domenica 16 luglio 2017

Felicità rubata? Incapacità di essere felici?

Accade non di rado che si lamenti una sorta di incapacità di gioire di ciò che, già presente nella propria vita o a portata di mano, si ritiene essere giusto e valido motivo di soddisfazione. Inquietudine interiore, malessere e apprensione, sembrano malamente insidiare o derubare se stessi del diritto, come tale è vissuto, di godere della vita e di ciò che parrebbe desiderabile e soddisfacente. E' una sfortuna e una maledizione che ci sia una parte del nostro essere che, non dando credito a ciò che ostinatamente vorremmo farci credere, che guardando con disincanto e con acume critico ciò che ci siamo proposti come ideale, casomai tutto dentro guide di senso e schemi di valore comuni, segnala che non c'è lì, nel raggiungimento e nella difesa di simili traguardi, vero motivo di gioire e di cantare vittoria? Dobbiamo per intero a noi stessi questa stonatura, questa divergenza di sguardo e di opinioni. Lo dobbiamo al fatto che non siamo (per nostra fortuna) solo calcolo e ragione, mezzi spesso utilizzati solo per stare in riga e per ripetere luoghi comuni, per andare al traino di modi condivisi di pensare, azzerando ogni impegno di vedere e di capire con la nostra testa. Una parte di noi stessi, che ci parla e che si fa valere in noi attraverso stati d’animo, vissuti interiori e emozioni, ha capacità di vedere con maggior autonomia e capacità critica ciò che la nostra parte cosciente da sola non è disposta e capace di mettere in questione oltre che di intendere. C'è una tendenza allo sfascio, c'è una patologica tendenza del profondo a guastare la festa? O invece, con saggezza oltre che con puntiglio, il profondo vuole che il vero si affermi, casomai per non perdere la propria vita in realizzazioni dettate solo da conformismo e da passivo assorbimento di idee e valori? Per non finire nel buco di mete e di scopi già segnati, per non seppellire la possibilità di comprendere e di concepire da sé, autonomamente, i propri perchè e scopi, di sviluppare la presa di coscienza, la conoscenza che serve per nutrire e orientare progetti propri, per non smettere mai per tutto il corso della vita di cercare e di costruire a modo proprio, è fondamentale e provvidenziale l'azione di "disturbo" e di rottura del profondo. L'inconscio non suona la stessa musica della parte conscia e razionale, che tanto si crede intelligente e superiore alla parte interiore e “irrazionale”, quanto in realtà è spesso ottusa e inaffidabile, pericolosamente inaffidabile nell'istigare a ficcarsi nell'imbuto delle idee e dei propositi convenzionali e a soffocare come malata la voce del profondo, del sentire che dissente e che suggerisce cose vere, anche se scomode.

domenica 25 giugno 2017

Controcorrente

Controcorrente va la proposta del profondo, va il corso interiore che non dà quiete e tregua, che, deludendo le attese e le pretese della parte conscia, non concede, nello svolgersi dell'esperienza, respiro facile e movimento fluido e disteso. Pare un fastidio, ma l'inconscio, interferendo, contrappunta l’esperienza di segnali e di richiami alla presa di consapevolezza. Subito intesi e squalificati come segni di malfunzionamento, come odiosi e incomprensibili intralci, come segni di anomalo sentire (etichettati come ansia e con tante svariate diciture) sono stimoli mirati e intelligenti, sono occasioni per vedere chiaro. Sono complicazioni necessarie e salutari, dove si intenda la necessità di capire e di capirsi. Le istanze del profondo sono di fondare su di sé e su conoscenza attenta le proprie scelte, sono di comprendere ciò che sostiene e implica ogni movimento e modo di procedere, sono di non perdersi nell’illusione, di non svanire come soggetti nell’adattamento, nell’andare dietro all‘idea convenzionale, nel ripetere schemi pronti, nel cercare vita e occasioni, formazione e completamento di sé nell’adesione e nella presa dipendente su altro e su altri. La preoccupazione del profondo è di non perdere se stessi nell’inconsapevolezza, di non confondere il "normale" procedere con la propria fedele realizzazione, di non scambiare la simbiosi con altro, che sia persona o cosa o ruolo o prestazione, fisica o intellettuale, pur applaudita e comunemente ben considerata, con la propria crescita e miglior realizzazione. L’inconscio, la parte profonda di noi stessi non ammette imbrogli, non tollera autoinganni, ha a cuore il nostro originale merito e talento, che prima di tutto è capacità di visione chiara, di genuino pensiero, ha a cuore di non seppellire il nostro possibile originale apporto alla vita. La parte profonda insiste nel dare occasioni di scoperta di verità, senza censura e senza ritegno, senza risparmio e senza preoccupazione circa il fastidio e la sofferenza che la verità, che l’impegno di cercarla e di reggerla  può procurare. Non dà tregua nel dare spunti di  ricerca, perché vivere e esprimere al meglio il proprio essere significa coltivare, far nascere e crescere le proprie idee e progetti e non consumare soluzioni e idee già pronte, significa credere profondamente e amare ciò che si sostiene e si vuole far vivere e non farsi indirizzare e portare dal consenso e dalla approvazione altrui. Controcorrente va il nostro profondo per consentirci di rompere l'illusione, per darci occasione valida e piena, per coinvolgerci nella corrente della vita.

domenica 4 dicembre 2016

"Agorafobia". Qualche spunto di riflessione

Siamo creature complesse, i confini del nostro essere sono molto più ampi di quel che abitualmente si pensa. La nostra parte profonda, tutt'altro che elementare, inconsapevole e "istintiva", dando a questo termine il significato di automatica nelle sue espressioni e semplicemente ripetitiva di schemi appresi o ereditati, è ben presente e attiva nella nostra vita. Passo dopo passo ci accompagna in modo attento e intelligente, non rinunciando mai a darci (attraverso l'esperienza del sentire, nel succedersi mai casuale di emozioni e di stati d'animo, di svolgimenti interiori, sempre significativi, così come, in modo estremamente approfondito, attraverso i sogni) spunti e occasioni di presa di coscienza. E' la parte di noi stessi che non bada a trovare un adattamento qualsiasi e comunque, a far funzionare le cose secondo regole di pretesa normalità, ma che interroga come siamo e come procediamo, che riconosce l'intimo e non l'apparente, il perchè vero che ci muove nelle nostre risposte e nelle nostre scelte, che sa vedere il senso, a cosa portano. La nostra parte profonda custodisce e sa ciò di cui, come individui particolari e originali, siamo portatori e che potremmo sviluppare, ciò che ci è insito e congeniale. Non trascura di considerare il modo in cui ci stiamo facendo interpreti della nostra vita, non si lascia di certo persuadere dalle apparenze. Se la cosiddetta normalità, se l'andar dietro a modelli e a idee comuni ci sta bastando, se ci sta addormentando, se sta esaurendo la nostra ricerca, se ci sta sostanzialmente fuorviando dalla scoperta e dalla realizzazione del nostro scopo, se procediamo ciechi, cioè inconsapevoli del reale perchè e delle implicazioni di ciò che stiamo facendo, la nostra parte profonda, che ha occhi ben aperti, che è ben sveglia, non rinuncia a far sentire la sua voce, a esercitare la sua influenza con interventi, con condizionamenti interni (tipo paure e blocchi, che poi qualcuno etichetterà come fobie, come "agorafobia" ad esempio) che non sono mai casuali, mai buttati lì in modo qualsiasi. Se è ora di fermarci, perchè non ce n'è di risorsa nostra per procedere, perchè è ora di fare il pieno di consapevolezza, se è ora di venire a tu per tu con noi stessi,  in una modalità raccolta e intima per formare su basi di intesa con noi stessi un nuovo modo di vedere, di riconoscere senza autoinganni e illusioni come stiamo procedendo, guidati da che cosa, se è tempo di mettere assieme un bagaglio di convincimenti nostri e non ripetitivi d'altro, fondati, di chiarimenti circa ciò che ci è insito e congeniale e che la nostra vita potrebbe tradurre in essere, perseguire come scopo, ecco che fermare l'abituale corsa, il procedere solito e disinvolto, diventano la prima necessità, il primo segnale forte. Non è tempo di andare fuori, di disperdersi, di spingere sul rapporto con altro, con gli altri, è tempo di ritrarsi. La priorità dettata dal profondo, che crea un impedimento di paura fortissima e invalicabile all'immergersi e allo spaziare ampio nel fuori, è imparare a ripiegare, per avvicinarsi al dentro, a non staccare da lì, dallo spazio di incontro e di dialogo intimo con la propria interiorità, per coltivare con cura e veder nascere ciò che manca, per poi tornare a muoversi liberamente e a porsi in rapporto con l'esterno, con gli altri, ma con il proprio di idee e di chiarimenti, con il proprio progetto.

martedì 1 novembre 2016

L'interiorità. C'è più da ricevere e imparare che da correggere e sanare.

Ciò che la psicologia convenzionale (sia quella presente nel pensare comune, sia quella specialistica degli esperti) spesso ignora è che l'interiorità dell'individuo non è un oggetto, non è un meccanismo semplicemente reattivo e condizionato o plasmato da fattori esterni, non è componente secondaria, satellite e accessoria della parte cosiddetta conscia, ma è parte centrale e fondamentale dell'essere, parte vivacemente propositiva, è laboratorio di pensiero, è capacità di promuovere e di sviluppare pensiero. Tutta l'esperienza interiore, l'intero corso del sentire, dei vissuti, anche dei più difficili, senza distinzione e contrapposizione di normali e "anomali", è fermento di conoscenza, è traccia intelligente e guida per prendere visione e consapevolezza del proprio modo di procedere, di questioni e di nodi decisivi inerenti il proprio modo di stare in relazione con se stessi, di farsi interpreti di se stessi. Ho ripetuto non per caso quel "se stessi". Si è abituati a porre sempre al centro dell'attenzione e dell'interesse il rapporto con gli altri, col mondo esterno, con la cosiddetta realtà, mentre è spesso risolta in modo rapido e banale, se non addirittura ignorata la questione del rapporto con se stessi, come se verificare il proprio stato, avere visione chiara o meno del proprio modo di tradurre la propria vita e del perchè, di ciò che spinge a stare nella modalità e nelle espressioni di vita abituali, del loro essere fondate, comprese e scaturite da se stessi e a se stessi fedeli oppure vincolate, incoraggiate e suggerite da altro, fossero questioni marginali e secondarie. Il proprio profondo, l'inconscio dà rilievo a tutte queste questioni, le ha al centro della sua cura e del suo sguardo, esercita spinta incessante (attraverso tutto il corso del sentire e con i sogni) non già alla rincorsa e alla tutela dell'aggancio e dell'accordo, comunque sia, con l'esterno, bensì prioritariamente alla ricerca dell'incontro e del confronto con se stessi, alla scoperta del vero. I sogni in particolare, quando saputi intendere e rispettare in ciò che di originale sanno aprire, proporre e dire, testimoniano, mostrano e dimostrano la capacità straordinaria che ha l'inconscio di spingere verso la presa di coscienza, di alimentare pensiero proprio, non appiattito sul convenzionale, sul già pensato e concepito. Tutto questo, la funzione esercitata dal profondo, il potenziale della vita interiore, il significato vero degli accadimenti e degli svolgimenti interiori in tutte le loro espressioni, è spesso ignorato e frainteso. Si cercano cause, si ipotizzano carichi eccessivi di stress o altro per spiegare vicissitudini interiori, situazioni di sofferenza nelle quali non si sa vedere l'iniziativa dell'inconscio e la traduzione in essere di un lavorio interiore per portare l'individuo a convergere col suo profondo nella presa di visione della verità del proprio stato, per individuare i nodi decisivi su cui lavorare. Una delle questioni decisive su cui l'inconscio soprattutto nei sogni è attivo nel dare segnali, nell'esercitare forti pressioni perchè sia resa consapevole, è quella della passività dell'individuo, della sua tendenza a aderire a modalità di pensiero, a usare di attribuzioni di significato date per acquisite e certe, che non hanno trovato matrice, formazione e verifica dentro di lui su base d'esperienza, di vissuti, ma che sono stati passivamente assorbiti, presi in prestito e riprodotti, pur con la persuasione illusoria di esercitare attivamente proprio pensiero. La tendenza a seguire, a farsi portare, a valersi di guide e di riferimenti tutti esterni è questione non di poco conto. Così facendo l'individuo diventa gregario, replicante e copia d'altro, pur portando avanti la persuasione di essere libero, pensante e autonomo. La componente interiore e profonda non ignora lo stato vero delle cose, sa che in quell'andare dietro, in quel farsi portare, in quel riprodurre qualcosa di già definito e modellato c'è il perdersi di sè, della propria potenzialità di formare pensiero autonomo e fondato, di aprire percorsi, di concepire e di sviluppare progetti originali. Una vita sprecata, una finzione di vita, che si regge su altro che la conferma e tiene su, un misero surrogato di vita. Stare dentro una parte, rendersi forti del supporto e della convalida che arrivano dall'esterno, rassicurati  dal senso comune, è il surrogato di una vita, che viceversa potrebbe nascere e svilupparsi da propria presa di coscienza, da scoperta e da utilizzo di propria originale facoltà di pensiero e progettuale. L'inconscio non ci sta a scambiare l'illusione per verità, il prodotto surrogato per l'originale autentico e pieno. L'inconscio non cessa di premere per far vivere ciò che è più prezioso di qualsiasi quieto adattamento e riuscita esterna, l'aprirsi e l'affermarsi del proprio sguardo, la comprensione del vero. Non c'è momento e espressione della vita interiore, anche la più insolita,"contorta"(in apparenza) o tribolata, che non voglia, che non sappia (se compresa fedelmente e con intelligenza e non ottusamente giudicata secondo criteri di normalità e efficienza) condurre a aprire gli occhi sul vero. Purtroppo il significato della vita interiore, dell'esperienza interiore, è davvero poco o nulla conosciuto. Lo stato e il corso della vita interiore non sono il riflesso o la semplice conseguenza di cause e di fattori esterni incidenti che li determinano e condizionano, l'interiorità è propositiva, è tenacemente e sapientemente propositiva e intraprendente. I punti di forza e affidabili per l'individuo non sono la sua facoltà di ragionamento e la sua volontà, quando, come spesso accade, scissi dal sentire e dall'interiorità. Senza legame con la propria interiorità, senza l'apporto del profondo, l'individuo è fatalmente orfano di se stesso, privo di capacità di vedere e di pensare autonomamente, di compiere e di sostenere scelte fedelmente corrispondenti a se stesso.

