco e favorisco apertura totale dell'individuo alla propria interiorità e del suo profondo cerco di fargli avvicinare voce e proposta. I sogni sono l'espressione più alta della propria vita interiore e vero motore della ricerca. Sono attività pensante, base e veicolo di una nuova visione che, non più appiattita sulle cose e sui fatti, illumina ciò che accade dentro sè, i nodi e i temi veri della propria esistenza, le aspirazioni e le spinte progettuali più autentiche. Se in precedenza il pensiero era, un pò per astrattezza, un pò per passività e per adagiamento sul pensato comune e convenzionale, un pò per approssimazione, ben lontano dal garantire all'individuo capacità di farsi interprete fedele di se stesso, gradualmente invece nel corso dell'analisi, fecondato dai sogni e condotto sempre a riferirsi e a fondarsi sul sentire, cambia letteralmente pelle. Acquisita così e gradualmente piena e salda capacità di guidarsi dall'interno, di fondarsi sempre e comunque sul proprio sentire e sul proprio corso interno, di capirsi in dialogo aperto con se stesso, senza più fughe e chiusure diffidenti o ostili, l'individuo è pronto per proseguire da solo il suo cammino.

Il prezzo della lontananza da se stessi

Il prezzo della lontananza da se stessi. E’ il prezzo che si paga quando, in presenza di un'interiorità, che non rinuncia a porre al primo posto la centralità dell'essere rispetto al fare e al proseguire purchessia, di un'interiorità che dà segnali non di guasto e di disfatta, ma di tormentata presenza viva, che smuove e dice, che chiede ascolto, la risposta é quella del solo allarme, del lamento, dell'invocazione di dissolvere e di mettere a tacere la propria intima voce, dell'indisponibilità al confronto con se stessi e alla ricerca del senso di ciò che si sta sentendo e profondamente sperimentando. La lontananza da se stessi si evidenzia e si rafforza nel dare disponibilità a impacchettare tutto della propria esperienza interiore sofferta nell’idea di malattia, con una bella sigla ( etichetta diagnostica) messa sopra, che illude di capire, di spiegare (quando mai mettere un’etichetta dal vago sapore scientifico aiuta a capire, a fare passi avanti nella conoscenza di se stessi? ). Qualche farmaco e qualche buon (si fa per dire) consiglio e esortazione per zittire il malessere o per metterlo nel sacco, cercheranno di chiudere ( illusoriamente) il conto. Per capire lo stato attuale delle cose e soprattutto l’intoppo nel dialogo con se stessi, l'incapacità di ascoltarsi, che nel frangente della prova difficile, della crisi si evidenzia clamorosamente, dobbiamo però considerare tutto ciò che ha preceduto le tormentate nuove pagine di vita e d'esperienza. Da sempre la parte di sé che si esprime nel sentire è stata probabilmente incompresa e sminuita. Trattate le proprie emozioni, stati d’animo e corsi interni d’esperienza come roba di secondo piano, puro colore e rumore di fondo, gradito se complice, guardato con sospetto e con fastidio se dissonante e discordante le attese e le previsioni, tutto il valore e l’affidabilità possibile son stati dati alla parte "alta", quella della cosiddetta consapevolezza, ragionante e capace di presunta obiettività e di lucido controllo. Peccato che questa parte, se ben osservata, mostri di  assorbire come spugna luoghi comuni e parti di discorso prese in prestito e mai da sé verificate e comprese, peccato che ami prima di tutto aggirare l'ostacolo anziché vedere e capire, che isoli, discrimini o bellamente metta in secondo piano e oscuri tutto ciò che non le dà conferme e rassicurazioni utili, che metta al primo posto la compatibilità con l’interlocutore esterno e col giudizio altrui più che l’aderenza e il confronto con se stessi…e via di questo passo, in un modo di procedere dove l’andar dietro e il non voler essere da meno degli altri e delle loro attese, dove l’afferrare tutto il ben di dio del mercato delle idee comuni e delle soluzioni pronte (considerate come la "realtà" unica e possibile)                                  valgono più di ogni altra cosa, dove i segnali interni discordanti e potenzialmente fondanti le ragioni e le occasioni del proprio esserci e del vedere con i propri occhi ( impacci, silenzi, inquietudini, ritrosie, cadute d’interesse e di motivazione, ecc) vengono viste e contrastate come le bizze di un mulo che non vuole fare, che non sa stare al passo. Quanto della propria esperienza interiore è mai stato difeso, valorizzato, ascoltato, avvicinato come terreno vivo di incontro con se stessi, come occasione per capire cosa stava accadendo? Spesso nulla, proprio nulla. Perciò parlo di lontananza da se stessi, già abituale e che fa sì che nel momento in cui la propria interiorità fa la voce grossa, mette in campo segnali di malessere, interferenze grandi come case, questa voce non venga raccolta, compresa, soprattutto non dia il via alla voglia di raccogliersi su di sé per cominciare a ritrovarsi, a metter finalmente al primo posto l’essere rispetto al tirar dritto.

