venerdì 24 agosto 2018
Riprendere in mano la propria vita
Docile non è...
La propria interiorità non sta affatto nei
confini della cosiddetta normalità, dentro quel campo delimitato, dove tutto
dovrebbe svolgersi secondo previsione e programma, senza scosse e senza
sorprese sgradite, non dando disturbo, non recando fastidio. Docile a simili
aspettative e pretese non è il proprio profondo, perché ama la vita, perché non
accetta i pastrocchi e le illusioni che l'altra parte, quella conscia, che, si
crede superiore in affidabilità e capacità di giudizio, confeziona. La parte
conscia, in presenza di crisi e di malessere interiore, che vorrebbero riaprire
i giochi, condurre a un serio riesame della propria vita, del proprio modo di
condurla, reagisce e si allarma, spesso, senza tanti indugi, strepita e sentenzia,
giudica e dispone, senza capire e intendere se non i propri pregiudizi, non si
fa scrupolo di aggredire la parte intima, di mortificarla, dandole della
balorda, della sciagurata, dell'incapace e della malata. La conferma autorevole
non tarda a venire. Etichette diagnostiche, che fanno di ogni erba un fascio,
per definire, meglio sarebbe dire per marchiare (e da lì avviare a trattamento
normalizzante farmacologico e non), con pretesa aria di sapere indiscusso e di
scientificità, esperienze interiori, tanto impegnative e disagevoli quanto
uniche e cariche di senso, con cui non si ha né volontà, né capacità di entrare
in rapporto, cui ancor meno si è disposti a riconoscere intelligenza e capacità
propositiva, sono il suggello di un atto ostile, anche se non riconosciuto come
tale. Un atto ostile contro parte di sè e a proprio danno, pur con l'aria di
procurarsi benevola cura, di darsi aiuto. L'interiorità non si piega, non si fa
addomesticare, insiste, ogni suo rinvenire forte e risoluto incontra risposta dura
e ancora ostile, la squalifica prosegue e la parte conscia parla di ricaduta di
malattia. Beata ingenuità di una parte di sé, tanto arrogante e spiccia nei
giudizi, quanto ignorante! Ho dedicato la mia vita a rivalutare e a
valorizzare, a difendere e a rendere giustizia e dignità alla parte
bistrattata, la più saggia in realtà, la più capace, insostituibile nel ridare
a ognuno dignità, forza e spessore di individuo pensante e consapevole e non di
pecora vagante senza meta propria e senza progetto, in forte e stretta sintonia
col gregge piuttosto che con se stesso. L'interiorità è valida, irremovibile
nel suo intento di testimone del vero, di promotrice di crescita, di
realizzazione umana autentica e non d'immagine e fasulla, l'inconscio è una
risorsa straordinaria e ai più sconosciuta nella sua vera natura e potenzialità
di fonte di vita e di pensiero. Ho cercato e cerco di aiutare l'altro a non
ripudiare parte di sé preziosa e affatto nociva, a non spararle contro per
liquidarla senza entrarci in rapporto e senza conoscerla, continuerò a aiutare
l'altro a non fuggire sciaguratamente da se stesso.