martedì 25 ottobre 2016

Maledetta ansia? Le tue radici

Se ti ascoltassi, se smettessi di lagnarti e cercassi in ciò che senti non i sintomi di una malattia o di una condizione abnorme, ma una voce, se ti facessi aiutare in questo da chi sapesse aprirti all'incontro e al dialogo con te stesso, alla comprensione del linguaggio interiore, potresti cominciare a raccogliere segnali utilissimi e preziosi di verità dove ora vedi solo disturbo. Forse dentro di te sta patendo, languendo un modo di esistere, perchè è fatale che senza contatto e unità con tutto il tuo essere, che senza legame con le tue radici profonde la tua vita non ha possibilità di essere tale. Se sinora tutte le espressioni del tuo esistere sono andate nel fare e nell'esprimerti in modi che sapessero convincere e piacere agli altri e all'ambiente, nell'interagire in modo prevalente o esclusivo con altri e con situazioni esterne, nel rispondere a stimoli e nel tener dietro a ritmi, a temi e a tempi dettati da fuori, incurante del rapporto col tuo intimo, col tuo sentire, della necessità dell'ascolto e della comprensione attenta e fedele di ciò che via via ti diceva e proponeva, forse accade che tutto questo stia diventando per una parte di te, intima e profonda, insopportabile oltre che preoccupante per ciò che può implicare nel tempo. L'unica realtà degna di considerazione e di credito ti è sembrata essere quella esterna, regolata da esigenze e da logica sue, l'unico pensiero quello mutuato e preso in prestito da lì, seppur rigirato e rifinito da tuoi ragionamenti in apparenza originali, autonomi, l'unica preoccupazione quella di non perdere contatto e vicinanza col fuori, dell'accordo con altri e con altro, senza cura dell'accordo e della vicinanza con te stesso. Da tempo però si è accentuata  fino al parossismo nel tuo vissuto la sottolineatura emotiva, che non ti dà tregua, del tuo rincorrere la riuscita con animo sospeso, con cataclismi di apprensione, di paura di esiti rovinosi, di angoscia di fallire e di crollare. In questa rincorsa, in questa pena ti è fatto intendere, se l'ascolti, che manca qualcosa. Tutto interiormente concorre a dirti che manca qualcosa di fondamentale, che quella non è vita, che su quelle basi, di un fuori che ti tira, di un modello preimpostato e preconcetto che pretende di governare il tuo dentro, rendendolo solo esecutivo e riproduttivo d'altro, guardiano del suo regolare funzionamento, è penoso vivere. A te in realtà premerebbe cancellare, mettere a tacere tutte queste esperienze interiori penose, che non ti danno tregua e respiro, liquidandole (da solo e con l'ausilio di altri, esperti e non, pronti a concordare con questo proposito) col marchio "ansia" o con altre etichette diagnostiche, per tornare a prima, senza tanti ripensamenti, senza interesse per la verifica attenta, per la comprensione lucida e approfondita, sincera e senza trucchi, sia del tuo modo abituale di procedere, sia del senso e della finalità di ciò che interiormente ti sta tenendo sulla corda e dando disagio. Forse finora saper stare al passo con gli altri e mostrare volto felice e possesso di modalità adeguate, che gli altri potessero apprezzare e confermarti, ti è bastato per sentirti a posto, soddisfatto, completo. Da tempo tra te e il tuo modo abituale di procedere, considerato normale e valido, senza alternative possibili, si è messo in mezzo un terzo incomodo, una parte di te profonda, che di tutto ciò che senti è artefice e regolatrice. Sei ostile a ciò che ti accade interiormente, lo vivi come infelice sorte, come corso anomalo, come fastidioso intralcio, come disturbo che ti auguri cessi e punto. Nulla di ciò che ti accade interiormente, se non lo travisi, è però sciagurato o insensato, anzi è prezioso indicatore, occasione per capirti, per aprire gli occhi. Il tuo malessere interiore, ciò che ostinatamente si fa sentire in te è sì un intralcio e un freno, ma indispensabile per comprendere cosa davvero è e implica il tuo modo di procedere, per sentire intensamente la necessità e per riconoscere i perchè di una trasformazione decisiva per non negarti a te stesso, quella di imparare a pensare e a vivere con e ben connesso alle tue radici, al tuo profondo. Primo passo di questa trasformazione che puoi impegnarti a compiere è un cambio di atteggiamento verso te stesso e ciò che sperimenti dentro di te. Se liquidi tutto come spazzatura, se, andando dietro il coro, fai tua l'idea che ciò che senti come ansia ecc. è solo un disturbo da correggere, da cui sperare di liberarti, se non riconosci in ciò che ti accade interiormente l'esperienza intima vissuta di qualcosa da capire, momento vivo di un avvicinamentio alla conoscenza di te, di riflessione su di te, rischi di accentuare soltanto l'incomprensione e la scissione da te. Una parte di te ti sta dando segnali utili per ripensarti e per capirti, se li invalidi, se li squalifichi pensando che sia solo maledetta ansia da far passare, che ti faccia solo danno, puoi ben intuire cosa di favorevole stai o meno promuovendo e offrendo a te stesso. L'intimo e il profondo del tuo essere, le tue radici sono fondamentali per esistere e oggi il tuo profondo ti fa provare patimento, ti dà con forza segni vivi, che ancora non vuoi e non sai cogliere, di insostenibilità del tuo stare lontano e scisso da te, adeso al fuori più che al dentro, alle tue radici, segni che aspettano di essere compresi e non scioccamente rigettati o travisati. 

giovedì 22 settembre 2016

il punto critico

Un'esperienza di sofferenza interiore raggiunge spesso il punto critico quando l'individuo, nel rapporto col suo sentire, con ciò che vive interiormente, non dà (e ripetutamente) risposta improntata all'ascolto e protesa alla ricerca del senso e del vero, portati dal proprio sentire, perciò alla salvaguardia dell'unità con se stesso, ma una risposta di paura e di insofferenza, di rifiuto e di fuga, persino di squalifica di ciò che la sua interiorità gli propone con forza, giudicato semplicemente sbagliato, anomalo e assurdo. La conseguenza di un simile atteggiamento è rilevante, perché genera rottura dell'unità del proprio essere, senza che di questo e della sua gravità l'individuo si renda consapevole. Affermazioni come quelle circa la necessità innanzitutto di combattere l'ansia, l'umore depresso, il malessere interiore nelle sue diverse espressioni, sembrano talmente ovvie, sostenute dall'idea, altrettanto in apparenza scontata, che sia in atto un processo negativo, sfavorevole o pericolosamente  malato, che passa del tutto inosservato che quanto si sta mettendo in atto nel rapporto con se stessi è l'espressione di un colossale travisamento. L'individuo è convinto di sapere già cosa sia il meglio e l'irrinunciabile per se stesso, così come di mobilitare le energie migliori per confrontarsi con ciò che sta vivendo. Si sforza di darsi una spiegazione dell'insieme di ciò che sta provando interiormente, spesso trattato più come strano meccanismo da regolare, che come propria intima esperienza e sensibilità viva da valorizzare e da ascoltare, da imparare (facendosi casomai aiutare in questo) a comprendere in ciò che originalmente sa e vuole comunicare, dire, far capire di se stessi. Il pensare, spiegare e argomentare razionale pare la migliore risposta all'esigenza di capire. Quanto siano affidabili e fondate simili spiegazioni e  argomentazioni è tutto da vedere. Un argomento ricorrente quando l'individuo vive una condizione di malessere interiore è ad esempio che non ci sono motivi reali per le ansietà o per la sfiducia e abbattimento che prova, per lo stato di tensione implacabile che sta vivendo. Lo sguardo si rivolge subito all'esterno, agli altri, al pensare comune per stabilire ciò che è vivibile, comprensibile e accettabile, espressione di un sano sentire e normale, bocciando subito e mettendo in quarantena ciò che, sofferto e difficile, si sta provando interiormente, bollato come insano, non a norma. Analogamente, mentre lo sguardo ancora va all'esterno a considerare situazioni, circostanze e  fattori concreti per cercare l'origine o il perchè del malessere, il giudizio si avvale di criteri e di parametri comuni per stabilire ciò che può essere influente, compatibile o meno con uno stato di ipotetico benessere. Avere ciò che ai più pare desiderabile e normale, rispecchiarsi nel modo di procedere ritenuto comunemente valido e con tutti gli accessori del presunto e del preteso benessere in regola, sembra condizione sufficiente per pretendere di dettare al proprio sentire risposta consenziente, docile alla attesa che tutto sia a posto. Interiormente, per fortuna, non siamo nè superficiali, nè ottusi, tanto meno gregari rispetto a idee comuni e prevalenti nel pensare e nel valutare ciò che ci riguarda. Il malessere, l'inquietudine interiore sono lo scotto da pagare, sono il riscontro vivo del diverso punto di vista e modo di vedere la propria realtà della propria interiorità, del proprio profondo, di comprendere il presente e il futuro verso cui si è portati dai propri modi di procedere e dal proprio stato di crescita vera o di immaturità,  spesso di sostanziale assenza di capacità di capirsi, di riconoscere il vero, di farsi interpreti fedeli di se stessi. Si insiste nel voler mettere a posto le cose con ogni mezzo ritenuto curativo, con gli psicofarmaci prima di tutto, con psicoterapie direttive, che definirei correttive (le psicoterapie di impronta cognitivo comportamentale, oggi molto diffuse, che vorrebbero mettere a tacere, superare e sostituire i vissuti, le risposte e le esperienze interiori sofferte e disagevoli di cui stiamo parlando, giudicate irragionevoli, per sè dannose, "disfunzionali" con altre giudicate più congrue e  favorevoli ) o con psicoterapie solo in apparenza introspettive e volte alla conoscenza interiore, ma che spingono spesso e dall'inizio nella unica direzione della normale ripresa, dell'individuazione di una qualche causa per far tornare tutto, con qualche aggiustamento, al normale solito assetto. Si vuol tornare (senza che questo appaia rilevante, senza avere chiara consapevolezza delle reali implicazioni) a vivere su basi solite e immutate, date per auspicabili e favorevoli, che sono però spesso di adesione ad altro e di dipendenza da altro, di mancanza di visione propria autonoma e corrispondente a se stessi, di mancanza di capacità di dialogo e di intesa con la propria interiorità. Non si vuole intendere che le cose non sono a posto alla radice, che non lo sono affatto secondo una visione più attenta, approfondita e lungimirante, come quella esercitata e sostenuta dall'inconscio, che non per caso agita interiormente le acque, che non lo sono secondo una visione più onesta e disinteressata, non viziata da voglia di far proseguire le cose senza chiarire in profondità cosa questo significhi e implichi, da docilità e da dipendenza da modi comuni e precostituiti, già confezionati di pensare e di concepire la vita. La parte profonda di se stessi non è né cieca né dispettosa, nemmeno assurdamente intransigente, quel che è vero è che non accetta il sacrificio dell'intelligenza, che non accetta la propria rinuncia a se stessi e a far vivere ciò che si potrebbe, originale, vero, proprio. Il punto critico di rottura è su questo, la cosa "tragica" è che la parte di se stessi, più consapevole e attenta alle proprie esigenze vitali, che vuole dare lo stimolo e la guida al cambiamento, è quella spesso sbrigativamente liquidata come insana, come dannosa, come incapace di stare alla regola del vivere accomodato, illusorio, non compreso alla radice, del vivere senza verità, senza autenticità e pienezza di se stessi, senza possibilità di mettere al mondo il proprio. Non siamo solo ciò che ragioniamo, che facciamo e su cui insistiamo come non ci fosse altro di noi e dentro di noi. Comprendere di essere di più di ciò che ragionamento e volontà sembrano già dare alla propria vita di illusoriamente chiaro, sostanziale e sufficiente, scoprire e toccare con mano che una parte di se stessi, profonda, ha capacità e intenzione di ridare a se stessi il proprio, prima di tutto formando e sviluppando la propria capacità di vedere e di riconoscere il vero, senza distorsioni e veli, è l'occasione offerta da un valido lavoro su se stessi, da una scelta di cura vera, di cura dei propri interessi vitali.