L'ascolto e il dialogo con l'interiorità

Nel confronto con l'esperienza interiore si tende spesso a separare presto vissuto e pensato, a trattare quanto sentito, sperimentato interiormente solo come vago indizio o pretesto per passare in fretta a cercare di spiegare il perchè e il percome facendo ricorso a giri di ragionamento. Cercando in cause ipotetiche e plausibili le ragioni del disagio, riconducendo e incastrando in soliti schemi già noti tutto il senso, ci si convince di capire. Accade in realtà che il sentire non venga ascoltato in ciò che dice e rivela, in ciò che vuole condurre a riconoscere. Il sentire non è conseguenza di una causa, una sorta di reazione, di risposta riflessa, il sentire è luogo d'esperienza, è via di conoscenza. Col ragionamento viaggiamo liberi in lungo e in largo e costruiamo ipotesi tanto ben disegnate e sagomate quanto spesso sterili e lontane da ogni relazione con l'esperienza intima, quanto spiantate, senza alcuna corrispondenza con noi. Il nostro sentire ci permette invece in una forma sensibile di entrare in rapporto con ciò che abbiamo occasione e necessità di avvicinare, di capire di noi stessi....un pò come conoscere una cosa toccandola, sentendola, un pò come camminare a piedi nudi e sentire il terreno, apprezzando tutte le caratteristiche vere del percorso che stiamo facendo passo dopo passo. Vale dunque la pena di dar retta al sentire, di imparare ad ascoltarlo, a cogliere ciò che sta rivelando, sempre, senza rifiuti, senza separazioni di comodo tra bel sentire o cattivo. Per intima esperienza e impegnandosi a raccogliere ciò che il sentire produce, si può davvero capire, solo così e non invece separando il pensiero dal sentire e consentendogli di tenere in pugno la conoscenza come ragionamento. Solo facendo esperienza, concedendoci senza barriere al  nostro sentire e mettendoci, attraverso riflessione, come allo specchio per vedere cosa succede dentro le nostre sensazioni e stati d’animo, possiamo fare conoscenza fondata e vera, utile e feconda. Va detto poi che il nostro profondo, che genera il nostro sentire, che ci propone a volte percorsi non facili, ma sensati, da capire, da scoprire all'interno e dall'interno, è anche assai generoso di indicazioni e di suggerimenti per capire noi stessi e quanto sta accadendo, attraverso i sogni. Certo i sogni non vanno letti in modo concreto o interpretati con disinvoltura, esercitando nei loro confronti lo stesso arbitrio ( del metter loro sopra interpretazioni costruite col ragionamento) usato col sentire di cui parlavo all'inizio. I sogni vanno analizzati e scoperti, lasciati dire e dare ciò che racchiudono. Si tratta di una risorsa preziosissima, perchè nei sogni c'è capacità, come in nient’altro, di leggere dentro di noi, di sviluppare pensiero fondato e non spiantato.  La strada per capire se stessi e il senso di ciò che accade interiormente, accettato e accolto nella sua integrità e interezza, non è certo facile e immediata, ma è possibile. E' certamente possibile, purchè con la propria interiorità si impari ( con l'aiuto di chi sappia sostenere e guidare in questo percorso)  ad aprire un dialogo rispettoso, capace di ascoltarla e di attingere e non di parlarle sopra.



martedì 24 aprile 2007

Fiducia in se stessi

Accade non di rado che ci siano persone che patiscono e lamentano scarsa stima e fiducia in se stesse e che ne rivendicano il pronto recupero o rafforzamento, come se quella auspicata (più autostima e più fiducia in sè) fosse condizione ovvia e scontata, un diritto. In realtà è probabile che chi non trova fiducia in se stesso stia cercando, più o meno consapevolmente, più validi presupposti e nuovo fondamento alla propria fiducia e stima di sé. Spesso l'individuo nel suo procedere si affida e aderisce ad altro da sé da cui si lascia definire e portare: ruoli, senso comune, convalida esterna, assunzione di modalità gradite ai più ed applaudite, conoscenze e modi di pensare assorbiti e ripetuti. Chi non trova fiducia in se stesso è spesso un individuo che si è limitato a riprodurre qualcosa di già confezionato, a inseguire e a misurarsi più col consenso e la considerazione d'altri che col proprio sguardo, a fronteggiare e a superare prove e esami esterni, ad andar di corsa verso traguardi già segnati, più che a dare spazio e impegno a ricerca e a verifiche proprie. Con una maturità di facciata, pur cercando, in affanno, di stare al passo con gli altri, sente di stentare. Sempre più si acuisce in lui il senso di inadeguatezza, subordinando la considerazione di sè, del proprio valore al paragone con altri, facendo degli altri ancora e sempre più il suo metro di misura, il suo modello. L'individuo, pur sfiduciato circa sè, paradossalmente insiste nella pretesa di colmare subito il senso di sfiducia, come se questo del non accordarsi fiducia e stima fosse un limite ingiustificato o una anomalia. In fondo chiude gli occhi, non già sulla sua scarsa fiducia, ma sulle ragioni vere, di inconsistenza propria che la giustificano. Facendo riferimento e conto su modi comuni di procedere, che in fondo non richiedono se non attestati di conformità al normale e parvenze, preso dall’urgenza di non perdere terreno rispetto ad altri, non vede la distanza che lo separa da una vera maturità e dal possesso conquista di qualcosa di suo e di degno, capace di fargli meritare sì dentro se stesso senso di fiducia e di stima. Per una fiducia in se stesso davvero fondata e non costruita sul niente o sull'apparente, è necessario all'individuo qualcosa di riconosciuto da sè come originale e consistente, capace di farlo stare sulle sue gambe, di fargli compiere passi in direzioni scelte, comprese e sentite, in autonomia, quindi poco importa se non condivise o non apprezzate dagli altri, con progettualità propria, con intima persuasione e passione, con senso di unità e di credo condiviso con se stesso. L'individuo che non trova fiducia in se stesso ignora in realtà ciò di cui è portatore, ancora non dispone di sé, ancora ignora il senso di ciò che sperimenta interiormente, ancora non ha scoperto l'affidabilità della propria guida interna, profonda, ancora non dispone della propria creatività, della capacità di generare pensiero proprio, di riconoscere progettualità propria e di tradurla, sostenerla. Onestamente potrebbe ammettere di non avere una propria visione di sè e della vita, un proprio discorso, malgrado si sia sforzato di trovare argomenti e risposte, onestamente potrebbe riconoscere di non essere ancora capace di guidarsi attraverso se stesso. Queste ammissioni risulterebbero certo ingrate, dolorose e però anche finalmente capaci di motivare l'impegno di scoperta dentro sè e di conquista del nuovo, di ciò che manca. L'individuo si lamenta di non avere sicurezza e fiducia in sé, ma in fondo insiste nella pretesa di essere già maturamente compiuto, in molti casi più per imbarazzo verso gli altri o per orgoglio, che per reale persuasione. In alcuni casi potrebbe essersi davvero convinto di possederne di pensiero e di argomenti originali e propri, senza riconoscere di essersi sempre, nella sostanza, riempito d'altro, di aver fatto uso di sapere preso in prestito, di idee, anche se "intelligentemente" rimaneggiate e rifinite, mai scaturite per intero da sé e perciò mai concepite e comprese dall'origine e per intero.La stima di se stessi, rivendicata come fosse ovvia e dovuta, manca dunque spesso del suo valido motivo e fondamento. Nulla è più sciocco o deleterio che voler ottenere o addirittura pompare la fiducia in se stessi, se ancora mancano i suoi fondamenti, distraendosi dal compito e non cogliendo il richiamo interiore a lavorare su se stessi, facendosi aiutare all'occorenza, per formare le basi della stima e della fiducia in se stessi, solide e infine davvero gratificanti.  Non è un caso infatti che l'interiorità, che la parte di sè più acuta, intelligente e consapevole, quella profonda, quando ancora mancano le condizioni di vera crescita e di vera maturità necessarie e desiderabili, tolga e neghi percezione di sicurezza interna e di fiducia e tenga ferma questa posizione, malgrado le lagne. Non lo fa per deficit o per malattia, lo fa per amore di verità, per saggezza e per consegnare finalmente il pungolo e il compito di porre riparo a quel vuoto di sè e di propria sostanza e creatività, per spingere finalmente a generarla e a costruirla. Il profondo non crea mai situazioni di sofferenza e di crisi inutilmente o sciaguratamente.