martedì 21 agosto 2018
La propria strada
martedì 31 luglio 2018
L'importanza di non travisare
L'interiorità si fa in quattro per
coinvolgere la parte cosiddetta conscia, che spesso di consapevolezza vera ne
cerca e ne forma assai poca, per farle capire che c'è necessità vitale di
prendere visione attenta di come si è e di provvedere a costruire, a formare
quanto manca per essere all'altezza di individuo con propria identità e
progetto. L'interiorità non vuole chiudere gli occhi e preme facendo capire che
non c'è urgenza di fare e di proseguire come sempre, senza perdere colpi, che
l'urgenza è ben altra. Ostinatamente lancia l'allarme, il profondo dell'essere
strattona anche con forza la parte di sopra, ponendo intralci alla sua pretesa
di quieto vivere, alla sua propensione a gettarsi fuori, come se il fuori fosse
l'unica risorsa e riferimento, l'unico habitat possibile, rifuggendo il luogo
intimo, dello stare in contatto con se stesso, col proprio sentire, come fosse
irrilevante e senza promessa, un niente da evitare, dentro cui non sostare,
perchè ci sarebbe sempre bisogno d'altro per vivere e, per dirla giusta, per
non perdere il passo con qualcosa che non si sa bene perchè, ma che tutti
dicono essere normale. L'interiorità non recede e insiste nella volontà di
porre al centro dell'attenzione non le illusioni, non la voglia matta, questa
sì matta, di proseguire e basta, ma non c'è verso, le capita solo di essere
oggetto di improperi (del tipo di: maledetta ansia!), di giudizi senza ascolto,
di sentenze senza appello, casomai sotto forma di diagnosi, di prese di misura
curativa che altro non sono che purghe per spazzare via ciò che è inteso solo
come disturbo e patologia. Il quadro è questo, ma i travestimenti in forma di
cura di risposte sorde e ostili all’interiorità e i travisamenti sono
infiniti e ferrei. Ne sono esempi, ben sostenuti dall'ideologia dello star bene
purchessia, casomai nel segno del non aver di mezzo dubbi e domande, la cura
che vuole mettere a posto e a tacere l’interiorità con i farmaci, quella
che vuole risanare e correggere con tecniche per eliminare ciò che considera
anomalo e disfunzionale. E poi ancora la cura che, con pretesa di essere
introspettiva e analitica, vuole spiegare i presunti perchè di ciò che,
interiormente impegnativo e difficile, non sa ascoltare in ciò che vuole dire e
far capire, cui soltanto va a cercare con lunghi giri le presunte cause per
levarselo di torno, per liberarsi dell’incomodo di qualcosa, che in partenza
terapeuta e paziente giudicano l'esito infelice di un danno patito, di un
passato sfavorevole, una sofferenza residua frutto di condizionamenti negativi,
di traumi subiti, travisando, travisando. Con ostinata sicumera si travisa come
disturbo da togliere e guasto da sanare ciò che l'interiorità vuole, a ragion
veduta, dire e dare, la consegna, che certamente impegnativa, ma a misura e a
altezza di essere umano, vuole portare a cambiare profondamente, a diventare
soggetti consapevoli e artefici della propria vita e non passivi traduttori di
un'idea di vita già scritta, con parte da interpretare e sceneggiatura belle
che pronte. Il profondo ha capacità di vedere vuoti e assenze, vuoti di sè, di
pensiero proprio, di capacità di leggere nell'intimo e senza veli il proprio
modo di essere e di procedere. Se ancora non si sono trovate le proprie
risposte alla propria vita e se ancora non si hanno radici in se stessi, come
si può pretendere di proseguire integri e imperterriti, come se tutto fosse
scontato e già risolto? Se una parte di se stessi vede e non ignora il problema
è assurdo e patologico o è comprensibile e sano che si faccia in quattro per
sollevarlo, strafottendosene della preoccupazione che domina l'altra parte di
sè di proseguire comunque e basta, di non perdere il passo con gli altri? E'
importante non travisare.
sabato 21 luglio 2018
Il valore dei sogni
domenica 1 luglio 2018
La cura
martedì 26 giugno 2018
La vera patologia
domenica 27 maggio 2018
Idee tanto diffuse quanto improprie
domenica 11 febbraio 2018
La concezione piatta
Le probabilità, dentro un'esperienza di
sofferenza interiore, di pensare subito al rimedio, al modo per superare ciò
che, senza dubbi e esitazioni, è inteso soltanto come uno stato negativo da
correggere, sono elevatissime. Sembra risposta sorretta da argomenti ovvi e
inconfutabili. Si dà per scontato che ciò che si sta provando sia il rovescio
di ciò che sarebbe auspicabile e normale. Gli stessi tecnici della cura e
esperti della psiche sono pronti, non certo in pochi, a offrire soluzioni per
mettere le cose a posto, vuoi prescrivendo farmaci, vuoi offrendo tecniche
d'aiuto che vorrebbero togliere e sostituire ciò che è penoso e che non
permette di procedere a cuor leggero, con qualcosa di più felicemente positivo
e funzionale a ritrovare quello star bene che si ha pena d'aver perso o di non
aver mai raggiunto. Terapie che vorrebbero risistemare le cose, togliere le
spine nel fianco, sconfiggere modi di reagire e di sentire giudicati
disfunzionali, che farebbero solo danno, che non avrebbero scopo utile e nulla
di valido da dire, che non saprebbero far altro che creare ostacoli e limitazioni,