domenica 19 giugno 2016

Il percorso analitico

A dispetto delle apparenze e delle convinzioni più diffuse, è ben poco promettente un percorso, un lavoro su se stessi che abbia come scopo quello di liberarsi dell'assillo di una parte di sè che preme, che col malessere interiore tiene sulle spine, che oscura il senso di  sicurezza e di fiducia, che in varia forma intralcia e non dà sostegno alla volontà di preservare e di proseguire ciò che è abituale. Sembrerebbe massimo bene per sè togliersi un simile peso, ritrovarsi liberi da tensioni e da ostacoli interiori. La vita parrebbe finalmente sorridere e accessibile senza restrizioni, senza fardelli aggiunti, senza coloriture insane. Eppure una simile lettura, talmente, a prima vista, convincente da apparire ovvia, è profondamente distorsiva del vero e per nulla ben promettente. Se quel che conta è non ritrovarsi in guerra con parte intima di se stessi e essere pienamente, davvero pienamente, liberi e vitali, il cammino, il percorso da seguire è tutt'altro da quello di togliersi di dosso la pressione interiore di cui si è preda. Non c'è banalmente nel malessere interiore il segnale di un problema di origine remota, di un trauma psichico pregresso, di una cattiva influenza subita dall'ambiente familiare e non, di carenze o di distorsioni patite. Spendersi per una lunga ricognizione nel passato alla ricerca dell'inghippo, della causa di tutti i mali, partendo da una lettura vittimistica del proprio disagio, allontanandosi dal confronto, dall'incontro e dal dialogo col sentire attuale, sarebbe un inutile e assurdo lavorio, sordo al presente, al richiamo odierno della propria interiorità. Sarebbe un lavoro segnato dall'aprioristico convincimento che ci sia una causa da trovare, dalla preconcetta idea di ciò che avrebbe dovuto svolgersi e spettare a se stessi, inanellando solo preconcetti e petizioni di principio. Il percorso possibile e sensato è un altro. C'è la propria interiorità che in modo vivo incalza, preme e dice. Si tratta di imparare a darle retta, a ascoltarla, a intendere il suo linguaggio, a comprendere la sua proposta. La propria interiorità non soltanto coinvolge e comunica attraverso il sentire, ma, per farsi meglio capire e per dare guide di ricerca e di comprensione approfondita, mette a disposizione i sogni, autentica scuola di pensiero per capirsi, per conoscere. Il percorso analitico è questo, vuole aprire e svolgere senza restrizioni e deformazioni il dialogo e il confronto con la propria interiorità, allo scopo di non schiacciare o respingere il malessere interiore, la difficile esperienza interiore che si vive, ma di comprenderla nel suo linguaggio e nelle sue intenzioni, di farne tesoro come occasione per capire fino in fondo se stessi e i nodi della propria vita, per perseguire lo scopo di trovare piena sintonia e  unità con se stessi, scoprendo che ciò che vive dentro se stessi non è presenza ostile o guasto o insidia, ma viceversa autentica fonte di consapevolezza e di vita. Non promette nulla di buono mettersi sul piede di guerra contro ciò che interiormente si giudica sbagliato, anomalo, insano o nemico. Non offre nulla l'idea che ci sia un guasto da correggere, una causa di tutti i propri mali da trovare. Non promette nulla di buono il tentativo, davvero insano oltre che velleitario, di zittire e di togliersi di dosso parte vitale di se stessi, temuta, svalutata e osteggiata ancor prima di conoscerla. Promette invece unità con se stessi e visione più fondata della propria vita e delle proprie ragioni d'esistenza, scoperta delle proprie originali potenzialità cercare un incontro e un dialogo aperto e senza restrizioni con la propria interiorità. E' proprio questo che il malessere interiore cerca e sollecita con forza: ascolto della propria parte intima e profonda, dialogo e unità con se stessi.

venerdì 17 giugno 2016

Apertura e intelligenza

Cosa richiede il malessere interiore, quale cura? In due parole direi: apertura e intelligenza. Il malessere interiore è ispirato e tenuto vivo dalla parte più intelligente e lungimirante dell'individuo, anche se frequentemente ignorata e sottovalutata, anche se malintesa e spesso bistrattata. Il profondo, l'inconscio non cessa di avanzare proposte intelligenti, ispirate non già dalla preoccupazione di sistemare alla bell'e meglio le cose, di mantenere integro e in buona forma, di dare conferme a un modo di procedere e un'idea di se stessi imperanti, che non vorrebbero intralci, che si considerano insostituibili, ma viceversa dal proposito di parlar chiaro e sincero, di non tacere contraddizioni e vuoti, di spingere verso cambiamenti importanti, fedeli a se stessi profondamente e dalle solide fondamenta. L'inconscio non è perso dietro illusioni, vuole non seppellire la consapevolezza, vuole che adulti si diventi nel segno di dare al mondo il proprio e non di farsi dire cosa inseguire e come essere per ricevere conferma o plauso. L'inconscio vuole consapevolezza, vuole che ci sia crescita vera, è un pungolo, è un maestro esigente, cui non fanno difetto il coraggio e la determinazione, l'intelligenza e la saggezza. Per corrispondergli, per non remargli contro è necessario dare apertura e non chiusura ostile e pregiudizio. E' necessario disporsi a conoscere e a capire, a fare un lavoro attento e approfondito, senza scorciatoie e senza inganni, senza semplificazioni, senza i bluff e gli imbrogli del ragionamento, del modo di pensare razionale, che non ha supporto e che non cerca guida nel sentire. Ci vuole intelligenza, perchè è sul piano del pensare intelligente e riflessivo, che guarda (come guardandosi allo specchio, riflessivamente) nell'intimo di se stessi e della propria esperienza, che si muove l'inconscio, che si svolge la sua iniziativa, che si esprimono sia i sogni che i vissuti, gli stati d'animo e le emozioni, che tutto il corso della vicenda interiore, che l'inconscio regola e governa. La cura del malessere e della crisi interiore, il prendersi cura di se stessi in due parole: apertura e intelligenza. Quanto manchino nei modi di prendersi cura più abituali, nei metodi di cura più frequenti è sotto gli occhi di tutti. Ne sono esempio l'utilizzo sempre più esteso di psicofarmaci, cioè  di armi chimiche per tentare di mettere a tacere e in riga come fossero bizzarrie e assurdità, anomalie e disturbi, i richiami e i segnali interiori intelligenti (anche se sofferti, anche se non piacevoli), la proposta assai diffusa di psicoterapie direttive, che vorrebbero condurre a correggere e a riplasmare le risposte interiori (non comprese nel loro vero significato e intendimento, assolutamente opportuni e intelligenti) ritenute, senza dubbi e esitazioni, "disfunzionali", cioè immotivate, irrazionali, sfavorevoli. Il malessere interiore, vissuto e interpretato spesso (da chi lo vive, ma anche anche dai modi delle cure prevalenti) come presenza nemica, come minaccia e ostacolo da eliminare, se ben compreso in ciò che vuole dire, promuovere e aprire, va contro e attenta in realtà a un'unica cosa, alla chiusura mentale e al rifiuto di spendersi per se stessi in coraggio e in intelligenza.

martedì 14 giugno 2016

Realtà e "derealizzazione"

Riprendo qui il filo di un discorso aperto in un precedente scritto (titolato:simbiosi con altro e fuga da se stessi), per svolgere un approfondimento sulla cosiddetta derealizzazione.                                     Per realtà si intende comunemente quell'insieme strutturato e organizzato esterno a sè, cui si sta rivolti e intenti (oggi si direbbe connessi), da cui ci si fa dire e dare, da cui spesso ci si fa suggerire temi e opportunità, dentro cui sembra doversi inscrivere la propria ricerca di cose da conoscere, da sperimentare, da realizzare. Imparando, come in genere si fa, a stare in ben stretto legame con cose, vicende, persone, assimilando tutte le regole di una simile integrazione e il relativo linguaggio e modo di pensare , prendendo, per esempio, per buono che ciò che è sotto i riflettori è ciò che è più attuale e importante, che ciò che si discute tra i più è l’ordine del giorno degli argomenti da svolgere e da sapere, via via nutrendo dentro sé, sempre più, fame di questo altro esterno a sè e la paura che, senza contatto e riconoscimento esterno, si sia soltanto in ombra e a rischio d’essere spenti, ci si convince che in quell'insieme esterno e in quello stretto legame adesivo con esso ci sia la realtà in assoluto e il contatto con la realtà. Realtà dunque diventa ciò da cui si dipende totalmente, cui si fa riferimento per avere luce negli occhi, argomenti, opportunità, scansione di tempo, tutto insomma. La crescita di un individuo corre spesso lungo questo binario. Si impara a considerare reale solo ciò che sta in stretta correlazione e dentro questo insieme esterno. Reale potrebbe essere "in realtà" tutto ciò che si può incontrare nel proprio e nell'intimo di sensazioni e di stati d’animo, imparando a dialogare con questi e a trovare lì comprensione di significati, luce e sguardo, argomenti e punti di riferimento, senso di ciò che è vero, fondato su scoperta originale, tenendo conto di sé, ma questa è possibilità spesso ignorata oppure sminuita. Cos'è possibile infatti, ci si chiede, trarre da sè, dal confronto con se stessi, che peraltro si auspica veloce, non troppo prolungato, per paura di rimanere indietro, se non qualche commento sull'ordine del giorno di cui dicevo, se non qualche proposito di stare meglio inseriti e al passo del reale là fuori?                                                                 Cosa accade quando la componente profonda dell’individuo non tollera più lo stato di dipendenza dall’esterno come unica fonte e unico supporto vitali, quando, per segnalare che c’è urgenza e necessità di trovare nuova realtà viva e consistente, vero senso di realtà, per spingere a congiungersi a se stessi, a connettersi non al fuori ma al proprio sentire e alla propria intima esperienza, per cominciare finalmente a accendere e a formare sguardo e pensiero propri, prende con decisione a staccare i fili che connettono all'esterno? Cosa accade quando la cosiddetta realtà per iniziativa profonda è resa nel vissuto smorta, scolorita, opaca, piatta, quando il sentire impone senso di non familiarità, di estraneità, di lontananza da tutto ciò là fuori che fino a ieri era cercato come essenziale e necessario, come una droga per avere senso di contatto, di presenza in qualcosa, di presenza in una storia, senza che la propria storia e i suoi presupposti e fondamenti avessero mai visto la luce? Se la componente profonda non accetta la lontananza da se stessi, l’illusione d’esserci e di essere in un percorso significativo e proprio, quando invece si è solo a rimorchio, quando si riproduce solo una parte e un ruolo tenuto su e reso credibile da sguardo e da conferme esterne più che da consapevolezza e da persuasione proprie e profonde, mai cercate e coltivate, se di conseguenza prende posizione forte e crea un simile stato di disconnessione e di perdita di sintonia con l'esterno, la reazione dell'individuo è non solo di comprensibile smarrimento e sconcerto, ma anche di disperazione. Qualche esperto o preteso tale è già pronto a battezzare il malessere che insorge, la crisi che si apre (che vuole mettere in questione l'equilibrio, tutt'altro che esaltante, della dipendenza totale dal cosidetto reale, che chiude a se stessi), con espressioni tecniche come "derealizzazione", che come paroline magiche sembrano spiegare tutto, che sembrano avere l'autorevolezza del sapere scientifico, con tanti pronti a riverirle, a servirsene, ad assumerle come il chiarimento esaustivo del proprio stato, considerato automaticamente anomalo e da curare come fosse un’affezione al pari dell’influenza o della polmonite. Che triste realtà quella in cui non si comprende che reale è prima di tutto la propria presenza, il proprio essere da incontrare e da conoscere nella sua totalità e pienezza, ricomponendo la dissociazione tra pensare/agire e sentire/esperienza interiore, che reale è ciò che si comprende davvero, passando attraverso se stessi, conoscendo su base di intima esperienza e riflessione e non replicando il sentito dire!