Attacchi di panico. Qualche spunto di riflessione

L'attacco di panico è la soluzione estrema, l'arma più potente ed incisiva che l'inconscio sa impiegare, non per fare danno, non sconsideratamente, non per dissestare e basta, ma per perseguire fin dall'inizio uno scopo, per dare forma, pur drammaticamente, a uno scenario nuovo, per far intendere subito, per intima e sconvolgente esperienza, qualcosa di importante, anzi di fondamentale. Le iniziative dell'inconscio sono sempre profondamente pensate e concepite, sensatamente finalizzate. Capita infatti che la lontananza e la separazione da se stessi, l'ignoranza di se stessi, interiormente non passino inosservate e che non vengano accettate nel proprio profondo. Ciò che si dava per scontato, che l'interiorità seguisse e assecondasse, che fosse garantito sostegno vitale e continuità al procedere abituale, è improvvisamente messo in forse. Capita che l'inconscio prenda decisa iniziativa e sopravvento, che dia modo di sperimentare nella forma della vertigine emotiva, del senso di totale smarrimento e di angosciosa fragilità, fino alla paura che tutto si spezzi, fino all'angoscia di morire, che la vita, in quella forma abituale e conosciuta, non sia da dentro garantita. Non solo, ma in quel momento di stacco improvviso dalla continuità del fare e del procedere abituale, l'inconscio fa sperimentare cosa significhi, per chi non abbia cercato legame con se stesso, con la propria interiorità, essere separati da tutto, soli, in presenza di sè soltanto, legati al proprio intimo soltanto. Abituati a stare adesi ad altro e a farsi tutt'uno con altro, quasi a negare la percezione di sè, abituati a disperdersi nel fare, a rinviare sine die la sosta, il momento del fermarsi in aderenza e in ascolto sincero e attento della propria interiorità, ecco che nel momento dell'improvviso e inaspettato stacco dal fuori e dell'affaccio sul dentro, si è colti da sorpresa, persi, sgomenti. Questo dell'essere catapultati improvvisamente nell'intimo delle proprie sensazioni, del veder costretto il proprio sguardo sul dentro sè, del sentire bruscamente incatenate la preoccupazione e l'apprensione a sè e al proprio stare in vita, è l'esperienza, lo scenario nuovo che si spalanca nell'attacco di panico. La propria interiorità, da gran tempo trascinata nel fare, nell'inseguire, nel pensare senza aderenza al proprio sentire vero, da gran tempo sottovalutata, resa nelle intenzioni docile e conciliante, muta all'occorrenza, dà all'improvviso (ma non tanto, perchè precedenti segnali a starci attenti ce ne sono stati a bizzeffe) segnali vigorosi, impone i tempi, detta i contenuti dell'esperienza. Sensazioni sconquassanti di smarrimento, di pericolo, di insicurezza totali, impetuose. Parrebbero maligne, così oscure, terribili, travolgenti. Anche se la presa dell'inconscio è così decisa e quasi brutale, tutte queste improvvise impetuose sensazioni e tutto il drammatico nuovo corso d'esperienza vogliono spingere a vedere, a prendere coscienza di ciò che si è nell'incontro con se stessi: smarriti, perchè mai abituati a cercarsi, sempre inclini a evadere, a stare fuori e "assenti". I temutissimi attacchi di panico vogliono, nelle intenzioni dell'inconscio, segnare una frattura, una discontinuità decisa, vogliono essere un inizio. Potrebbero, se raccolto e ben inteso il potente richiamo, essere davvero l'inizio della scoperta di sè, della volontà di avvicinarsi a sè, della presa di coscienza dell'importanza di non essere stranieri dentro se stessi, altro da se stessi, appendici di un essere, il proprio essere, che non si conosce, con cui si rischia di convivere fino alla fine senza incontro, senza ascolto e senza scoperta, senza trarne, della propria esistenza, le ragioni vere, i quesiti e le potenzialità. Un inizio dunque, anche se traumatico e quasi devastante. Se l'inconscio non agisse all'occorrenza con tale fermezza, durezza e asprezza nel dire all'individuo della sua lontananza e non familiarità con se stesso, della sua mancanza di contatto e di radice dentro sè, della sua sostanziale inconsistenza, avrebbe qualche possibilità di interromperne la marcia solita e l'inerzia del pensiero, di coinvolgerlo e di farsi ascoltare? Intendiamoci, la risposta più comune all'attacco di panico è di considerarlo un evento anomalo, uno sciagurato impedimento alla prosecuzione solita, una iattura che pare togliere la possibiltà di insistere nel modo di vivere solito, nell'attaccamento a abitudini, a cose, al fare. Tanta offerta di cura è proprio rivolta a trattare simili esperienze come disturbo e patologia da sanare e correggere, con farmaci o con consigli, prescrizioni, esercizi volti a superare paure considerate irrazionali. L'ignoranza del significato degli eventi interiori non ha limiti e confini. Capita però che ci siano individui che riconoscono nell'esperienza dell'attacco di panico e nel seguito interno che lascia, un segnale importante, che avvertono la necessità di una riflessione approfondita, di una ricerca finalmente di incontro e di comprensione di se stessi. Ho visto iniziare esperienze analitiche su queste basi e premesse. Come l'inconscio, in simili casi, era stato perentorio e drastico nel segnare, attraverso gli attacchi di panico, una frattura drammatica rispetto al solito procedere (frattura segnata dagli attacchi e dal seguito di forte insicurezza, allarme e apprensione che avevano lasciato), così è stato pronto a dare, fin dall'inizio del cammino analitico, attraverso i sogni, indicazioni lucidissime e guida sicura sul percorso da seguire, sulle scoperte da fare, sul lavoro necessario per ridare all'individuo finalmente consapevolezza vera, vicinanza e unità con se stesso, conoscenza di ciò che gli apparteneva. Se prima c'era solo la rincorsa di un che di normale e di paragonabile ad altri, di concepito e di tenuto in ordine col ragionamento, che spesso e in genere non sa vedere, ma solo organizzare e imitare, dopo la brusca interferenza del profondo, che ha costretto l'individuo a prendersi cura di sè, a spostare l'attenzione su di sè, è potuto iniziare un nuovo cammino e un divenire, del tutto inattesi e inconcepibili prima, ma possibili. Se all'inizio all'individuo, sotto le bordate del profondo, era parso che la sua salvezza stesse unicamente nel far cessare quell'assalto, nella libertà di proseguire indisturbato nei modi soliti e verso le mete conosciute, dopo, a confronto aperto e approfondito, gli è risultato via via sempre più chiaro che ciò che aveva a disposizione prima della crisi e che tanto aveva cercato di difendere era poca cosa e impropria, che tanto e tutto di sè gli mancava, che un cambiamento radicale, a partire dal capire ciò che di sè stava facendo, si era reso non solo utile, ma necessario, pena il rischio di non vivere, di non far vivere se stesso.

