In presenza di malessere interiore si verifica un
conflitto tra la componente cosiddetta conscia dell'individuo, tutta
sbilanciata dalla parte di ciò che crede di conoscere e su cui è abituata a
fare leva, protesa a difenderne la continuità e a far valere lo status quo e la
sua interiorità, la parte intima e a fin di bene, perché non accada il peggio.
Il peggio per l'individuo è di procedere illuso di sapere e di conoscere ciò
che va difeso a oltranza e mantenuto nel proprio interesse, in realtà senza
capire cosa sta davvero facendo di se stesso, in realtà senza ancora aver
conosciuto nulla di se stesso e del proprio potenziale. In questa situazione di
conflitto, in cui la parte profonda, aprendo la crisi, spinge perché si produca
un profondo quanto salutare cambiamento, in cui col malessere preme perché
l'individuo si coinvolga per intero, ceda a far sua questa necessità di
trasformazione, ne prenda coscienza e cooperi per produrla, accade invece che
l'individuo, ignaro di questi perché del malessere, di queste ragioni della
propria interiorità, convinto di sapere già con certezza cosa va affermato e
mantenuto, si aspetti in genere che a cambiare debba essere la propria
interiorità, che sia pronto a battersi per ottenere questo. L'individuo in
genere auspica, persuaso di avere tutte le ragioni dalla sua, che la sua
interiorità, che insiste nel proporre qualcosa di interiormente difficile e
sofferto, si rimetta in riga, smetta di dare fastidi e tormento, smetta di
intralciare. Anzi l'individuo vorrebbe che le proprie risposte interiori
fossero concordi e solidali, di appoggio e non di ostacolo al suo sforzo, alla
sua pretesa di perseguire i risultati e le prestazioni giudicate normali
e positive secondo modelli e idee comuni. Con le buone o con le cattive. C'è
chi trova che evadere e non dare peso, non concedersi alla presa del malessere
e non esserne impensieriti, sia la scelta giusta e vantaggiosa. E' come dire a
se stessi, alla propria interiorità: tu mi rompi e insidi la mia tranquillità e
buon umore, ostacoli la mia voglia di procedere indisturbato, il mio diritto di
stare bene e io ti ignoro, non ti do peso. C'è chi, vedendosela brutta, perché
l'interiorità sa essere cocciuta, cerca nei farmaci, previo il verdetto di
qualche psichiatra o figura simile, che con la diagnosi, con l'apposizione di
una etichetta dia l'illusione che sul (presunto) guasto ci sia finalmente una presa
sicura, lo strumento per zittire e per raddrizzare la parte di sé che non vuole
tacere. C'è chi ancora cerca una terapia psicologica, che, come quelle di tipo
cognitivo comportamentale, oggi assai in voga, prometta di aggiustare presto le
cose, affidandosi a chi diriga e impartisca istruzioni e schemi di nuovo
comportamento, tecniche per imbrigliare o per correggere quelle che paiono
soltanto anomale risposte, paure di troppo e assurde, strani grovigli, cadute
di fiducia inspiegabili e nocive. Tecniche terapeutiche, a volte dai nomi
suggestivi e catturanti, che parlano di strategie e di modifiche in tempi brevi
dei modi di pensare e di reagire, giudicati sbagliati, in gergo tecnico
"disfunzionali", sembrano il toccasana, il sostituto del rimedio
chimico, ma per ottenere il più in fretta possibile lo stesso risultato: porre
fine a esperienze interiori che sembrano solo una sciagura e un modo guasto di
sentire, di reagire, di vivere, ottenere che tutto giri nel verso giudicato
sano e positivo. Per finire c'è chi, disposto a seguire un cammino di ricerca
più impegnativo, vorrebbe essere aiutato a trovare la causa del suo malessere,
partendo sempre, né più né meno di chi ha scelto le strade dette prima, dal
presupposto che la propria esperienza interiore stia dando segni di guasto e di
malfunzionamento. La causa sarebbe quel fattore x, preferibilmente rinvenibile
nel proprio passato, che nella forma di un cattivo condizionamento, di una
influenza negativa, di un affetto negato o esercitato in modo distorto da
familiari o simili, di un trauma, avrebbe inceppato e reso anomalo il proprio
sviluppo, lasciato tracce e conseguenze ancora presenti. Insomma l'idea di
fondo è che tutto avrebbe dovuto svolgersi e svilupparsi regolarmente e bene e
che qualcosa abbia scassato il meccanismo. L'idea è che nell'esperienza
interiore disagevole di oggi ci siano i segni di un torto patito, che ci
siano i modi di rispondere emotivi dettati e insiti in esperienze negative