sabato 28 maggio 2016

Malessere e (mal)trattamento

I modi di pensare comuni fraintendono e trattano malamente l'esperienza interiore particolarmente quando alza i toni e diventa difficile e sofferta, non sono per nulla adatti a comprenderla. Si parte in genere dal principio, che pare ovvio e indiscutibile, che se si vive un'esperienza interiore disagevole, se si prova ansia, malessere interiore nelle sue diverse e possibili espressioni, questo sia uno stato anomalo, sfavorevole e nocivo da cui uscire prima di tutto e al più presto. La sofferenza interiore è certamente una esperienza non facile, non piacevole, può essere assai penosa, a prima vista insolita e strana, ma non per questo è insana. Non è insana perchè non è insulsa. Anche se spesso si è pronti a sostenere che non ha motivo d'essere, anche se la si stigmatizza come abnorme e assurda per il modo insolito di proporsi, in realtà dice cose vere, assolutamente fondate e con grande precisione, anche se richiede, per essere compresa fedelmente, sia un diverso animo, che non voglia rifuggire e scaricare ciò che interiormente risulta spiacevole, che capacità di ascolto e riflessiva, che solitamente non si possiedono. Pare strano, ma si cresce imparando più a intendersi, si fa per dire, col mondo esterno che col proprio sentire, che con se stessi. Per questo motivo le esperienze e le vicende interiori complesse e disagevoli colgono  impreparati molti e suscitano facilmente risposte più volte a contrastarle e a combatterle, che a avvicinarle, a intenderle, a valorizzarle. Se è comprensibile lo smarrimento e la reazione di paura di fronte all'acuirsi di esperienze interiori affatto comode e discrete, bensì pervasive e persistenti, non è esagerato dire che è perfido oltre che ottuso giudicare senza appello come anomalo o malato ciò che non si sa avvicinare, che non si sa ancora intendere. Il trattamento riservato al malessere interiore nelle sue diverse espressioni finisce spesso, costringendolo a fare i conti con principi di presunta normalità di funzionamento e non, di salute e malattia, per squalificare come disturbo e malfunzionamento ciò che non è compreso nel suo significato e valore, ciò cui non si concede il minimo ascolto. Tutto avviene con le parvenze della cura, della volontà di procurarsi e di farsi dare da cure e da curanti beneficio. In realtà il beneficio ha il prezzo del rifiuto e della fuga, del combattimento ostile contro parte viva di se stessi cui non si sa dare riconoscimento e ascolto. La vita interiore è l'eterna sconosciuta, bollata, catalogata nelle sue espressioni meno facili da capire con le diverse etichette diagnostiche (le diagnosi, operazioni classificatorie sterili, che però, in virtù dell'essere pronunciate da presunti esperti, sembrano definire per intero contenuto e significato di ciò che in partenza, che a priori e senza appello è giudicato anomalo), frantumata in sintomi che vorrebbero suffragare il guidizio diagnostico, spiegata con ipotesi di apparente sapore scientifico di squilibri biochimici (la biochimica, le reazioni biochimiche accompagnano, fanno da substrato a ogni espressione della nostra vita, del nostro essere, ma ciò non significa che il nostro essere si riduce alla biochimica o che ne è in automatico determinato), giudicata nelle sue espressioni come disfunzionale, incongrua e non utile, tutto meno che saputa avvicinare e comprendere in ciò che dice, che rivela, che intende proporre, nello scopo che vuole promuovere e far perseguire. Non ci si può certamente limitare a assumere l'idea che ciò, che interiormente è squalificato e ridotto a segno di malattia, ha un senso e un valore, si tratta di essere aiutati a avvicinare e a comprendere davvero, puntualmente e senza omissioni, il proprio intimo sentire e tutto ciò che la propria esperienza interiore propone. La possibilità esiste, ma serve che lo stesso curante non sia estraneo alla vita interiore, che non sia un semplice ripetitore di teorie e di tecniche curative prese in prestito da scuole e da libri e riprodotte. Se il curante, lontano dalla conoscenza interiore e di se stesso prima di tutto, è tutt'uno con l'idea del malessere come anomalia da sanare, con la ricerca aprioristica del rimedio per rimettere ordine, se, nel migliore dei casi (migliore si fa per dire) pensa che ci sia una causa da cercare in qualche recondito del passato o in qualche circostanza avversa per spiegare la sofferenza che non sa ascoltare e comprendere in ciò che sta dicendo e svelando adesso, finirà per diventare complice e istigatore della fuga dell'altro da se stesso, del suo dissociarsi dal proprio intimo e profondo. Se l'individuo che soffre interiormente crede che la sua esperienza interiore difficile e sofferta sia solo una minaccia, un impedimento, un danno, tutt'attorno il modo prevalente di concepire la vita e il cosiddetto benessere non incoraggia di certo la riflessione, l'avvicinamento fiducioso a se stessi, l'ascolto, la valorizzazione di ogni segnale e espressione della vita interiore. Il comune imperativo di fronte a situazioni di malessere interiore è "uscirne al più presto", le stesse cure, farmacologiche e non, sembrano essere più strumenti per cacciare via e mettere a tacere il proprio sentire, che aiuti per colmare la frattura di paura e di insofferenza, di pregiudizio e  di diffidenza, che separa da se stessi, per trovare col proprio intimo, con ciò che si prova e sperimenta interiormente capacità di incontro, di ascolto, di comprensione. Il malessere è espressione viva di una parte di noi stessi, profonda, più interessata a entrare nel merito e nel profondo di come siamo e di ciò che ci coinvolge, che di far proseguire indisturbata la nostra esistenza come se niente fosse, accontentandoci di apparire a noi e agli altri normali e adeguati, con tutte le cosine a posto. Dentro di noi e profondamente siamo più attenti e testimoni del vero, che di ciò che ci fa comodo pensare. Profondamente abbiamo più istinto e desiderio di non tacerci nulla, di non rinunciare a noi stessi e prima di tutto a vedere le cose che ci riguardano con attenzione e verità, che di proseguire indenni e indifferenti, illusi e senza conoscenza di chi siamo e di come siamo. Se il profondo agita le acque, se addirittura, per sospendere il quieto e solito procedere, dà scosse tremende come con gli attacchi di panico, un motivo c'è, un motivo di salvaguardia per non perdere tempo e per provvedere, per non perdere se stessi in un corso di vita in cui nulla di sè si è davvero preso a cuore, nulla è stato davvero compreso e approfondito, nulla sì è coltivato e fatto crescere capace di rendere autonomi e capaci di fare della vita la propria vita.   Il malessere interiore non è una trappola da cui uscire in fretta, è semmai il contrario, sempre che si impari a comprenderlo per il suo verso, sempre che si impari, casomai con l'aiuto di chi sappia dare gli strumenti necessari, a dialogare con la propria esperienza interiore e non a trattarla come un incomodo, come un meccanismo guasto da riparare o da mettere a tacere in qualche modo. Il profondo, che agita le acque, che non dà tregua, che esercita potenti e insistiti richiami attraverso il malessere interiore, se ascoltato in ciò che dice nel sentire e soprattutto nei sogni, dove dà il meglio per spingere a guardare dentro se stessi e a capirsi, sa aiutare a trovare la strada, sa aiutare non già a uscire dalla crisi rimanendo tali e quali, ma a entrare in un percorso vivo di ricerca per finalmente arricchirsi di consapevolezza, per diventare se stessi pienamente. Se si vuole si può imparare, con l'aiuto giusto, a prendersi davvero cura di se stessi, cercando unità con la propria interiorità, col proprio intimo, assecondando ciò che il malessere e la crisi interiore vogliono generare. Se viceversa la cura, pur con le migliori intenzioni dichiarate, è operazione ostile, se respinge ciò che si fa avanti dal profondo, se lo cestina come insano e patologico, se tenta di raddrizzarlo perchè lo giudica disfunzionale, se non sa riconoscerlo come proposta intelligente, come spinta e via di trasformazione e di crescita, non solo utili, ma necessarie e di vitale importanza, rischia di seppellire il proprio in nome del qualunque, di confermare e di rafforzare soltanto la rottura con se stessi.

domenica 15 maggio 2016

Disturbo?

Ci complica la vita convivere con una parte di noi stessi intima e profonda, che non rinuncia a interferire, a intervenire nella nostra esperienza, dando segnali, plasmando vissuti, che, scomodi e in apparenza inopportuni, vogliono però perseguire uno scopo, in genere incompreso. Quando le risposte interiori risultano deludenti o addirittura (in apparenza) sciagurate e fallimentari rispetto a attese di buona prestazione o di “normale” funzionamento, sono subito esposte al rischio di squalifica e di rifiuto. Diventano ai propri occhi, prima ancora che a quelli di altri, un disturbo, un'insufficienza, soprattutto un ostacolo, un preoccupante motivo di insuccesso. Se le cose sono viste unilateralmente dalla parte conscia, se pensate e giudicate in un'unica accezione, in modo univoco nel verso dell’ottenere risposte efficaci secondo principi di pretesa normalità e di buona prestazione, le sensazioni provate, come, per fare un esempio, quelle di timidezza, di impaccio, di ansietà e paura in presenza d'altri e particolarmente di figure ritenute d'autorità, sono prontamente squalificate, considerate solo come risposta difettosa e dannosa per i propri interessi, controproducente. In realtà risposte interiori e vissuti, niente affatto sgangherati e frutto di malfunzionamento, di fragilità o di storture nel modo di pensare e di funzionare, vogliono invece dare base intelligente per capire, per capirsi. Ogni espressione del sentire evidenzia, marca con vigore questioni su cui lavorare non già per ottenere subito risultati funzionali, ma per capire in profondità, per favorire, su basi realmente consapevoli,  importanti e profonde trasformazioni, robusti processi di crescita. Per rimanere all'esempio di prima,  per chi vive quelle cocenti sensazioni cosa c'è in gioco nel suo rapporto con gli altri, con chi particolarmente occupa posizioni di cosiddetta autorità, quanta dipendenza c’è dagli altri nel farsi indicare obiettivi e nel farsi riconoscere abilità, qualità, meriti? Cosa copre e (malamente) sostituisce di mancante, di non cercato dentro sè, di non generato da sè questa dipendenza? Quanta mancanza di conoscenza di se stessi, quanta incapacità di guidarsi e di legittimarsi nelle proprie scelte, c'è alla base di questa dipendenza da altri, quanta poca ricerca e esercizio del proprio sguardo c'è in quell'incombere e dominare continuo dello sguardo e del giudizio altrui, particolarmente se di persone comunemente considerate autorevoli? Non può e non deve, questo ciò che anima il profondo nel suo dettare quelle risposte interiori, passare inosservata e ignorata una simile condizione di  dipendenza, il cui prezzo è farsi tirare i fili, dirigere e definire da altri in ciò che si è e in cosa va perseguito e come. Se sfugge di mano la consapevolezza della propria reale condizione e di come si procede, non si è liberi, si va a testa bassa, casomai con la convinzione illusoria di essere già sufficientemente maturi e arrivati a buon punto nel capire e nel conoscere se stessi,  nell'essere liberi e indipendenti nel definire i propri scopi. Se non si comincia a vedere riflessivamente, come guardandosi allo specchio, il proprio stato e modo di procedere (senza travisamenti di comodo), si rischia di rimanere ingabbiati in una condizione cieca, senza consapevolezza e senza verifiche, casomai inseguendo altro dai propri veri scopi, tutti sommersi, ancora da scoprire. Chi si è e cosa ha valore per sé, se non c’è convergenza con se stessi per trovare lì, nell’incontro e nello scambio con la propria interiorità, chiarimenti e risposte, possono rimanere verità e scoperte inaccessibili. Se la parte interiore interviene e interferisce è per donare occasione di presa di coscienza, casomai con più dispendio di impegno, di tempo e di energie per capire, del semplice cercare di proseguire in buon ordine come si ritiene facciano tutti, ma con la opportunità di attrezzarsi con chiarimenti e con risposte più mature e vicine ai propri interessi. La scelta del profondo, che mobilita il sentire, che detta le risposte interiori per ottenere lo scopo di guardare dentro se stessi, di vedere nitidamente, senza veli, senza illusioni o infingimenti, i propri modi di procedere è scelta assai più provvida e fruttuosa dell’incaponirsi a cercare subito "normali" e buone prestazioni (particolarmente in pubblico), del trovare subito riscontri di buon funzionamento. Spingere a senso unico nella direzione della normalizzazione non aiuterebbe certo a trovare intesa con se stessi, anzi rafforzerebbe il dissidio e l’incomprensione già presenti col proprio intimo e profondo. Il rischio è di non capire che ciò che si sente, anche se risulta arduo e non piacevole, anche se complica il procedere, è espressione di una parte di se stessi che non vuole fare danno, anzi tutt’altro, che vuole viceversa aiutare a trovarsi, a trovare, in dialogo e d'intesa col prorio profondo, risposte proprie, a sviluppare su questa base forza e autonomia vere, a costruire capacità di autogoverno della propria vita. L'abitudine a pensare nel modo in cui si fa comunemente o dando retta a presunte autorevoli fonti, a dare per scontati i significati, unita alla  mancata capacità di stabilire un rapporto con le proprie sensazioni, vissuti, esperienze interiori che non sia il brutale mettere loro addosso definizioni e giudizi di valore, senza concedere loro dignità, senza prestare loro attenzione e ascolto, rischiano di rendere incrollabile e inossidabile l'idea del disturbo, vera arma letale usata contro se stessi e a proprio danno. Per sostituire modi sbrigativi di sentenziare contro e sul conto del proprio sentire, come con l'idea del disturbo, per aprire la strada del conoscersi e del capirsi dentro e attraverso ciò che si prova interiormente, serve un lavoro nuovo e diverso dal solito  dare spiegazioni col ragionamento, serve acquisire e sviluppare capacità di ascolto e riflessiva per entrare in rapporto con la propria interiorità, per rispettarla e per comprenderla in ciò che dice. Per trovare fondata fiducia dove ora c'è timore e diffidenza verso ciò che si vive interiormente, per aprirsi a uno scambio pieno e fecondo con la propria interiorità, per imparare a lavorare su ciò che i suoi richiami (nel sentire e nei sogni) indicano come i nodi da sciogliere, come i temi vitali da approfondire, essenziali per favorire la propria crescita e autentica realizzazione, può rendersi necessario l’aiuto di chi sappia accompagnare in una simile ricerca, di chi non abbia in testa solo idee di aggiustamento e normalizzazione, di pronta rimessa in efficienza.