Il rapporto con se stessi: unità e dialogo o contrapposizione e rottura. Il senso della crisi

Il rapporto con la propria interiorità è spesso ostacolato da incomprensioni e da pregiudizi, che non appaiono tali a chi ne è artefice e soggetto. C'è un pregiudizio ben radicato e molto diffuso che vuole che ci sia netta separazione e opposizione tra ciò che di noi, denominato razionale, è giudicato assennato, affidabile ed equilibrato e ciò, che invece definito "irrazionale" (comprende l'esperienza emotiva e ciò che, fuori dal controllo della volontà e da cosciente determinazione, ci coinvolge, ci smuove da dentro e spesso ci sorprende) è considerato affatto lucido oltre che parziale e poco o nulla attendibile. Se poi il corso dell'esperienza interiore assume carattere aspro e sofferto, tortuoso o lacerante, facilmente si sviluppa da parte di chi ne è portatore ostracismo, rifiuto verso questa parte di sè, oltre che allarme come dinnanzi a qualcosa che non funziona correttamente, che rivela disordine, malattia o, se il giudizio è benevolo, stato di debolezza, di usura o di bisogno ( il cosiddetto  "esaurimento" ). L'interiorità, la parte di noi più intima e profonda, in realtà più che reagire come passivo oggetto di logorio a qualche fattore nocivo che la fiacca o che l'affligge, che ne compromette il sano equilibrio, cerca spesso con determinazione e con intraprendenza di creare, per fondati motivi, una discontinuità sensibile e ben avvertibile, fortemente coinvolgente. Il profondo non subisce, ma genera lo stato di crisi, non per caso, non inutilmente, non per patologica tendenza. Se ben raccolti, ascoltati e compresi quelli dell'interiorità sono segnali intelligenti, che aiutano a cogliere in profondità, con finezza di sensibilità e con precisione di sguardo questioni decisive che riguardano il proprio essere e il proprio modo di procedere. All'individuo spesso sfugge, talvolta poco importa vedere nitidamente quale sia la qualità o sostanza vera del modo di vivere e di procedere dentro cui è immerso e cui si affida. Gli può rimanere ignoto o può mantenere debole e sfumata la percezione del costo pagato in termini di assenza di contenuto proprio della propria vita, di mancata rispondenza vera e profonda a sè di ciò che sostiene e che esprime. Può preferire non vedere o sottovalutare aspetti di sè non marginali di immaturità, di dipendenza da altri o da altro per sostenersi e per dirigersi, di opaca conoscenza di sè, del perchè e del senso di ciò che fa e che porta avanti, di rinuncia o di mancanza di una progettualità propria, forse mai cercata con forza e con insistenza dentro se stesso. Non è raro infatti che le scelte e il procedere si siano ispirati più al seguire la corrente, facendosi dettare dal senso comune e prevalente gli appuntamenti e le tappe della propria vita, all'afferrare ciò che comunemente veniva inseguito e considerato degno di interesse, al portare a sè e al riempirsi di qualcosa comunque, piuttosto che al cercare dentro sè con impegno e con pazienza significati, scopi voluti e mete desiderate e all'investire su di sè. Volentieri il raggiungimento di qualcosa di proprio è stato equivocato e scambiato col fare proprio qualcosa di stabile e di rassicurante, soprattutto di prontamente accessibile ( come ad esempio il consolidare e rendere certo un legame, il mettere su casa con qualcuno, il mettere al mondo un figlio come fosse creazione propria, il raggiungere e l'appagarsi di una sistemazione lavorativa, a prescindere da senso e finalità del proprio lavoro ecc.). Poco disponibile a sincere verifiche, non di rado rinunciatario e passivo nella sua parte "alta" e pensante, quella cosiddetta consapevole e razionale, l'individuo ha però dentro se stesso e sue anche altra vita e sensibilità, altre risorse. Se altrove, nel suo profondo, le cose appaiono diversamente, si può pretendere che dentro tutto debba rimanere immobile e composto? Se nel profondo l'individuo ha capacità di vedere in modo penetrante cosa accade, cosa sta facendo di se stesso, se ha presente cosa di sè giace inespresso, se sa a quale destino anonimo e perdente, al di là delle apparenze, si sta consegnando, se profondamente ha capacità di sollevare la questione e di dettare una svolta e, laddove ci fosse ascolto e disponibilità nei "piani alti", pure capacità di guidare e di alimentare un serio processo di verifica, di riscoperta di tutto, di radicale e di profonda trasformazione....si può pretendere che il profondo mandi giù e non prenda posizione? Se il profondo ha vicine, consapevoli e scottanti tali verità e potenzialità di cambiamento si può pretendere che taccia, che rimanga con le mani in mano? La crisi, il malessere che monta, che ostacola, che a volte sembra paralizzare l'intero procedere solito dell'esperienza, può nascere da simili fondamenti e argomenti (ne ho solo esemplificati alcuni) tutt'altro che irrilevanti, irragionevoli o assurdi. Trattare pregiudizialmente come patologia l'intimo tormento e sommovimento è come prendere per matto quel briciolo e più di sana capacità di vedere e di luce che ci si porta dentro. Il mio lavoro di psicoterapeuta, di analista mi ha permesso e mi permette di constatare che rispondere alla crisi con disponibilità di ascolto e con impegno di ricerca consente all'individuo di verificare che la crisi, che tanto gli era parsa all'inizio incomprensibile e funesta, non si era aperta per caso o inutilmente, che il suo intento era costruttivo, che dal profondo, dove si era generata e dove era stata voluta, è stato ed è possibile nel corso dell'analisi (imparando ad accogliere e a raccogliere riflessivamente il significato e la proposta del sentire, facendo proprie la guida e l'intelligenza dei sogni) trarre tutti gli elementi che servono per capire e per costruire il nuovo, il proprio. L'interiorità spesso non è remissiva e rinunciataria; se strattona, se spinge, se disturba, se si mette di traverso sa il fatto suo. Va infine detto che non si può pretendere di far evolvere positivamente e costruttivamente la crisi, secondo il suo verso e scopo, in un attimo. Per conoscersi davvero, per rivisitare la propria vita, per riscoprire il proprio essere, per riconoscere e per rafforzare finalmente, dietro ispirazione e guida profonde, visione, pensiero e progetto propri, che non siano il solito inseguire e imitare modelli dati, che non siano ripetere cose sentite dire e prese in prestito da altri o da altro, per rimettersi davvero sulle proprie gambe, ci vuole lavoro, ricerca attenta, impegno e tempo. Il rapporto con se stessi, il dialogo con la propria interiorità vanno saggiati, scoperti, costruiti, coltivati con passione e con serietà, fatti crescere con pazienza e con tenacia. Così facendo le cose possono cambiare e radicalmente.