trascorse, che tendono a ripetersi, a permanere. Trovata la causa pare trovata
la via di uscita, l'occasione per liberarsi di quelle reazioni e risposte
emotive, per saldare il conto, per affrancarsi finalmente da quelle ombre del
passato, per mettere a tacere il proprio malessere interiore. Poco importa che
(succede in non poche psicoterapie che vorrebbero definirsi di tipo analitico),
dopo aver trovato la causa, cosa che se da un lato fa contento lo
psicoterapeuta, che può dimostrare di aver saputo svolgere il suo compito,
dall'altro pare dare sollievo immediato all'individuo in terapia, che può dirsi
che ora sa, che ha capito, che è andato finalmente alla radice del problema,
accada non raramente che la sua esperienza interiore continui a riservargli la
sgradita presenza di una inquietudine, di un malessere che non demorde, che
ancora la sua esperienza viva interiore rimanga ai suoi occhi alla fin fine
qualcosa di scomodo e fastidioso da fronteggiare. A questo punto la risposta
dell'individuo, la sua auto rassicurazione è che ora potrà gestire meglio le
sue emozioni, le sue esperienze interiori. Gestire come si gestisce un
meccanismo, una cosa appunto, da tenere a bada. La scoperta della causa gli
fornisce il mezzo per rispondere all'esperienza interiore difficile con un
atteggiamento del tipo: adesso so perché sento questa ansia, so perché reagisco
così, non perderò il controllo, aspetterò che si moderi, cercherò di
conviverci. In sostanza accade che, dal momento della individuazione della
presunta causa, al proprio sentire si metta sopra una spiegazione fissa, la
spiegazione di causa e effetto elaborata in psicoterapia, senza ascoltarlo ogni
volta in ciò che ha da dire, che vuole rendere tangibile e riconoscibile in
quel momento, cosa peraltro che non gli è stata concessa e garantita
neppure nella fase della ricerca della causa. In questi casi, non certo
rari, il rapporto con se stessi non è cambiato, da un lato c'è il ragionamento
che ha sistemato le sue idee e convinzioni, illuso di avere chissà quale nuova
consapevolezza e dall'altro continua a esserci un'interiorità con cui permane
incapacità di apertura, di sintonia e di incontro, con cui non c'è dialogo e
confidenza. Ancora c'è un sentire, il proprio sentire, che in ciò che dice
continua a non essere ascoltato, a essere spiegato con formule rigide, a non essere
compreso nel suo linguaggio, in ciò che vuole fare toccare con mano e
conoscere, in ciò che vuole comunicare. Ahimè l'interiorità in un caso o
nell'altro, presa con le buone o con le cattive, continua a essere oggetto di
incomprensione e della pretesa che in qualche modo cambi, che si
"aggiusti", che si normalizzi. E' davvero un paradosso, la propria
interiorità è la parte del proprio essere, tutt'altro che scriteriata e
inaffidabile e da tenere a bada, che, se compresa, potrebbe come è nelle sue
intenzioni (col sentire, con tutti gli svolgimenti interiori, non certo
insensati, con i sogni) guidare, con fermezza, lucidità e saggezza, al
cambiamento, che vorrebbe dare linfa, spinta e occasione per avvicinarsi a sé,
per conoscersi davvero e apertamente, per vedere con i propri occhi e non
attraverso la lente dei giudizi convenzionali e comuni, per trovare le proprie
ragioni d'esistenza, per trasformare il proprio pensiero da astratto e
convenzionale a pensiero vivo, originale e fondato e invece... Invece si chiede
proprio alla parte interiore di sé, la più preziosa, valida e capace, di
mettersi in riga, di ritornare finalmente a uno stato di "normale"
funzionamento, lasciando l'altra parte in pace e libera di proseguire, non
importa se, in assenza di guida propria, a rimorchio di idee, di schemi e di
valori presi in prestito e preconfezionati, con l'illusione di sapere e di
decidere, in realtà senza comprensione dei significati veri insiti nelle
proprie esperienze, senza verifica e scoperta di ciò che per sé vale davvero,
senza conoscenza profonda di se stessi e di ciò che di sé vorrebbe vivere e
realizzarsi. L'interiorità che potrebbe ridare all'individuo la sua vera
identità e il suo bagaglio di idee e di passioni autentiche e fondate, che
potrebbe condurlo a trovare, a generare tutto ciò che gli manca per essere
individuo completo e autonomo, deve solo tacere e mettersi in riga. Con le
buone o con le cattive, perché le cose rimangano quelle di sempre, normali,
regolari, in buona intesa con altri e con tutto, fuorché con se stessi.