domenica 3 aprile 2016

Illusione o sostanza

Il malessere interiore non è nemico, vuole essere complice, cerca complicità nell'individuo, che lo vive, nel guardare ben dentro se stesso e oltre le apparenze, cosa che implica capacità e coraggio di mettersi in discussione, di non tirare le cose nel verso più conosciuto e rassicurante. Molto spesso, per puntellare sicurezze, che casomai fanno acqua, ma che immediatamente fa comodo mantenere, si oscura la verità di se stessi, si tengono vive illusioni, facendo leva e cercando appoggio all'esterno, nelle conferme che possono arrivare dagli altri e dal senso comune. Avere poco o nulla, non mi riferisco a cose, ma a dotazione personale di pensieri e di scoperte proprie e fondate, a conoscenza di se stessi, se da un lato è spesso una condizione tanto reale quanto ignorata dalla parte conscia o perlomeno minimizzata, dall'altro produce e tiene viva inquietudine interiore. Questo perchè dentro se stessi profondamente non si è incuranti o ingenui, si sa riconoscere ciò che manca, che è essenziale non già per stare in un qualche equilibrio, ma per avere idea di chi si è, di cosa significa questo e quello della propria esperienza e modo di procedere, per raggiungere consapevolezza di ciò che ha davvero valore per sè, di ciò che è irrinunciabile perseguire e realizzare perchè la propria vita abbia scopo, sostanza e merito ai propri occhi. Per raggiungere l'autonomia, la capacità di dirigere e di realizzare la propria vita con le proprie forze e verso i propri scopi, senza chiedere permesso e approvazione ad altri, serve colmare quel vuoto, quella mancanza di consapevolezza e di intesa con se stessi. Il malessere interiore, la crisi intendono far risaltare ciò che manca e spingere perchè si inverta la tendenza, perchè ci si preoccupi non già di conservare l'equilibrio e lo stato soliti, ma di formare ciò che non c'è, che non si possiede ancora. Paradossalmente capita invece che in presenza di difficoltà e di sofferenza interiore prevalga la tendenza a evadere, a prendere distanza dalla crisi, come se l'unico interesse fosse quello di ripristinare e rinsaldare la condizione solita. Spensierarsi, svagarsi, occuparsi, spesso in modo del tutto casuale, di questo o di quello, provare banalmente a rilassarsi, reazioni sovente incoraggiate anche dagli altri al malessere interiore, non possono nè soddisfare nè compensare ciò che manca e per cui si è comprensibilmente tesi e inquieti. La normalità e il quieto aderire della parte conscia allo stato vigente prima della crisi, condizioni cui si vorrebbe prontamente ritornare, come fossero il massimo bene possibile, si fondano più spesso di quanto non si crede o non si vuole credere su illusioni circa il proprio grado di maturità e la qualità del proprio stato, spesso caratterizzati  più da lontananza da se stessi, da dipendenza da altro e da altri, piuttosto che da capacità di capirsi, di comprendere i propri vissuti, il proprio sentire, da capacità, su queste basi di intesa e di conoscenza di sè, di dirigersi e di governarsi consapevolmente e autonomamente, fuori da guide e da convalide esterne. L'attaccamento, la volontà pervicace di ritorno al solito e abituale, al corso normale,  implicano, come già in passato,  ancor più ora, in presenza di segnali di crisi, forti pressioni a ottenere conferma e risultati, a dare prova di questa normalità e parvenza di buono stato. Dimostrarsi all'altezza, avere da dire, rivelarsi adeguati sono prove, cimenti e verifiche continue cui ci si sottopone. In mancanza di buone prestazioni o in presenza di senso intimo di insicurezza e apprensione, la reazione della parte conscia è di disappunto, di preoccupazione, di recriminazione per la mancata saldezza e prontezza. Giudicati come deficit incomprensibili o come conseguenza di malaugurati cali di autostima e di fiducia, non si comprende nulla di ciò che queste esperienze e che questi vissuti vogliono dire, di ciò che queste insicurezze vogliono segnalare, soprattutto non si comprende che non c'è fragilità eccessiva o anomala, ma precisa volontà interiore di rendere il quadro più vero, più profondamente chiaro. Accade infatti che il profondo scelga in modo diverso rispetto a ciò che la volontà, che la parte cosiddetta conscia vorrebbero ottenere, persuase che la strada da seguire sia indubitabilmente quella ad esempio della reazione pronta, della dimostrazione di adeguatezza  secondo i criteri dominanti di normalità e di riuscita. Capita che alla parte profonda non sfugga l'utilità di un diverso, sostanziale modo di intendere la propria crescita e la propria realizzazione, che non ignori i vuoti, non di prestazione, ma di sostanza, la mancanza di tessuto vivo di consapevolezza e di pensiero proprio, da coltivare, da formare, non per riuscire subito e per dimostrarsi all'altezza delle comuni e abituali pretese, ma per avere davvero del proprio originale, valido e consistente, per dare volto proprio alla propria vita. Se per la parte conscia dell'individuo avere fiducia in se stesso (l'ho detto in altri miei scritti) è quasi una pretesa, come si trattasse di un'ovvietà, come se i giochi fossero già fatti, come se un pò d'anagrafe e d'esperienza di per sè dovessero già dare forza e maturità di risposta nelle diverse situazioni, al suo profondo preme la sostanza, non cade vittima di illusioni. Se la fiducia in se stessi va fondata su reale possesso di risposte proprie, guadagnate da incontro e da confronto con se stessi, da scoperta con i propri occhi di significati, che non siano quelli già codificati e comuni, semplicemente ripetuti e rimasticati, ridetti con illusione di sapere, in realtà senza capire alla radice nulla, ecco che il profondo non ci sta e vuole per se stessi un percorso, casomai più lungo e graduale, più impegnativo e faticoso, ma certamente più solido e promettente, oltre che appassionante, per conquistare capacità autonoma di pensiero. Non è uno sfizio questa autonomia, è la base per esistere, per non essere gregari rispetto a principi e a idee comuni, per essere pensanti e capaci di concepire il proprio, coerente con se stessi, è la base per sentirsi realmente consapevoli di ciò che si dice e che ci si  propone, per essere liberi di non infilarsi nel percorso segnato da altri e da altro, liberi di intraprendere e seguire, anche senza consensi esterni, cammino originale e verso scopo compreso e da sè concepito. Capita dunque che l'inconscio, che il profondo neghi percezione di sicurezza e di fiducia, per rifondarle su basi nuove, per non insistere nell'andare avanti con fiducia fittizia e immeritata, non agli occhi degli altri, ma ai propri. Capita che il profondo, determinando impacci o blocchi, spunti l'arma della prestazione tanto desiderata soprattutto se in presenza d'altri, ad esempio della replica pronta, della parola e dell'affermazione efficaci, per far sì che, tacendo, incassando la tensione, ci si chieda cosa quella discussione o questione ha mosso in se stessi, cosa significa dire o dare risposta, cercando che cosa, se di tradurre qualcosa in cui si crede davvero e che davvero si comprende e si può sostenere o se, sforzandosi solo di convincere altri, di sventarne il cattivo giudizio, di meritarne la buona considerazione, casomai parlando a vanvera e senza sapere per davvero cosa si sta dicendo. Al profondo preme la crescita vera e sostanziale, non gliene importa di vittorie di immagine, di buone riuscite in pubblico, di successi del cavolo, che non hanno sotto davvero nerbo, qualità e sostanza. Questi vanno trovati nella capacità, graduale, di capire e di capirsi, di non tacersi nulla, anche se scomodo, di tessere filo di pensiero proprio, fondato su verifiche attente e sincere, saldo. La visione del profondo è straordinariamente più saggia e lungimirante di quella della parte cosiddetta conscia, che spesso si fa bastare illusioni e che è così incline al cieco aderire all'abituale, all'impazienza, allo stare ai tempi dettati dall’esterno, dall’assillo della prova e del giudizio altrui. L'ansia e quant'altro che interiormente crea instabilità, che segnala crisi, che non dà quieto vivere, vuole proprio rilanciare la tensione del cambiamento, mostrare crepe, invitare con forza, talora con prepotenza, come con gli attacchi di panico, alla priorità dell'avvicinamento a se stessi, del lavoro su se stessi, rispetto al cieco andare avanti con pretesa che tutto sia già a posto. E’ assai frequente incontrare in chi vive situazioni di disagio interiore, come fosse reazione e recriminazione ovvia, un susseguirsi di lagnanze, di attacchi ostili all'ansia e a quant'altro interiormente disturba, squalificato, considerato (ottusamente) come ostacolo e impedimento e non come richiamo al compito di guardare dentro se stessi e di formare quel che ancora non c'è: consapevolezza, tessuto umano e di pensiero propri, unità con se stessi. Si può scegliere se cercare la propria autonomia e la propria forza, vere e non velleitarie, la capacità di dire la propria alla vita e di generare il proprio, facendo tutto il percorso di ricerca e il lavoro su di sè necessari  per raggiungere questo scopo o rivendicare la continuità del normale, pur se spiantato e inconsistente.