pene inutili e superflue. Sarebbero solo il residuo di modi sbagliati di vedere
e di pensare, insomma scorie e difettosi modi di funzionare, casomai dettati da
cattivi condizionamenti educativi e culturali o da adattamenti a situazioni
sfavorevoli divenuti via via sconvenienti e controproducenti. Questo modo di
leggere l'esperienza interiore è conforme e parte di una visione dell'individuo
tutta a senso unico di marcia e piatta. Se non si sta in buon equilibrio
apparente, se non si procede in modo sciolto e senza freni e ostacoli
interni, bisogna adoperarsi per correggere gli attriti e le disfunzioni, perché
tutto giri a meraviglia. L'individuo deve usarsi al meglio e esprimersi come
serve per stare in buona armonia con l'esistente e con le idee di normalità e
di buon funzionamento comuni e prevalenti, questa la regola e il principio
della concezione piatta. La vita fatta e concepita con prioritario e unico
riferimento all'esterno, all'esistente, all'insieme organizzato e pensato,
confermandone, passivamente, il disegno, il linguaggio e i significati,
rendendo cruciali, essenziali i legami con altro e con altri, consacrando il
tutto come "la realtà", da non perdere mai di vista e con cui non
perdere mai contatto pena il rischio di sentirsi persi, psicologicamente come
senza guida e senza risorse, senza ossigeno da respirare, tutto questo delimita
e consente, senza alternative, la concezione piatta. Che l'individuo abbia
facoltà e necessità irrinunciabile, pena il rischio di non esistere come
soggetto, di vedere in proprio e riflessivamente (come guardandosi allo
specchio) ciò che sta facendo di se stesso, di cercare risposte su ciò che è
come individuo unico e originale e non fatto in serie, su ciò che porta dentro
se stesso, risposte non certo già confezionate e a pronto uso, ma da trovare, è
questione e esigenza fondamentale che spesso sfugge. Sfugge la necessità di
crescita personale, di sviluppo di autonomia non di facciata, ma sostanziale e
vera, che implica scoprire ciò che secondo se stessi e riconosciuto con i
propri occhi ha senso e valore, senza farsi imbeccare e imboccare da idee già
pronte e in corso, ma attingendo e mobilitando tutto il proprio potenziale
interiore, lavorando con attenzione, di concerto con la propria interiorità,
sulla propria esperienza, attivando il proprio sguardo e capacità di ricerca.
Ciò che più profondamente si sarebbe inclini a amare e a desiderare di far
vivere, ciò che davvero darebbe senso, valore e pienezza alla propria vita può
rimanere sepolto, inaccessibile, tirando dritto e seguendo la concezione piatta
dell'esistenza e delle possibilità che concede. Cercando di zittire col
malessere interiore anche la pressione della propria interiorità a prendere
visione del proprio vero stato e di se stessi, a sviluppare finalmente la
consapevolezza che finora non ci si è curati di formare, si finisce per pensare
e per muoversi nell'unica direzione che la visione piatta a senso unico
consente. Che l'individuo sia fatto oltre che di una superficie di volontà e di
capacità di pensiero razionale (che lavorando da solo, senza la guida del
sentire, più spesso di quanto non si creda, nella conoscenza di se stessi,
ricalca e rigira il già conosciuto, copre la verità anziché svelarla) anche di
una parte profonda, di gran peso e presenza, che nel sentire parla di continuo
e spinge al vero, che nei sogni offre occasioni di pensiero assai vicino e
corrispondente a se stessi, non ripetitivo di altro, aperture lucidissime di
sguardo riflessivo attento e affidabile, tutto questo sembra ignorato. Sembra ignorato
e sembra stare fuori dalla visione e dalla concezione sia di chi sente
malessere e che è alle strette con i richiami e con le pressioni della sua
parte profonda, sia di chi, non in piccola schiera, si offre come terapeuta. La
visione piatta vuole che tutto giri in un'unica direzione, nel verso del buon
regolare funzionamento, ignorando che il complicarsi della vicenda interiore è
espressione di un intervento della parte profonda che non vuole tacere, che
vuole richiamare l'individuo al compito di capirsi e di capire dove sta
conducendo la sua vita e dentro quali vincoli e modalità, di prendere atto di
quanto ignora ancora di se stesso e non ha ancora formato come capacità di
vedere e di concepire a modo proprio. Altro che disfunzioni! Ansia, attacchi di
panico, fobie o cadute depressive, grovigli ossessivi, tutte queste espressioni
della vita interiore hanno da dire e da richiamare a compiti di presa di
coscienza e di uscita da un modo inconsapevole, passivo, uniforme con altro,
incapace di mettere d'accordo il proprio pensare e il proprio sentire, un modo
spesso perdente e vano di spendere la propria vita, a dispetto delle apparenze
e del conforto di opinioni esterne a sé. Nel rapporto con la propria esperienza
interiore, nel modo di considerarla e di trattarla, c'è necessità di liberarsi
da automatismi di pensiero e di risposta, non importa se ampiamente condivisi,
che accecano e che portano lontano da se stessi, c'è necessità di affrancarsi
da una concezione piatta di se stessi e della propria vita, che accredita e che
spinge verso un presunto star bene, che umilia il proprio essere anziché
esaltarlo.