domenica 6 agosto 2017
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il punto critico
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Il percorso analitico
venerdì 17 giugno 2016
Apertura e intelligenza
Cosa richiede il malessere interiore, quale
cura? In due parole direi: apertura e intelligenza. Il malessere interiore è
ispirato e tenuto vivo dalla parte più intelligente e lungimirante
dell'individuo, anche se frequentemente ignorata e sottovalutata, anche se
malintesa e spesso bistrattata. Il profondo, l'inconscio non cessa di avanzare
proposte intelligenti, ispirate non già dalla preoccupazione di sistemare alla
bell'e meglio le cose, di mantenere integro e in buona forma, di dare conferme
a un modo di procedere e un'idea di se stessi imperanti, che non vorrebbero
intralci, che si considerano insostituibili, ma viceversa dal proposito di
parlar chiaro e sincero, di non tacere contraddizioni e vuoti, di spingere
verso cambiamenti importanti, fedeli a se stessi profondamente e dalle solide
fondamenta. L'inconscio non è perso dietro illusioni, vuole non seppellire la
consapevolezza, vuole che adulti si diventi nel segno di dare al mondo il
proprio e non di farsi dire cosa inseguire e come essere per ricevere conferma
o plauso. L'inconscio vuole consapevolezza, vuole che ci sia crescita vera, è
un pungolo, è un maestro esigente, cui non fanno difetto il coraggio e la
determinazione, l'intelligenza e la saggezza. Per corrispondergli, per non
remargli contro è necessario dare apertura e non chiusura ostile e pregiudizio.
E' necessario disporsi a conoscere e a capire, a fare un lavoro attento e
approfondito, senza scorciatoie e senza inganni, senza semplificazioni, senza i
bluff e gli imbrogli del ragionamento, del modo di pensare razionale, che non
ha supporto e che non cerca guida nel sentire. Ci vuole intelligenza, perchè è
sul piano del pensare intelligente e riflessivo, che guarda (come guardandosi
allo specchio, riflessivamente) nell'intimo di se stessi e della propria
esperienza, che si muove l'inconscio, che si svolge la sua iniziativa, che si
esprimono sia i sogni che i vissuti, gli stati d'animo e le emozioni, che tutto
il corso della vicenda interiore, che l'inconscio regola e governa. La cura del
malessere e della crisi interiore, il prendersi cura di se stessi in due
parole: apertura e intelligenza. Quanto manchino nei modi di prendersi cura più
abituali, nei metodi di cura più frequenti è sotto gli occhi di tutti. Ne sono
esempio l'utilizzo sempre più esteso di psicofarmaci, cioè di armi
chimiche per tentare di mettere a tacere e in riga come fossero bizzarrie e
assurdità, anomalie e disturbi, i richiami e i segnali interiori intelligenti
(anche se sofferti, anche se non piacevoli), la proposta assai diffusa di
psicoterapie direttive, che vorrebbero condurre a correggere e a riplasmare le
risposte interiori (non comprese nel loro vero significato e intendimento,
assolutamente opportuni e intelligenti) ritenute, senza dubbi e esitazioni,
"disfunzionali", cioè immotivate, irrazionali, sfavorevoli. Il
malessere interiore, vissuto e interpretato spesso (da chi lo vive, ma anche
anche dai modi delle cure prevalenti) come presenza nemica, come minaccia e
ostacolo da eliminare, se ben compreso in ciò che vuole dire, promuovere e
aprire, va contro e attenta in realtà a un'unica cosa, alla chiusura mentale e
al rifiuto di spendersi per se stessi in coraggio e in intelligenza.