A te che soffri

Ora tutta la tua esperienza interiore ti appare strana, quasi estranea, incomprensibile, persino minacciosa, sospetta di essere malata. Perciò andrebbe incoraggiato e favorito il tuo contatto con la tua interiorità e non la fuga da ciò che vivi dentro te e che purtroppo, visto il suo carattere acuto e penoso, insolito rispetto a ciò che nel pensare comune si vorrebbe costante e normale, rischia di essere stigmatizzato da subito, da te prima che da altri, come dannoso o patologico. Dovresti essere incoraggiato e aiutato ad avvicinarti fiduciosamente a ciò che senti, pur doloroso e arduo, pur insolito, per scoprire che in ogni tuo sentire, nessuno escluso, c’è senso, c’è espressione vera e significativa di te, non un che di assurdo e malfunzionante, ma una traccia e un percorso vivo che può e che vuole portarti a capire te, la tua condizione, non nella sua apparenza, ma nel suo intimo vero. Ciò che stai vivendo, in cui la tua interiorità ti sta coinvolgendo, può e vuole darti e non toglierti. Sei probabilmente abituato a destreggiarti nella vita e a orientarti facendo più riferimento a come le cose si disegnano e sono concepite nel mondo esterno, nei comportamenti altrui abituali, nelle convenzioni e regole, nel modo di pensare comune, piuttosto che cercando base d'appoggio e terreno fermo nei tuoi vissuti, guidandoti con l'ascolto attento del tuo sentire. Probabilmente sinora ti sei pensato fondandoti su altro che non fosse il tuo sentire, chiedendo al tuo sentire di essere soltanto un sottofondo, considerandolo un satellite passivo, un che di scarsamente significativo, ignorandolo o guardandolo con scetticismo e diffidenza quando pareva non accontentare le tue previsioni, quando pareva darti sensazioni strane, a tuo dire "inopportune". Cercare unità e contatto, dialogo con la tua parte viva interiore è lo scopo da perseguire. Va fatta un’esperienza totalmente nuova, creando una capacità e una mentalità nuove, che ora sono assenti in te. Va favorita in te la ricerca del rapporto, della vicinanza e dell'intesa con te stesso prima che con altro, va sviluppata in te capacità riflessiva (che non ha nulla a che fare con ciò che si intende abitualmente per "riflettere" sull'esperienza e sulle cose), che ti permetta di vedere, di riconoscere ciò che il tuo sentire in ogni momento, qui e ora, ti sta dicendo e svelando, che ti consenta di far crescere sintonia e dialogo rispettoso con la tua interiorità e non di rafforzare posizioni di pregiudizio, di paura e fuga nei confronti di ciò che vivi interiormente. Sono conquiste davvero nuove, non perseguibili in un attimo. Per assorbire la mentalità e l’esempio comune, per abituarti a stare al passo, per addestrarti al mondo, ritenendo che vivere consistesse nel non perdere mai il contatto con l’esterno, vissuto come fonte di tutto, occasione per tutto, per te come per molti ci sono voluti anni e anni, nei quali via via è cresciuta la tua lontananza dal dentro, la marginalizzazione del tuo dentro, ridotto a appendice scarsamente significativa, poco o nulla cercata e davvero ascoltata per ritrovarti, per capirti. Cambiare impostazione, dalla tua interiorità ti è data col malessere una sollecitazione molto forte, quasi un'imposizione categorica, è certamente possibile, ma è necessario un lavoro adeguato, un percorso, un cammino di crescita, che per quanto mi riguarda vedo realizzarsi e possibile attraverso l’esperienza analitica. Personalmente come analista cerco di aprire l’altro al rapporto pieno con la sua interiorità, di avvicinarlo al suo sentire, di incoraggiarlo all’ascolto, di aiutarlo a tessere dialogo e non pretesa di controllo e di dominio sul sentire, come con l'arma del ragionamento, del pensare razionale (che confeziona spiegazioni sul conto del vissuto, senza lasciarlo dire in tutto ciò che sa e che vuole proporre e far capire) è abituato a fare. Ancora, cerco di lasciar dire pienamente la sua al suo profondo (la parte che interiormente ha smosso tutto e intenzionalmente) come sa fare con i sogni, perché da lì l’insegnamento nuovo, la guida per vedere dentro sé, per capirsi, per formare nuova mentalità, per scoprire il perché e l'intenzione della crisi che il profondo ha messo in atto, ha imposto con tanta forza. Il dialogo col profondo, soprattutto attraverso i sogni aiuta a capire che la parte di sé interiore e profonda, che, oltre che produrre i sogni, muove e plasma tutto il sentire, non è affatto oscura e primitiva, caotica o inaffidabile, ma che viceversa è estremamente saggia, lucida e capace, determinata a illuminare fedelmente il vero, a far emergere se stessi. Se il corso apparentemente tranquillo dell’esistenza è stato intralciato dal malessere non è stato per un guasto o per qualche accidente sfavorevole, ma per precisa volontà del profondo di spingere l'individuo a ritornare a sé, a costruire qualcosa di fondato su di sé e non sull’andar dietro, facendosi dire tappe e traguardi della propria vita e modi d’essere e di pensare da fuori e non da dentro. Tutto questo l’incontro con se stessi e un dialogo approfondito col proprio profondo portano a capire e a formare. Il mio lavoro di oltre trent’anni come analista mi ha mostrato quanto ho scritto e che esperienza e ricerca e non teorie astratte mi consentono di dire. Perciò posso dirti che ciò che ora ti manca andrebbe costruito da parte tua con l’aiuto di chi sappia guidarti e portarti gradualmente a scoprire che dentro te non c’è minaccia o oscurità da tenere a bada, ma parte viva, intelligente e affidabile di te con cui il dialogo e l’unità sono possibili e necessari, da cui è possibile ricevere bene prezioso. Se sinora hai solo desiderato il ripristino di ciò che eri, augurandoti che la crisi e il malessere come disgrazia passassero, svanissero, sappi che ti porresti contro te stesso e lasceresti cadere occasione propizia di cambiamento se trattassi ciò che senti come nemico da battere. Soffocheresti voce e richiamo interiore a cercare ciò che ti serve per portare la tua vita fuori dal rischio di non essere rispondente a te e pericolosamente vuota. Se la crisi e il malessere battono forte non è per dirti cose assurde o per farti danno, non è per farti deragliare o perdere, ma per aprirti al vero e per favorire la tua salvezza e crescita.

venerdì 25 marzo 2016

Autostima

Torno su un argomento che ho già trattato in uno scritto sulla fiducia in se stessi. La nostra stima, il sentimento che circola dentro di noi rivolto a noi stessi, è di importanza capitale, è un indicatore decisivo. Va detto subito che la nostra stima verso noi stessi, intima e profonda, dobbiamo meritarcela. E' più facile ottenere attestati e accrediti di stima da fuori che da dentro. Se interiormente la stima ci è negata, ci è fatta percepire debole o assente, non è per una svista o per strani condizionamenti, non è per patologia o per scarso attaccamento a noi stessi. Lo sguardo e la risposta interiori che modulano il sentimento intimo di stima sono molto attenti, ben più interessati al vero che all'illusorio. L'autostima non è mercanteggiabile col nostro profondo, che ne regola il tenore, l'intensità. Non parlo infatti di autostima effimera e legata a conferme esterne, a riconoscimenti, a ciò che altri ci attribuisce, dove basta avere e mettere assieme questo o quello, convenzionalmente ritenuti degni, per sentirci dotati e meritevoli, ma di autostima fondata, dai perchè ben riconoscibili con i nostri occhi, davvero convincenti. La stima non può essere gratuita e senza fondamento, non è affatto utile che lo sia, anzi l'attesa che c'è nel nostro profondo, ben chiarita, resa inequivocabile dal vissuto di sfiducia e di non stima di noi stessi, è che prendiamo consapevolezza di quel che siamo, senza equivoci e abbellimenti, e che produciamo i cambiamenti (prima di tutto interni) necessari perchè finalmente la stima abbia motivo di nascere in noi e prenda vigore. L'autostima non è un sentimento ovvio o un diritto, è legata e si confronta strettamente col nostro cammino, col nostro modo di procedere, con la nostra storia, nasce e si consolida se, in aderenza a noi stessi, facciamo storia. Diversamente, se siamo passivi, anche se formalmente attivi nel fare e nel ragionare, in realtà intenti a rimasticare idee prese in prestito, gregari nelle nostre scelte, pronti a stare al passo e a assecondare ciò che nel pensiero comune è giudicato normale o egregio, desiderabile e da non perdere, preoccupati prima di tutto di piacere agli altri e d'essere approvati, rinunciatari di conquista di consapevolezza vera, incapaci di fedeltà a noi stessi, di investire con coraggio su di noi, su autonoma ricerca, di coltivare con tenacia ciò che ci è originale, che è radicato in noi, di tradurlo in essere, che motivo avremmo di sentire fierezza, stima, caldo consenso verso noi stessi? Una vita pur sostenuta da consenso e da conferme esterne può essere sostanzialmente vuota, sterile. Dal nostro profondo una simile verità non è ignorata, non vuole essere nascosta. Il nostro sentire anche nelle sue espressioni più sgradite e meno piacevoli, come la autostima che flette o che sprofonda, è sempre onesto e veritiero, impietoso sì, ma leva e pungolo alla nostra presa di coscienza, al confronto approfondito con noi stessi. Rivendicare l'autostima quasi fosse naturale, fisiologico averla, a prescindere da quel che siamo, che abbiamo fatto e che facciamo di noi stessi, attribuire la causa del suo malessere e della sua debolezza a patologia o a altri e a altro, è modo ingenuo e puerile di chiudere gli occhi, di negarci l'occasione di conoscerci con sincerità e di accogliere spinta profonda a cambiare, a crescere.

giovedì 24 dicembre 2015

La ricerca del senso

Qualsiasi volto assuma il malessere e la crisi, qualsiasi direzione prenda il corso interiore, quel che più conta è che ha un senso, che vuole rendere riconoscibile qualcosa di importante di se stessi, che vuole dare origine e fondamento a un nuovo modo di esistere, radicato in se stessi e vero. Quel che conta non è capire la causa del malessere e del sofferto corso interiore, ma il suo senso, che è cosa assai diversa. La causa, in uno schema che vuole spiegare tutto in termini di causa e effetto, è intesa come la condizione predisponente o come il remoto perché, trauma, incidente, difficoltà protratta, cattiva influenza e educazione, insufficiente apporto o condizione di deprivazione o altro ancora, che avrebbe (così si suppone) provocato un presunto blocco o modo abnorme, alterato di reagire, uno stato perdurante di sofferenza. La ricerca della causa è figlia di un modo di pensare la realtà interiore come congegno, che o funziona regolarmente o si altera rivelando un guasto, per debole o insana costituzione o per l’agire di cause e di fattori avversi. In realtà il corso interiore, ciò che prende forma e che si impone dentro di noi ha una forte carica propositiva, vuole rendere visibile, riconoscibile qualcosa di importante di noi, vuole portarci più vicini alla comprensione di questioni decisive. L’esperienza interiore è via e matrice di conoscenza, è proposta, è iniziativa insistita, disturbante e inquietante certamente, ma dettata dal prevalere della necessità di vedere, di aprire le questioni, di renderle cocenti e non di tutelare equilibri fasulli e ipocriti. Andare avanti in normalità di esercizio non è soluzione ben accetta interiormente quando ci siano questioni di mancata unità con se stessi, di disaccordo tra pensare e sentire, di sostanziale inconsistenza di un modo d‘essere e di porsi che non hanno nulla di proprio e generato da sé, di vuoto di consapevolezza vera, di assenza di pensiero fondato e originale, di un assetto della personalità dove domina il riferimento all’esterno, la ricerca del consenso e dell‘omologazione. Il profondo agisce per porre in primo piano all'individuo il proprio stato, costringendolo a riconoscere se stesso come il terreno di lavoro prioritario, che urge. Non solo, ma disegna le questioni e dà una prima decisa, perentoria impostazione, tagliando ad esempio le gambe all’agire, al muoversi liberamente dell'individuo all'esterno, rendendogli tangibilmente drammatico l’affacciarsi sul proprio interno, a lui così sconosciuto, abitualmente ignorato e tenuto lontano, come negli attacchi di panico o rendendo acuto il dramma del non avere capacità di incontro e di rapporto con le spinte interiori, con le emozioni, con la parte viva di se stesso, che produce e rende eloquenti le contorsioni ossessivo compulsive. Le diverse espressioni della sofferenza interiore sono significative, ma si impara a comprenderne il senso solo aprendo dialogo vero e approfondito con il profondo, con l'inconscio, che è la parte dell’individuo che genera la crisi, per uno scopo di trasformazione e di crescita e non per disgrazia. Aprendo per intero al profondo, come si fa in una valida esperienza analitica, rivolgendo attento ascolto e sguardo riflessivo a ogni momento ed espressione del sentire e dell’esperienza interiore, soprattutto imparando a avvicinare e a comprendere i sogni, è possibile capire il senso della crisi, raccogliere tutta la ricchezza di riflessione e di pensiero che viene dall'inconscio e creare quella vicinanza e intesa con l’intimo, che è ciò che mancava, che rigenera l’individuo, che gli dà ciò di cui era privo. La crisi tende a creare le basi di un cambiamento profondo, non fatto di cose, ma di nuovo rapporto con se stessi, di capacità di  incontro e di dialogo con la propria interiorità, essenziale per dare affidabilità e consistenza al proprio pensiero, per sviluppare forza di visione propria in accordo e con apertura piena al proprio sentire, compreso come voce e proposta, per riconoscere le proprie ragioni d‘esistenza e il proprio progetto, per non andar dietro a ciò che non gli corrisponde. Sono realizzazioni e conquiste di maturità, di autonomia e di fedeltà a se stessi, non fasulle o illusorie, che il profondo spinge a perseguire. Non si tratta di trovare una causa per spiegare il guasto, si tratta di comprendere il senso di una crisi per assecondarne gli scopi e gli intenti, assolutamente costruttivi.

domenica 6 settembre 2015

Lo chiamano DOC, disturbo ossessivo compulsivo. A te che soffri qualche spunto di riflessione