domenica 15 aprile 2007

I sogni

 Da oltre vent'anni nella mia attività di psicoterapeuta, di analista, quotidianamente mi occupo di sogni. Il sogno è attività pensante, la risorsa intima più importante capace di restituire all'individuo la capacità di capire, di capire se stesso. La modalità prevalente e più conosciuta dall'individuo di capire se stesso è quella che fa leva sul ragionamento. Il pensiero razionale, anche quello che ha parvenza di pensiero riflessivo, cioè dettato dall'esperienza intima, in realtà, anzichè ascoltarla e raccogliere, le parla sopra, le sovrappone spiegazioni.
Convalidate dall'uso comune o prese in prestito da qualche autorevole fonte, simili spiegazioni o interpretazioni riescono a dare a chi ne fa uso pallida persuasione di capire l‘esperienza, di vedere dentro sé, di conoscere. Dico pallida perché, al di là di una sensazione d'ordine, di controllo, di dominio sull'esperienza e sui suoi ignoti, il pensiero razionale non produce granché. A molti credo sia capitato di osservare questo: un processo di spiegazione razionale che riguardi se stessi, tanto risulta a volte coerente, all'apparenza convincente ed esauriente quanto sterile. Venuti col ragionamento a capo del problema ci si sente soddisfatti, ma si avverte di non aver compiuto un passo avanti, di non aver compreso per davvero nulla, soprattutto si sente di non ritrovare unità e contatto tra ciò che si è argomentato e detto e l'esperienza intima. Altra cosa è comprendere e dire, sapendo cosa si sta dicendo, vedendo dentro di sé, cercando e trovando dentro il vissuto il fondamento di quel compreso, la sua anima, la sua voce. I sogni conducono a questo: a vedere con i nostri occhi, a riconoscere significati che illuminano, che chiariscono noi stessi, ciò che sentiamo, di cui facciamo intima esperienza. La mia esperienza di analista mi ha dato e mi dà prova che dal profondo parte la ricerca di visione, di comprensione del senso. Dal profondo l'invito, l'occasione, la spinta continua e ostinata a rompere la condizione di passività o di chiusura della mente nel già pensato, nel pensiero dato, a superare l'inconsapevolezza di noi stessi. I sogni ci avvicinano come nient'altro a noi stessi. Il cammino analitico è segnato dai sogni.
Ogni sogno è un momento di ricerca che si serve di strumenti avanzatissimi di pensiero. Mettersi al passo col pensiero dell'inconscio è lavoro assai impegnativo, ma gratificante, perché capace finalmente di restituire la visione nitida e fondata, il pensiero di cui manchiamo, il nostro , dove pensare e avere consapevolezza sono in vera comunione e sintonia , dove ciò che diciamo e ciò che intimamente sperimentiamo concordano tra loro, sono l'uno la voce dell'altro. Per capire un sogno bisogna lavorare e molto. Ogni dettaglio del sogno è parte costitutiva del messaggio, di un messaggio affatto prevedibile e scontato, mai copia di qualcos'altro. Compito dell'analista è di restituire all'altro ciò che appartiene all'altro, il suo pensiero. Se l'analista mettesse addosso all'altro, all'esperienza dell'altro, ai suoi sogni qualcosa di già pensato, di costruito, di preso in prestito da presunte teorie certe e da spiegazioni già pronte, valide per tutto, tradirebbe il suo mandato, la sua funzione di aiutare l'altro a reggere il confronto con se stesso, a cercare ciò che gli appartiene, che si sta facendo avanti in lui dal suo profondo, che vuole essere compreso. L'analista, se facesse ricorso e favorisse l’uso di interpretazioni pronte, di idee già pensate, rischierebbe di chiudere l'altro a se stesso, di non aiutarlo ad attingere a se stesso.
E’ importante trattare bene i sogni , non parlargli sopra, ma imparare ad ascoltarli, a farsi guidare da loro. Per ogni sogno si può lavorare (assieme) anche per sedute intere, per più sedute. L'importante è non piegare il sogno al preconcetto, a qualche interpretazione pronta, che sicuramente farebbero la felicità di chi vuole uscire in fretta dalla tensione dell'attesa e dell'ignoto, ma che ammazzerebbero la creatività e il pensiero.