domenica 28 gennaio 2018
La triste sorte
domenica 21 gennaio 2018
L'equivoco del rimedio naturale
Chi non intende che ciò che sta provando, pur
insolito, doloroso, disagevole, ha un senso, che non è patologia da sanare, ma
che racchiude una proposta e un potenziale utile e necessario da imparare a
comprendere e a valorizzare, cerca con affanno e con ostinazione un modo e un
mezzo per mettere a tacere, per sbarazzarsi di ciò che considera solo un danno
per se stesso. Convinto di prendersi in questo modo cura di se stesso e di
difendere i propri interessi, cerca qualcosa che agisca per zittire e per
dissolvere possibilmente ciò che interiormente considera solo un disturbo, una
alterazione che comprometterebbe il suo buon vivere e "normale". La
stessa ricerca delle cause del malessere interiore è una delle opzioni nella
ricerca dei rimedi, concepiti per venir fuori da una condizione disagevole.
Pare scelta più lungimirante e aperta del ricorso a armi chimiche,
farmacologiche impiegate per combattere e per mettere a tacere il malessere, ma
muove sempre dall'idea, meglio sarebbe dire dal pregiudizio, che ciò che
l'individuo sta vivendo interiormente di arduo e disagevole sia uno stato
anomalo e negativo, che va ricondotto a una causa, a un fattore sfavorevole, a
un cattivo condizionamento, a un trauma, che avrebbe provocato un guasto e
compromesso il normale e fisiologico sviluppo. Pare scontato che le cose stiano
così e tutta un'offerta di cure asseconda e alimenta questa idea, l'infermeria
sociale che si propone di curare i disagi interiori offre e suggerisce mille
rimedi, chimici di sintesi o naturali, psicologici. Il rimedio cosiddetto
naturale pare a molti più benevolo e rassicurante, meno rudemente estraneo e
minaccioso di effetti, più o meno collaterali, dannosi del farmaco. Cosa c'è in
questo ricorso a prodotti e mezzi naturali di davvero naturale e nel rispetto
della propria natura? Per chi si sta confrontando con un'esperienza interiore
difficile sarebbe assai utile e opportuno frenare la propria corsa, condotta
con affanno e con ostinazione, alla ricerca dell'arma che debelli il presunto
male, sarebbe importante non cadere nell'illusione che ci sia arma meno
rischiosa e più buona ricorrendo a rimedi cosiddetti naturali piuttosto che
farmacologici. Nelle intenzioni e nell'atteggiamento di chi ne fa uso si
tratterebbe infatti in ogni caso di porsi in urto ostile con la propria
esperienza interiore, facendo leva su un rimedio, su un'arma, naturale o
sintetica che sia, per neutralizzare e togliere di mezzo ciò che sta provando.