Ciò che ti accade nasce dentro di te profondamente, come ogni emozione, stato d'animo, pulsione, come ogni svolgimento interiore che sfugge al controllo di volontà e ragione. Nasce dentro di te e ti fa fare esperienza insistita di qualcosa, che può apparirti assurdo, ma che è significativo per te. Molti, tu per primo probabilmente, saranno pronti a considerare ciò che ti capita semplicemente come anomalo, ma ciò che ti accade, dettato, lo sottolineo, da una parte di te, dal tuo profondo, vuole calarti dentro un'esperienza che vuole farti capire nel vivo qualcosa di te, fondamentale e imprescindibile. Se ti fa paura tutto ciò che è imprevedibile e inaspettato, una simile esperienza ha sicuramente un senso per te. Pensieri che irrompono nella tua mente improvvisi, all'inizio congetture, poi ipotesi verosimili, ipotesi terribili, possibilità orrende ai tuoi occhi, sconvolgenti, ti costringono sulla difensiva, estrema, ti impegnano anche se inutilmente a tentare di bandirli, di scongiurarli. La via d'uscita, macchinosa, sempre più macchinosa e esigente, dispendiosa. Interventi d'ordine, verifiche esasperanti,  sequenze di comportamento obbligato, tutto ciò che ti senti interiormente costretto a fare sembra volerti evitare ogni brutta sorpresa, sembra volerla scongiurare, per non caricarti della responsabilità di aver favorito sviluppi negativi o sciagurati. Sembrerebbe che all'origine tu sia "fondamentalmente" incline a controllare tutto, a rendere tutto piano e sicuro, prevedibile e programmato, certo e favorevole. Può darsi che in realtà la tua tendenza di fondo, la modalità che prevarrebbe in te di rapportarti alla tua esperienza e a ciò che provi, sia quello di tradurre subito ciò che senti in qualcosa di agito immediatamente, impulsivamente, senza stare a esitare e a interrogarti su cosa ci sia lì dentro, attribuendogli invece automaticamente un significato scontato, evidente. Perciò il rigido controllo ti serve a creare un dispositivo ferreo di sicurezza, tanto drastico e assoluto (talora o spesso incontentabile in ciò che ti chiede di applicare), quanto capace di evitarti qualsiasi rischio. L'impulsività, l'andar dietro a rotta di collo a spinte interiori, che in realtà chiederebbero di essere comprese e non agite, la tendenza a prender tutto in modo immediato, senza riflessività, se si affermassero ti esporrebbero al rischio di andare a finire pericolosamente non sai bene dove. Il dispositivo di controllo contrasta in modo rigido quella tendenza. Perciò ti dicevo prima che forse "fondamentalmente" non sei incline al controllo assoluto, ma viceversa all'immediatezza per l'immediatezza, senza attenzione, all'impulsività, allo sfogo liberatorio. Scusa se ti ho impegnato sinora in una riflessione che so non essere facile, ma le vicende e le questioni interiori non sono semplici, anche se non sono incomprensibili. So bene che su quello che ti accade potrebbero esercitarsi terapeuti con la voglia di diagnosticare, che etichette del tipo di "disturbo ossessivo compulsivo" sono pronte a scattare, casomai con la persuasione che, messa l'etichetta, si arrivi di per sè chissà a quale risultato. Le etichette diagnostiche sono però solo etichette, rischiano di far di ogni erba un fascio, di allontanare dal desiderio di ascoltare e di comprendere l'esperienza interiore di ognuno. Messa l'etichetta è pronto il farmaco e l'armamentario di consigli o di sproni, di prescrizioni, di tecniche per correggere l'anomala tendenza, perchè solo questo si pensa: che sia anomala e penalizzante. In realtà è un segnale, è la testimonianza di qualcosa di più complesso e però umanamente significativo e da capire. Se la questione è quella del tuo rapporto con la tua esperienza interiore, con le spinte interne, con tutto ciò che non è razionale, ma che è parte vitale e irrinunciabile di te come emozioni, stati d'animo, pulsioni e svolgimenti interni, la risposta va cercata nel costruire questo rapporto. Si parte da un'esperienza e da una condizione che ben conosci e che può sembrarti e sembrare semplicemente strana e fallimentare, ma si può cercare di aprire te al rapporto e alla conoscenza di tutto ciò che vive in te, facendoti scoprire cosa può darti e dirti, facendoti scoprire e toccare con mano come è possibile entrare in rapporto col sentire e con tutto ciò che nasce in te e che non è volontà e ragione. Il tuo sentire, le tue spinte interiori chiedono di essere accolte e però chiedono contemporaneamente di essere comprese nel loro intimo e originale, non agite o sommariamente trattate, come fosse scontato il loro significato. Imparare a scoprire che la tua vita interiore è un luogo e un'occasione per nutrirti e ritrovarti, che le mille novità interiori e apparenti contraddizioni sono parte viva di un insieme che può e che vuole essere da te esplorato e conosciuto, è ciò che va da parte tua pazientemente sperimentato e compreso. Nulla nell'intimo è disordinato e nocivo, minaccioso o altro, tutto concorre a formare esperienza intima, che è fondamento vivo di conoscenza, di consapevolezza. Inadeguato al dialogo interiore è solo l'atteggiamento che semplifica, che cerca la soluzione pronta, la coerenza innanzi tutto, il bianco contro il nero. Dialogare con l'interiorità è possibile, ma è una lenta conquista. L'immediatezza, il concedersi aperto e pieno a ciò che nasce interiormente imprevedibile e inatteso è irrinunciabile, è fondamentale e necessario, perchè è incontro con il flusso vitale, con il vero che continuamente cerca di farsi strada, di rendersi riconoscibile, senza omissioni, senza semplificazioni. L'immediatezza deve però coniugarsi, questo è fondamentale, con la capacità di ascolto, con la riflessività per intendere e per non mal interpretare, per accogliere la proposta interiore, per comprendere l'intimo vero significato e intenzione di ogni spinta e movimento del sentire, per non farne spreco o uso improprio. Se la tua interiorità ti fa vedere implicato in difese ferree, in fuga da qualsiasi responsabilità d'errore, se ti trascina nel vortice di possibili azioni estreme, di ipotetiche terribili tentazioni, se ti mostra tutto intento a spaccare il capello in quattro per vedere questo e il suo contrario come dilemma impossibile, significa che sei messo dinnanzi alla consapevolezza che hai orrore di tutto ciò che interiormente ti è diverso e sconosciuto, che coinvolgendoti ti può esporre e aprire al nuovo e all'incerto, al non scontato sicuro esito, alla non conferma di ciò che pensi o supponi di te stesso, a un'esperienza che non puoi trattare e governare col calcolo e col ragionamento, che viceversa richiede ciò che non hai: capacità di apertura, di riflessività vera, di dialogo interiore. Hai incapacità di rapporto col dentro, con la tua esperienza interiore viva, che tratti come tensione da scaricare subito, che ti rappresenti come meccanismo da tenere a bada (e idealmente, dove potessi, da dominare e regolare a tuo piacimento) e non come parte vitale di te e propositiva, intelligente, da ascoltare, capire e rispettare. Il cosiddetto DOC o disturbo ossessivo compulsivo non è una trappola assurda, vuole aprire una questione, che solo riscoprendo il rapporto con l'esperienza interiore, solo imparando a viverla e a rispettarla come parte essenziale di te, a conoscerla, a valorizzarla e ad amarla per ciò che sa originalmente dire e dare, può essere compresa e portata a maturazione. Nulla interiormente accade mai per caso o insensatamente. 

domenica 12 aprile 2015

Patire e agire, due espressioni umane inscindibili

Si fa spesso equivalere l’esperienza interiore dolorosa e spiacevole a un danno subito, a un guasto, a una situazione nociva di cui liberarsi. E' questo un motivo di riflessione, che ricorre nei miei scritti. Patire non è in sé esperienza infausta, è, quando interiormente si propone o impone, un percorso da fare per non astrarsi dal vero. E’ la nostra stessa interiorità che non tace, che non vuol tacere, che è attiva nel calarci nel vero, per conoscere, per favorire la nostra  presa di coscienza, per alimentare lo sviluppo della nostra autonomia. Non c’è nulla di maledetto o di superfluo nel patire, nel sentire spiacevole, tutto il sentire, anche nelle sue espressioni più dolorose o intricate, imprevedibili o "strane", evidenzia e conduce a riconoscere il vero. Se si impara a entrare in rapporto col sentire, se ci si dispone non al rifiuto e al giudizio, ma all'ascolto, se ci si dota di vera capacità riflessiva, di guardare e cogliere, di riconoscere, non in modo vago e approssimativo, ma attento e fedele, l'intimo disegno e proposta del sentire (capacità riflessiva che non ha nulla a che vedere col modo corrente di intendere la riflessione, come esercizio di ragionamento sull'esperienza), tutto il proprio sentire diventa occasione di avvicinamento a se stessi, terreno fecondo di presa di coscienza utile, anzi necessaria. Aggiungo che non intendo parlare del patire in chiave rassegnata, fatalistica o strumentale, del patire come mezzo per espiare o per trarre da lì qualche beneficio morale o altro. La modalità del patire, nel senso del lasciarsi prendere e segnare dal corso interiore dell‘esperienza, dell'entrare in intimo rapporto e scambio con ciò che si sta avvicinando per conoscerlo, è essenziale, è espressione umana intelligente, è complemento indispensabile della modalità, dell'espressione umana, altrettanto fondamentale, dell'agire, che cerca di cogliere il senso e di tradurlo in volontà di realizzazione. Nel sentire arduo, difficile c’è l’esperienza intima che fa entrare in rapporto, che fa toccare con mano, che fa riconoscere e comprendere. Non si conosce freddamente e dall’esterno, si conosce davvero e efficacemente, facendo intima esperienza, si conosce vivendo interiormente ciò che in questo modo, sentendo con vivacità di percezione e con precisione di particolari, può essere attentamente e validamente compreso. Accompagnando l’esperienza del patire con la capacità riflessiva di cui parlavo, assolutamente necessaria, che fa vedere cosa nelle pieghe e nell’intimo del proprio sentire accade, è possibile conoscere, prendere consapevolezza, in modo vivo e fondato, efficace, indelebile. Porto spesso l’esempio del camminare a piedi nudi, esperienza sensibile che permette di “capire” il terreno e di decifrare con precisione di dettagli il cammino che si sta facendo, per far intendere per analogia la funzione intelligente del sentire, anche quando doloroso, spiacevole, difficoltoso. Si pretende in genere di riservare al pensiero razionale, libero da interferenze e da "contaminazioni" emotive, la facoltà di conoscere al meglio, in modo lucido e affidabile. Il pensiero razionale in realtà, se scisso dal sentire, se non indirizzato dall’esperienza interiore, non fa, nella conoscenza di se stessi, che combinare schemi astratti, che impiegare definizioni di cui ignora l’origine e il significato, non fa che assecondare, senza ammetterlo e riconoscerlo, interessi di autoconferma, non fa che rigirare il già noto, anche quando appare innovativo o geniale. Senza guida interiore, senza il supporto del sentire, che dà base e fondamento vero alla ricerca, il pensiero vaga insensatamente tra congetture e spiegazioni spiantate, compie acrobazie utili solo a darsi vanagloria e illusione di capire. L’esperienza interiore non va selezionata e filtrata, cercando di eliminare, come fossero scorie o esperienze negative, le parti spiacevoli o di difficile comprensione immediata. Il dolore interiore non è parte negativa, è via e tramite necessario di conoscenza, a meno di voler rendere artificioso tutto, a meno di voler contraffare, per comodo, la conoscenza di se stessi. La propria interiorità non tace nulla, anzi spinge verso la consapevolezza che più serve per non rimanere ignari e disarmati, incapaci di capire e di dirigere la propria vita. Se il dolore è considerato come il subire lo sfavore di questo o quello, se è inteso come la “malattia” da cui essere salvati, davvero si finisce per non essere all’altezza delle intenzioni e dell'intelligenza della propria parte profonda.