Ancora sui sogni: come intendere e avvicinare questa preziosa e insostituibile risorsa interiore

 I sogni sono per l'individuo il veicolo fondamentale della conoscenza di sé. L'inconscio attraverso i sogni introduce alla visione interna, alla visione e alla scoperta di significato degli accadimenti interiori, che assai facilmente sfuggono all'individuo, rispetto ai quali il suo pensiero abituale e la sua logica sono non solo insufficienti, ma spesso del tutto sordi. L'individuo spesso pensa, cerca di darsi spiegazioni attorno a se stesso, cerca di definire i propri orientamenti senza fondarsi rigorosamente sull'esperienza vissuta e senza concedersi alla propria guida interiore. Nel sentire c'è il luogo degli accadimenti veri, nel sentire e nello svolgimento della vicenda interna, nei vissuti si delinea, si definisce ciò che l'individuo è, come prende parte all'esperienza, cosa sta emergendo di significativo, che lo vincola e lo apre a un confronto con se stesso, a un approfondimento. La trama del sentire, assunta, accolta e rispettata nella sua integrità e interezza, è per l'individuo quanto di più sensato, intelligente e fondante pensiero e sapere intelligente su se stesso, possa trovare.  Nel suo sentire l'individuo può trovare la completezza della materia su cui lavorare, nel suo sentire è tracciata la strada da seguire, lì il mezzo per conoscere. Spesso l'individuo è lontano, scisso, separato da questo piano fondamentale della sua esperienza, dell'esperienza interiore, del vissuto. Spesso, senza piedi per terra, senza aderenza e legame con ciò che sente, se ne sta a mezz'aria impegnato a tenere unita una visione di se stesso che si confonde con la visione concreta dei fatti e delle cose. Rispetto alla propria esperienza interiore l'individuo è spesso assestato in posizione o di pretesa circa ciò che dovrebbe convenientemente accadergli di sentire, casomai secondo leggi di "normalità", oppure di diffidenza, di paura, se non di ostilità. Capita infatti che già pensi e tratti, ancor prima di confrontarsi apertamente con questa parte di sé, come eccessivo o assurdo fino a patologico ciò che, sgradito o tormentoso o incalzante, si faccia sentire e si imponga in lui, complicandogli il cammino. In sostanza se il sentire si accorda, in apparenza, con le attese e dà manforte alle pretese viene favorevolmente accolto, se dissonante viene vissuto come inquilino sgradito e scomodo, come abusivo da relegare o espellere. Ebbene, in una situazione come questa, dove questione centrale è la distanza, la scissione tra sentire e pensare, tra un sistema di conduzione dell'individuo, che va per i fatti suoi e che non tiene conto, se non marginalmente o con presuntuosa pretesa di primato, di ciò che accade interiormente, i sogni che cosa rappresentano? Se il corso della vicenda interna, se il sentire è solco e humus della ricerca di sé, i sogni sono guida, sono germogli di pensiero riflessivo, perché aprono lo sguardo sul dentro, perché dicono di ciò che accade nel rapporto dell'individuo con se stesso, di ciò che si muove e prende forma, vero e non inventato, nell'esperienza interiore. Sogno dopo sogno l'inconscio orienta, guida, sostiene la ricerca, lo sviluppo della capacità riflessiva, della capacità di visione di sé da parte dell'individuo. I sogni fondano la costruzione di un nuovo rapporto dell'individuo con se stesso, in cui l'individuo tenga fermamente unito ciò che sente e ciò che pensa. Nel corso dell’esperienza analitica gradualmente, attraverso guida e lezione dei sogni, il pensiero dell’individuo cambia pelle da pensiero, nella conoscenza di sé, generico, sostanzialmente astratto, uniforme al già pensato e consensualmente, da pensiero che insensatamente va dove tira il vento del raziocinio, a pensiero fondato, dove ciò che è pensato e detto trova origine, sostegno, alimento e vincolo nel vissuto, nello sperimentato dentro sé. I sogni richiedono, perchè si possa attingere alla loro ricchezza, un lavoro molto attento. Il loro linguaggio, simbolico, si fonda su richiamo diretto o rinvenibile per via associativa a esperienze vissute, a osservazioni in nuce, che l'autore del sogno può raccogliere pazientemente, diligentemente a partire da tutto ciò che compare nel sogno. Tutto nel sogno in forma simbolica dà volto a realtà interne all'individuo, ciò che compare rappresenta il suo e dice di lui. In sede analitica si lavora assieme sul sogno, lo si analizza parte dopo parte, senza trascurare alcun dettaglio, inclusi i vissuti interni all'esperienza del sogno, finché i simboli acquistano luminosità e capacità di dire, di svelare, di mostrare ciò che rappresentano. E' un processo molto graduale. Spesso si pensa che basti raccontare un sogno perché l'esperto, l'analista prontamente e facendo tutto da solo lo interpreti. L'analista, anche se ha via via maturato conoscenza approfondita dell'altro, del rapporto, non può spiattellare interpretazioni pronte sul sogno, non può dire nulla di valido e di attendibile senza lavorarci con scrupolo e senza la partecipazione attiva dell'autore del sogno, che in definitiva deve essere messo nelle condizioni di vedere, di capire, di capirsi attraverso il proprio sogno. Se al sogno venisse imposta, sovrapposta un'interpretazione semplicemente coerente con discorsi o ipotesi già in corsa, il rischio di fraintendere, di vanificare il sogno, di buttare via la sua proposta originale, sarebbe fatale. La nascita e lo sviluppo della conoscenza, della conoscenza di sé dell'individuo in analisi, che è scopo dell'analisi, deve fondarsi sempre su lavoro analitico, su confronto, su ricerca, su scoperta del significato intimo di ciò che si incontra, nel vissuto, nella trama degli eventi interni, nei sogni. L'analista non deve introdurre alcun discorso già fatto e di origine altra. Tutto si crea, tutta la conoscenza di sé dell'individuo deve essere la conoscenza di ciò che si rende visibile, riconoscibile dentro e attraverso l'esperienza, dentro e attraverso i vissuti e i sogni. L'analista deve possedere saldamente lo strumento analitico, la capacità riflessiva, non quella di spiegare ciò che accade con teorie precostituite. Deve possedere la capacità di stare rispettosamente nel cammino di ricerca, sapendo reggere la tensione dell'attesa, sapendo dare e incoraggiare nell'altro  riconoscimento di ciò che si dà nell'esperienza, limitando il discorso a ciò che di volta in volta si rende prossimo, che si può avvicinare, che si rende riconoscibile senza andare oltre. E' la cosa più difficile: stare sul cammino senza pretendere di capire oltre e al di là di ciò che, momento dopo momento, si può vedere, reggendo la tensione dell'incompletezza, del non sapere già, del non sapere subito. Un sapere fondato, verificato passo dopo passo, senza forzature e quadrature o arrotondamenti di comodo, sempre e unicamente legato all'esperienza e a ciò che, lavorato riflessivamente, rende riconoscibile, che non includa apporti di pensiero estranei e altri o innesti. Su queste basi e a queste condizioni si rende fondato e attendibile il sapere, la conoscenza. Non è attendibile viceversa il sapere che si avvale di altro, dell'ausilio o supporto di teorie o di pensiero preso in prestito, seppur da autorevoli fonti o da maestri di nome altisonante; quello comunque inquina e basta. L'individuo in analisi deve poter trovare e dare al mondo il suo e deve poter impiegare lo strumento e il metodo analitico, che come levatrice sappia portare alla luce questo "suo" e non deve incontrare altro che si ficchi in mezzo e copra tutto o sostituisca l'originale. Dalla propria formazione, peraltro sempre in divenire, l'analista deve portare nel rapporto e nel dialogo con l'altro solo il metodo, la capacità riflessiva, la capacità di confrontarsi con rispetto e con grande rigore col nuovo, con l'ignoto.