E' importante non dare per scontato nulla, è fondamentale interrogarsi su ciò
che il proprio malessere è realmente e può valere, su ciò che significa e
propone, anche se al momento impreparati e senza mezzi per ascoltarsi e per
capire il linguaggio interiore. Solo così si potrà valutare attentamente in
cosa consista prendersi davvero cura di se stessi, cosa sia fare il
proprio bene e interesse. Solo uscendo da facili luoghi comuni si potrà
comprendere quale sia la risposta o se vogliamo usare il termine rimedio, quale
sia il rimedio davvero naturale. La risposta più naturale al malessere e alla
crisi, che rispetti la propria natura e che la assecondi, che non alimenti
dissociazione e conflitto con la parte intima e profonda di se stessi, che
favorisca l'unità del proprio essere, che scaturisca da se stessi e che non si
avvalga di altro e estraneo, è la conquista e l'esercizio da parte propria
della capacità riflessiva, della capacità di accogliere e di riconoscere in ciò
che si sente, che si prova interiormente l'originale e vero significato e la
proposta. Può servire un valido aiuto non già per combattere e per eliminare,
per sradicare il malessere come scopo primario, bensì per imparare a
ascoltarsi, a entrare in rapporto e a raccogliere l'intima proposta del proprio
sentire. Non c'è nulla di peggio, non c'è peggior danno alla propria natura del
porsi in contrasto, del cercare di eliminare, di far fuori ciò che la propria
parte vitale profonda sta dicendo a se stessi attraverso il vissuto, di
considerare pregiudizialmente nemico il proprio sentire, non importa se
disagevole e in apparenza, solo in apparenza, sfavorevole o nocivo. Può
accadere che ciò che si sente intralci il modo consueto di procedere, che la
parte profonda di se stessi soprattutto all'inizio, per incidere, per farsi
ascoltare, per spingere a occuparsi di se stessi e della propria sorte, per
spingere a lavorarci sopra, blocchi o riduca la funzionalità dell'agire,
dell'andare, del fare, che renda il proprio quadro interiore niente affatto
godibile e tranquillo. Ciò però non significa che l'intervento del profondo,
che quanto si sta interiormente vivendo, vada contro i propri interessi più
veri e profondi. Se si sviluppasse, con l'aiuto adatto, capacità riflessiva,
capacità cioè di vedere l'intimo volto e di riconoscere l'autentico significato
di ciò che si sta provando, di capire cosa il proprio sentire sta dicendo e
spingendo a vedere, a conoscere, non si trarrebbe certo danno da simile
rapporto e si scoprirebbe che c'è tanto di nuovo di se stessi da comprendere per
non perdere di vista ciò che per sè più conta. Il normale procedere, che tanto
si teme di perdere e che il malessere interiore sembra intralciare e
compromettere, è spesso infatti forma di pensiero e di procedere imitativa
d'altro, presa in prestito e non coerente con se stessi, rischia di essere
forma vuota e non ricca di sè di condurre la propria vita, più in armonia con
altro e con altri che con se stessi. Il rimedio più naturale al malessere e
alla crisi interiore è recuperarne il potenziale, è farne tesoro, è
comprenderne e assecondarne gli intenti e i pungoli di crescita e di
trasformazione nel verso del conoscere e del diventare se stessi. Viceversa la
corsa al rimedio, che sia farmacologico o naturale poco importa, inteso e usato
come mezzo per tentare di spegnere e di spazzare via ciò che difficile e
disagevole si sente, anche se ritenuta utile e positiva, è in realtà scelta
lesiva della possibile intesa e unità con se stessi, distruttiva di ciò che
potrebbe nascere e crescere dall'incontro e dal dialogo con la propria
interiorità che quel sentire propone, è scelta innaturale, diretta contro la
propria natura.
venerdì 1 settembre 2017
Non mente mai
domenica 6 agosto 2017
Con le buone o con le cattive
In presenza di malessere interiore si verifica un
conflitto tra la componente cosiddetta conscia dell'individuo, tutta
sbilanciata dalla parte di ciò che crede di conoscere e su cui è abituata a
fare leva, protesa a difenderne la continuità e a far valere lo status quo e la
sua interiorità, la parte intima e a fin di bene, perché non accada il peggio.