venerdì 12 gennaio 2007

Il rapporto con le emozioni e col profondo

Il rapporto con le emozioni, perchè sia fecondo, richiede apertura e capacità di lasciarsi coinvolgere e prendere, concedendosi appieno, nello spazio interiore, all'emozione, combinata a capacità di prendere distanza da ciò che si sta sentendo, distanza utile per vedere, riflessivamente, come guardandosi dentro uno specchio, ciò che l'emozione sta mostrando e rivelando di se stessi. E' la combinazione e l'alternanza ripetuta di questi movimenti, dell'aderire/lasciarsi coinvolgere dall'emozione e del prendere distanza per vedere, per ascoltare, per cogliere cosa nel proprio sentire ha preso e sta prendendo forma, che consente rapporto creativo con le proprie emozioni e con l'insieme del proprio sentire. La parte sconosciuta di noi, la parte che ancora ci è ignota, che si esprime nelle emozioni, che genera i sogni, cioè l'inconscio, non ha importanza marginale nella costruzione della conoscenza di noi stessi. Anzi, mi sento di dire che tutto della scoperta e della conoscenza possibile di noi stessi viene da lì, dal sentire, da ciò che si dà a noi imprevedibilmente, ma non insensatamente, nell'emozione, nel vissuto, nel complesso accadere degli eventi interiori, oltre che, in modo formidabilmente acuto ed efficace, nei sogni. Non sono l'inventiva o l'attivismo isolati del ragionamento, è il corso interiore imprevedibile, è la parte di noi ignota e pure così viva e insistentemente presente nella nostra vita, è l'inconscio a poter dirigere e rigenerare la conoscenza di noi stessi. Diventa necessario, essenziale corrispondergli capacità di ascolto e di pensiero riflessivo, volte ad assecondare, a raccogliere, a far nostro ciò che l'inconscio sa indirizzare, proporre, dire. L'inconscio non si può pilotare, è autonomo nelle sue espressioni, nelle sue scelte. Per fortuna! Non sottosta alle attese e alle previsioni, non è tutt'uno con ciò che amiamo pensare di noi e che vorremmo confermare, far persistere. Autonomo da tutto questo, l'inconscio ci dà ciò che ci serve per farci confrontare apertamente con noi stessi, per capirci, per farci crescere. L'inconscio è la parte di noi che guarda all'interno e in profondità la nostra esperienza, che ci offre i mezzi per conoscerci, per riconoscere ciò che sta accadendo. L'inconscio, attraverso il sentire, attraverso il susseguirsi, mai casuale, di stati d'animo e di emozioni, ci permette di uscire dalla posizione di estraneazione da noi stessi, di lontananza e di deriva rispetto al nostro corso interno. Prigionieri di una visione che coglie solo i fatti e la superficie, di un pensiero che spesso si arrabatta per far quadrare le idee e che, quando vorrebbe essere riflessivo, in realtà o sovrappone all'esperienza interiore significati concepiti in separata sede, senza ascolto del sentire, o si serve di formule già pronte e a pronto uso, possiamo trovare nell'inconscio le guide per rientrare dentro noi stessi, per conoscere, per conoscerci senza illusioni, elusioni o trucchi. Al pensiero conscio che, se costruito su basi razionali, nella conoscenza di se stessi, è spesso, al di là della presunzione, sgangheratamente approssimativo e pieno zeppo di idee preconcette e di automatismi, oltre che compiacente verso le personali immediate convenienze e conservativo nella sostanza, l'inconscio oppone l'occasione di ripartire da ciò che si svolge intimamente e dalla base reale dell'esperienza e dei processi interni per capire, per cercare il senso puntualmente, senza tralasciare nulla. Di fronte alla complessità del proprio quadro interiore spesso la reazione di chi ne è portatore è di insofferenza oltre che di timore e di diffidenza. Non abituato ad aprirsi all'esperienza interiore e a dialogare con essa, l'individuo è spesso prevenuto nei confronti delle espressioni della propria vita interna cosiddette irrazionali. Cercando di starsene, per quanto possibile, lontano, è pronto a presumere che ci sia là dentro, nell'intimo, nel profondo, solo un agitarsi confuso, un magma di spinte e di sensazioni da tenere a bada, che minacciano di oscurare la lucidità del ragionamento e la accortezza e la coerenza dei propositi. Quanta paura dell'inconscio! Non stupisca che persino gli addetti ai lavori, gli specialisti della psiche, che non abbiano percorso la strada della loro personale ricerca interiore come base e fonte di conoscenza, che si siano semplicemente avvalsi di teorie prese in prestito, di schematismi dottrinali, dove vale più la parola del libro, del caposcuola, che la propria ricerca, abbiano non di rado una sostanziale diffidenza e paura dell'inconscio, mascherata a volte da sufficienza, da apparente padronanza dei termini di un'esperienza interiore, di cui in realtà non hanno imparato né a fidarsi né a comprendere il linguaggio vero, il senso.  L'inconscio, su cui spesso c'è la pretesa, sia del diretto interessato che, in non pochi casi, del curante, di imporre un ordine e una normalizzazione funzionale alla ripresa solita e su solite basi, non si lascia né zittire, né disciplinare. Restituisce all'individuo ciò che scorre in lui, scombinandogli i piani, le previsioni e le pretese, fondamentalmente continua a dargli lo specchio per vedersi. L'inconscio lo rimette "dentro", nel flusso vitale, nel corso vero degli accadimenti interni, lo immerge nella sua storia vera, nella sua dimensione d'esistente. Se finalmente  accolto e compreso, l'inconscio è in grado di renderlo protagonista di conquiste di pensiero, di scoperte originali, lievito di progettualità nuova. Se condiviso e compreso, l'inconscio è capace di far abbandonare all'individuo la sua posizione abituale, avulsa da sé, anonima, passiva, fuori dal tempo e dal suo corso, in cui era più preoccupato dell'altrui sguardo che del proprio, più gregario e spettatore d'altro che riflessivo sul proprio, che creatore del proprio. L'inconscio non accetta la passività, la rinuncia a se stessi, allo sviluppo del proprio originale pensiero e progetto. L'inconscio divide e riapre l'essere, rompe l'univocità del pensato e della visione, ferisce e rilancia la tensione della ricerca. L'inconscio ci divide  nel nostro stare tutt'uno con ciò che, senza verifiche e fondamento,  pensiamo e che ostinatamente tuteliamo di noi stessi. L'inconscio di noi sa vedere e mostrarci ciò che siamo. Lo mostra compiutamente nei sogni. Se si analizza un sogno e, prima di ogni sua parte, poi dell'insieme, si sa ricostruire e ritrovare tutta l'incisività ed espressività simbolica, ci si accorge che nulla  riuscirebbe a illuminare meglio e in modo più efficace la propria situazione interiore e la propria problematica attuale. L'inconscio dilata l'orizzonte, allarga lo sguardo su ciò che stiamo facendo di noi stessi e della nostra vita e sulle prospettive. Capita allora, non di rado, che un percorso di vita venga reso a un certo punto, per intimo sentire, dall'interno, arduo, accidentato e sofferto, quasi impraticabile. Chi è "vittima" di questo, anche forte, malessere interiore e impaccio, ritiene di essere in pericolo, di correre il rischio, "ostacolato"da dentro, di perdere l'opportunità di procedere felicemente. In realtà spesso è soprattutto proteso a inseguire gli eventi, a garantirsi la tenuta del suo procedere consueto, oltre che preoccupato di non essere da meno degli altri e in ritardo rispetto a ciò che è comunemente definito e designato come il percorso da seguire. Spesso chi è "vittima" del nuovo e insistito disagio, ha scarsa visione di ciò che sta facendo realmente di sé, della sua vita. E' abituato a non avere altra visione di realtà possibile se non quella consegnata da fuori, dal pensiero comune, visione da lui assorbita e rafforzata  razionalmente. Da dentro, da dove la crisi viene movimentata e resa cocente, la consapevolezza (che ancora sfugge alla parte "conscia" ) che va rivisto tutto, che va davvero ripensata e compresa la propria condizione e il proprio modo di procedere, che va costruito ciò che serve per dotarsi di autonomia, con una propria visione di sé, con la scoperta di significati e la comprensione di ciò che ha valore, condotta da sè e alla radice. Ecco che l'impaccio, l'ostacolo penosamente sperimentato, la crisi diventano il mezzo e il richiamo, la condizione resasi necessaria per rivedere tutto. Può essere che l'individuo decida a questo punto di fare sul serio, di cercare mezzi per capirsi, per aiutarsi a guardarsi dentro. Può capitare che l'esperienza analitica prenda il via da queste premesse. L'inconscio ha aperto la strada. L'inconscio ancora guiderà e sosterrà la ricerca conducendola verso lo scopo intimamente desiderato. La prima novità, nel dialogo con l'inconscio, sarà quella di imparare a pensare riflessivamente, a cercare con i propri occhi, a generare finalmente conoscenza, conoscenza di sé. Abituati a cercare e a procedere nella conoscenza con mezzi puramente razionali, avvertendone spesso tutta l’astrattezza, l'esperienza e il cammino in analisi  mostreranno invece e sorprendentemente che è possibile  trovare nel sentire la strada e il mezzo per avvicinarsi davvero a se stessi, per orientarsi, per capire.  Non è un risultato istantaneo, il corso interiore va seguito passo dopo passo e il sapiente lavorio dell'interiorità, fatto attraverso i sogni e gli svolgimenti del sentire, va condiviso a fondo, compreso puntualmente e prolungatamente per fondare nuova fiducia e capacità di capirsi in sintonia e in accordo col proprio profondo. E' importante che l'analisi consegni nel tempo all'individuo capacità piena di dialogo con la propria esperienza interiore, vera risorsa per conoscere, per orientarsi e per far crescere se stesso anche in seguito, finita l'esperienza analitica. A dirigere sarà e continuerà a essere l'inconscio, capace di  guidare, di orientare e di dettare i tempi e i modi della ricerca. Nel corso dell'esperienza analitica l'inconscio mostra di saperlo fare, regolando il corso della vicenda interna ( dei vissuti, del sentire, della trama degli accadimenti interni ), rendendola base e occasione di avvicinamento a sé e di conoscenza e principalmente offrendo i sogni, veri fari della ricerca. Al resto dell'individuo,  prima durante l'esperienza analitica e in seguito ancora, il compito importante di porsi in ascolto, di mettere a disposizione , lasciandosi prendere e condurre, la voglia di scoprire, di capirsi, di arrivare a se stesso, di andare sempre avanti. Non c'è guida più saggia e capace per la conoscenza e la realizzazione di se stessi dell'inconscio. Il mio lavoro di analista è stato ed è possibile solo in virtù di questa guida.