Il peggio per l'individuo è di procedere illuso di sapere e di conoscere ciò
che va difeso a oltranza e mantenuto nel proprio interesse, in realtà senza
capire cosa sta davvero facendo di se stesso, in realtà senza ancora aver
conosciuto nulla di se stesso e del proprio potenziale. In questa situazione di
conflitto, in cui la parte profonda, aprendo la crisi, spinge perché si produca
un profondo quanto salutare cambiamento, in cui col malessere preme perché
l'individuo si coinvolga per intero, ceda a far sua questa necessità di
trasformazione, ne prenda coscienza e cooperi per produrla, accade invece che
l'individuo, ignaro di questi perché del malessere, di queste ragioni della
propria interiorità, convinto di sapere già con certezza cosa va affermato e
mantenuto, si aspetti in genere che a cambiare debba essere la propria
interiorità, che sia pronto a battersi per ottenere questo. L'individuo in
genere auspica, persuaso di avere tutte le ragioni dalla sua, che la sua
interiorità, che insiste nel proporre qualcosa di interiormente difficile e
sofferto, si rimetta in riga, smetta di dare fastidi e tormento, smetta di
intralciare. Anzi l'individuo vorrebbe che le proprie risposte interiori
fossero concordi e solidali, di appoggio e non di ostacolo al suo sforzo, alla
sua pretesa di perseguire i risultati e le prestazioni giudicate normali
e positive secondo modelli e idee comuni. Con le buone o con le cattive. C'è
chi trova che evadere e non dare peso, non concedersi alla presa del malessere
e non esserne impensieriti, sia la scelta giusta e vantaggiosa. E' come dire a
se stessi, alla propria interiorità: tu mi rompi e insidi la mia tranquillità e
buon umore, ostacoli la mia voglia di procedere indisturbato, il mio diritto di
stare bene e io ti ignoro, non ti do peso. C'è chi, vedendosela brutta, perché
l'interiorità sa essere cocciuta, cerca nei farmaci, previo il verdetto di
qualche psichiatra o figura simile, che con la diagnosi, con l'apposizione di
una etichetta dia l'illusione che sul (presunto) guasto ci sia finalmente una presa
sicura, lo strumento per zittire e per raddrizzare la parte di sé che non vuole
tacere. C'è chi ancora cerca una terapia psicologica, che, come quelle di tipo
cognitivo comportamentale, oggi assai in voga, prometta di aggiustare presto le
cose, affidandosi a chi diriga e impartisca istruzioni e schemi di nuovo
comportamento, tecniche per imbrigliare o per correggere quelle che paiono
soltanto anomale risposte, paure di troppo e assurde, strani grovigli, cadute
di fiducia inspiegabili e nocive. Tecniche terapeutiche, a volte dai nomi
suggestivi e catturanti, che parlano di strategie e di modifiche in tempi brevi
dei modi di pensare e di reagire, giudicati sbagliati, in gergo tecnico
"disfunzionali", sembrano il toccasana, il sostituto del rimedio
chimico, ma per ottenere il più in fretta possibile lo stesso risultato: porre
fine a esperienze interiori che sembrano solo una sciagura e un modo guasto di
sentire, di reagire, di vivere, ottenere che tutto giri nel verso giudicato
sano e positivo. Per finire c'è chi, disposto a seguire un cammino di ricerca
più impegnativo, vorrebbe essere aiutato a trovare la causa del suo malessere,
partendo sempre, né più né meno di chi ha scelto le strade dette prima, dal
presupposto che la propria esperienza interiore stia dando segni di guasto e di
malfunzionamento. La causa sarebbe quel fattore x, preferibilmente rinvenibile
nel proprio passato, che nella forma di un cattivo condizionamento, di una
influenza negativa, di un affetto negato o esercitato in modo distorto da
familiari o simili, di un trauma, avrebbe inceppato e reso anomalo il proprio
sviluppo, lasciato tracce e conseguenze ancora presenti. Insomma l'idea di
fondo è che tutto avrebbe dovuto svolgersi e svilupparsi regolarmente e bene e
che qualcosa abbia scassato il meccanismo. L'idea è che nell'esperienza
interiore disagevole di oggi ci siano i segni di un torto patito, che ci
siano i modi di rispondere emotivi dettati e insiti in esperienze negative
trascorse, che tendono a ripetersi, a permanere. Trovata la causa pare trovata
la via di uscita, l'occasione per liberarsi di quelle reazioni e risposte
emotive, per saldare il conto, per affrancarsi finalmente da quelle ombre del
passato, per mettere a tacere il proprio malessere interiore. Poco importa che
(succede in non poche psicoterapie che vorrebbero definirsi di tipo analitico),
dopo aver trovato la causa, cosa che se da un lato fa contento lo
psicoterapeuta, che può dimostrare di aver saputo svolgere il suo compito,
dall'altro pare dare sollievo immediato all'individuo in terapia, che può dirsi
che ora sa, che ha capito, che è andato finalmente alla radice del problema,
accada non raramente che la sua esperienza interiore continui a riservargli la
sgradita presenza di una inquietudine, di un malessere che non demorde, che
ancora la sua esperienza viva interiore rimanga ai suoi occhi alla fin fine
qualcosa di scomodo e fastidioso da fronteggiare. A questo punto la risposta
dell'individuo, la sua auto rassicurazione è che ora potrà gestire meglio le
sue emozioni, le sue esperienze interiori. Gestire come si gestisce un
meccanismo, una cosa appunto, da tenere a bada. La scoperta della causa gli
fornisce il mezzo per rispondere all'esperienza interiore difficile con un
atteggiamento del tipo: adesso so perché sento questa ansia, so perché reagisco
così, non perderò il controllo, aspetterò che si moderi, cercherò di
conviverci. In sostanza accade che, dal momento della individuazione della
presunta causa, al proprio sentire si metta sopra una spiegazione fissa, la
spiegazione di causa e effetto elaborata in psicoterapia, senza ascoltarlo ogni
volta in ciò che ha da dire, che vuole rendere tangibile e riconoscibile in
quel momento, cosa peraltro che non gli è stata concessa e garantita
neppure nella fase della ricerca della causa. In questi casi, non certo
rari, il rapporto con se stessi non è cambiato, da un lato c'è il ragionamento
che ha sistemato le sue idee e convinzioni, illuso di avere chissà quale nuova
consapevolezza e dall'altro continua a esserci un'interiorità con cui permane
incapacità di apertura, di sintonia e di incontro, con cui non c'è dialogo e
confidenza. Ancora c'è un sentire, il proprio sentire, che in ciò che dice
continua a non essere ascoltato, a essere spiegato con formule rigide, a non essere
compreso nel suo linguaggio, in ciò che vuole fare toccare con mano e
conoscere, in ciò che vuole comunicare. Ahimè l'interiorità in un caso o
nell'altro, presa con le buone o con le cattive, continua a essere oggetto di
incomprensione e della pretesa che in qualche modo cambi, che si
"aggiusti", che si normalizzi. E' davvero un paradosso, la propria
interiorità è la parte del proprio essere, tutt'altro che scriteriata e
inaffidabile e da tenere a bada, che, se compresa, potrebbe come è nelle sue
intenzioni (col sentire, con tutti gli svolgimenti interiori, non certo
insensati, con i sogni) guidare, con fermezza, lucidità e saggezza, al
cambiamento, che vorrebbe dare linfa, spinta e occasione per avvicinarsi a sé,
per conoscersi davvero e apertamente, per vedere con i propri occhi e non
attraverso la lente dei giudizi convenzionali e comuni, per trovare le proprie
ragioni d'esistenza, per trasformare il proprio pensiero da astratto e
convenzionale a pensiero vivo, originale e fondato e invece... Invece si chiede
proprio alla parte interiore di sé, la più preziosa, valida e capace, di
mettersi in riga, di ritornare finalmente a uno stato di "normale"
funzionamento, lasciando l'altra parte in pace e libera di proseguire, non
importa se, in assenza di guida propria, a rimorchio di idee, di schemi e di
valori presi in prestito e preconfezionati, con l'illusione di sapere e di
decidere, in realtà senza comprensione dei significati veri insiti nelle
proprie esperienze, senza verifica e scoperta di ciò che per sé vale davvero,
senza conoscenza profonda di se stessi e di ciò che di sé vorrebbe vivere e
realizzarsi. L'interiorità che potrebbe ridare all'individuo la sua vera
identità e il suo bagaglio di idee e di passioni autentiche e fondate, che
potrebbe condurlo a trovare, a generare tutto ciò che gli manca per essere
individuo completo e autonomo, deve solo tacere e mettersi in riga. Con le
buone o con le cattive, perché le cose rimangano quelle di sempre, normali,
regolari, in buona intesa con altri e con tutto, fuorché con se stessi.