sabato 11 aprile 2015

I due sguardi

E’ assai frequente in chi vive una situazione di sofferenza interiore la corsa precipitosa a cercare cause, in genere in altro da se stesso e soprattutto rimedi, dando per scontato che, se fa intima esperienza di difficoltà, di perdita di sicurezza e di fiducia, se imperversano interiormente paura, apprensione e angoscia in varia forma, cadute d’umore o altri “strani” grovigli o imperativi interni e tormenti, questo sia solo un guasto da sanare, una disfunzione dannosa da correggere. Chi è colto da malessere interiore è spesso allarmato, ma anche intollerante verso la sofferenza interiore, presto drammatizzata come trappola o sciagura, reclama come diritto il ritorno al normale solito, di corsa, per non farsi escludere dalla realtà conosciuta e comune, pensata come l'unica realtà possibile, assoluta, dimenticando o ignorando che reale è e diventa ogni passo avanti nella conoscenza e nella presa di coscienza personale, che può portare a concepire il nuovo, a fare la propria storia e non a fare lo spettatore o la comparsa nella storia comunemente raccontata e già allestita. E’ miope se non addirittura preoccupante, soprattutto se ciò coinvolge anche chi si sia dato il compito di dare aiuto e di curare, non riconoscere che l’interiorità dentro l'esperienza dolorosa segnala puntualmente ciò che vuole indurre a prendere sul serio, smontando illusioni e creando le basi, pur sofferte e scomode, di una presa di coscienza vera, di una trasformazione e di una crescita personale assolutamente necessarie e utili. Manca sia a chi è portatore di sofferenza, che al curante incline all'idea di cura come rimessa in ordine e come correzione di uno stato ritenuto pregiudizialmente anomalo e insano, la conoscenza dell'interiorità, del suo modo di proporsi, del significato della sofferenza interiore, manca il possesso di strumenti, come lo strumento riflessivo, la capacità di ascolto e di lettura del significato intimo del sentire, indispensabili per accogliere l'esperienza interiore sofferta e per comprenderne e valorizzarne la proposta. Impreparati a questo, senza consapevolezza che nulla dell'esperienza interiore è insensato e vuoto, semplicemente anomalo, protesi subito alla ricerca frettolosa di spiegazioni e soprattutto di rimedi, con l’idea che il disagio interiore sia comunque una irrazionale risposta e un limite da superare velocemente perchè nocivo, ci si acceca e si rende ancora più acuto il contrasto tra ciò che l'interiorità vuole testimoniare e promuovere e ciò che la parte cosiddetta conscia sentenzia e in affanno chiede e pretende: la normalizzazione. E' come non voler vedere ciò che il profondo dell‘individuo non vuole che si ignori più e cui chiede risposta matura e non atteggiamento sordo o qualche sciocco rimedio per aggirare il problema. C’è insomma spesso una completa incomprensione tra sguardo profondo che, senza far tanti complimenti, non concedendo tregua, vuole dare pungoli e indicazioni ferme e oneste, intelligenti e sagge di ciò che manca e che è critico, da chiarire, da verificare coraggiosamente e da trasformare di se stessi e lo sguardo della superficie razionale che, preoccupata più di stare in stretto legame e intesa con l'esterno che con il proprio intimo, non vuol saperne di contrattempi e ancora meno di ostacoli più seri al suo rimanere ignara, altrove da se stessi e da puntuali verifiche, in stato di qualsivoglia quiete o galleggiamento, purchè duri, senza grattacapi e intoppi.

mercoledì 25 marzo 2015

Uscire o entrare?

La richiesta più frequente, di apparente buon senso, di chi è alle prese con un'esperienza interiore fortemente difficoltosa è di essere aiutato a uscir fuori da quella pena, da quel groviglio doloroso. La scelta di venirne fuori pare coincidere con la propria messa in salvo, con la possibilità di riprendere un cammino più favorevole e riconosciuto sano, promettente, abbandonando quello che pare solo un pantano, una trappola. In realtà uscir fuori significa, squalificandola come sciagurata e pericolosa, perdente e negativa, remare contro, divergere rispetto alla tendenza di una parte di sè, interiore e profonda, viceversa a entrare, a non evitare, a non tacersi, anzi a mettere dito e oltre in qualcosa che il sentire vuole rendere appunto sensibile perchè sia riconosciuto, compreso. Un pò come in medicina sul terreno fisico il dolore, il cosiddetto disturbo è sintomo e può e vuole rendere riconoscibile una condizione più complessa, così il sentire, l'esperienza interiore accidentata e spigolosa, ardua e dolorosa rende tangibile e vuole portare vicino a una verità intima finora ignorata, a una presa di coscienza necessaria. Se in medicina sparare sul sintomo per metterlo a tacere è riconosciuto come condotta irresponsabile e stupida, perchè mette a rischio il paziente, di cui, zittendo il sintomo, si oscura la condizione sottostante più complessa, compromettendo la possibilità di indagarne e di conoscerne lo stato vero, così e ancor di più sul terreno psicologico, mettere a tacere come prima scelta, sparare contro una condizione interiore disagevole, bollandola come sfavorevole, negativa e basta o priva di ragioni, solo nociva, casomai con la messa in scena o simulazione di un chiarimento come si fa applicando un'etichetta diagnostica, è scelta scriteriata e niente affatto favorevole. Appiccicare un'etichetta diagnostica, che con parole un pò più tecniche e oscure casomai ripete quanto l'individuo già sa e può dire, non incoraggia certo l'ascolto, la comprensione più attenta, fedele e approfondita, anzi la chiude. Semmai incoraggia la delega al tecnico a far qualcosa per allontanare ciò che ora, dopo la "diagnosi", sembra solo una patologia. Da un lato la parte profonda di sè introduce e spinge attraverso il sentire a vedere e a prendere consapevolezza e dall'altra la volontà dell'individuo, persuaso di far bene e il proprio bene, è quella di scaricare il tutto, di venirne fuori. All'oscuro dunque di ciò che il proprio sentire voleva rendere riconoscibile, perchè, capendo, provvedesse, perchè ne facesse consapevolezza utile e capace di mutare propria visione, modi o scelte, l'individuo che è stato aiutato a uscir fuori, anzichè a entrare nella comprensione del suo sentire, non avrà certo mezzi utili per fare il proprio bene e interesse. Per avere mezzi e strumenti validi, per sventare rischi di infelice conduzione di se stesso, per comprendere ciò che più profondamente gli è necessario, per diventare più fedele interprete di se stesso, per capire ciò che c'è di vero, ciò che utilmente e necessariamente va trasformato e costruito, l'individuo ha vitale necessità di intendersi con se stesso, di capire ciò che sente, che dentro di sè preme e insiste per essere udito. Trattare come segnale di guasto, come cattivo sentire ciò che un individuo pur penosamente sente, racchiude il rischio di fare un serio danno, come in medicina può fare l'uso di sedativi per soffocare ciò che è segno emergente di una condizione fisica complessa da identificare e capire con cura e con  tempestività. Se ad esempio un individuo dolorosamente non riesce a trovare, vede cadere dentro di sè stima e fiducia in se stesso, se avverte perdita di interesse verso tutto, senso di lontananza da ciò che lo circonda, è fondamentale che non sia incoraggiato a uscire da quei vissuti, trattati subito come patologici e privi di motivo valido, ma semmai aiutato a entrarci per ascoltarli, per ben comprenderli in relazione a se stesso, senza stare a vedere se fuori di sè ha questo o quello di cui potrebbe già compiacersi o per cui potrebbe rimotivarsi. Capita infatti che sia necessario vedere il poco o nulla di sè che c'è in un modo di vivere pur all'apparenza convincente perchè "normale". L'interiorità non tace ciò che impegnativo va riconosciuto, non tace il vuoto di sè, la mancanza di motivi validi di compiacimento e stima verso se stesso, dove l'esistenza, di fattura normale, sia stata condotta in modo gregario, imitando, ripetendo, applicando e punto. Un segnale impegnativo e doloroso, ma vero, per arrivare davvero a intendere, a concepire e a desiderare il nuovo, una vita che abbia il proprio volto, fedele a sè, fatta di scoperte di significato proprie, di realizzazioni di matrice e costruzione propria. Ho portato in modo breve un esempio per far capire come definizioni come quelle per cui un vissuto doloroso sarebbe solo insano e deleterio, non avrebbe motivo d'essere e andrebbe rapidamente superato e spento, potrebbero essere oltre che una fandonia, un atto di irresponsabilità, un atto "curativo" tutt'altro che benefico. L'interiorità propone non di rado di entrare in percorsi interiori non facili, ma utili e necessari per capirsi, per vedere il vero con i propri occhi, per cambiare consapevolmente e convintamente, per crescere. Per prendersi davvero buona cura di se stessi è importante essere incoraggiati e validamente aiutati a entrare, a compiere quei percorsi, pur difficili, sviluppando la capacità di comprenderli intimamente, anzichè essere indotti dalla "cura" a nutrire ulteriore timore e diffidenza verso il proprio intimo sentire, ad avere ancora più insofferenza e impazienza di allontanarlo, di uscirne. E' importante e possibile essere aiutati a prendersi cura di se stessi per unire, per trovare unità con se stessi, per non remare contro e per non divergere da se stessi, per non coltivare, pur convinti di agire al meglio, solo la propria inconsapevolezza, per non disarmarsi, per non buttare via ciò che, tutt'altro che dannoso, se compreso, può aprire la strada per trasformare utilmente la propria vita, per renderla davvero la propria vita.

domenica 22 marzo 2015

La proposta interiore

A volte il nostro sentire ci avanza proposte, ci cala in vissuti, in sensazioni e in stati d'animo, in percorsi interiori, che non solo ci risultano spiacevoli e sgraditi, ma che possono addirittura generare in noi sgomento, smarrimento. Sembrano inquietanti oltre che dannosi. Si è inclini in simili casi, sull’onda di modi di pensare e di atteggiamenti comuni e diffusi, a trattarli come espressioni di un guasto, come pericolosi segnali di un congegno interno che pare fuori controllo, forse, si ritiene, perché logoro, compromesso da qualcosa di nocivo, da troppo patimento. In realtà in questi casi, in ciò che si vive interiormente, non c'è la fragilità di un organismo indebolito e afflitto, ma la fermezza e la lucidità di una proposta. Qualcosa interiormente vuole, non solo farsi udire forte e deciso, ma anche dare guide e occasioni di presa di coscienza, mirate e intelligenti, tutt'altro che segnali di malfunzionamento. La propria identità e il proprio bagaglio di consapevolezza non possono, per essere saldi e affidabili, che essere fondati su qualcosa che si riesce davvero a comprendere fino in fondo e da sè, a riconoscere attraverso esperienza interiore e riflessione, toccando nell'intimo con mano, riconoscendo implicazioni, significati vissuti e veri. Spesso ciò che si pensa essere il proprio patrimonio di idee, di valori e di convincimenti, la propria personalità per intero, sono in prevalenza il frutto di adattamenti all’ambiente, di rifacimento di idee, di atteggiamenti e di modi di trattare l'esperienza, presi in prestito, ispirati e modellati da consuetudine, da pensiero e da persuasioni comuni e prevalenti. Molto più impegno e sforzo nel corso della propria vita è stato messo per stare in legame e in intesa col mondo esterno che con se stessi. Va poi tenuto presente che la scoperta autonoma del vero costa in termini di ricerca, perchè l'applicazione del preconcetto è automatica, facile e immediata, così come la costruzione ragionata del pensiero è concatenazione semplice di idee preformate, anche quando ha apparenza ingegnosa e sofisticata, mentre la conquista di visione e di presa di coscienza che passa attraverso il vissuto è più lenta, impegnativa. Non solo, ma cercare il vero è scomodo, può imbarazzare, ferire il proprio orgoglio e mettere in crisi, inquietare, non dare spensieratezza. Standoci attenti, i modi di capire e di capirsi nel proprio procedere abituale sono consistiti più nell'omettere ricerca attenta, coraggiosa e sincera,  più nel rivestire la propria esperienza di significati convenzionali, che spesso hanno dato rassicurazione oltre che illusione di comprendere, che nel cercare con trasparenza i significati e le implicazioni vere di momenti, situazioni e scelte. Significativo il fatto che le proprie sensazioni e stati d'animo, pronti passo dopo passo a svelare, a dare supporto alla comprensione del vero, ci si sia abituati soltanto a catalogarli grossolanamente  come buoni o cattivi, come piacevoli o spiacevoli, come normali o no, a non ascoltarli e a non leggerli con attenzione, a non considerarli guide fondamentali per capire. Se nel corso dell'esperienza  il proprio sentire pareva in qualche modo concordare con quanto ci si aspettava e si sarebbe voluto ottenere e far funzionare, ci si diceva che andava bene, lo si trattava come musica di fondo o coloritura emotiva più o meno gradevole e ben accetta, se viceversa, come non raramente capitava, discordava, lo si relegava come fatto minore e secondario, pronti a sminuirlo, perchè tanto si trattava solo di parti "emotive“. Quando perciò accade che inaspettatamente il proprio sentire alzi i toni e dia segnali acuti, interiormente dolorosi, gravosi, ecco che allora la diffidenza, mista a paura, comincia a scavare il fossato, ad alzare il muro. In questi casi al proprio sentire, che per insistenza e per intensità  sta segnando in modo forte la propria sorte e vicenda, non mancherà di arrivare la bocciatura e la squalifica, perché ritenuto solo espressione "irrazionale", nel senso di inaffidabile e insensata, miope e senza intelligenza, sciagurata, fonte di danno e di sofferenza ingiustificata. Un colossale travisamento. Si vuole in realtà sistemare tutto subito, si vuole la conservazione e il ritorno al normale. Guai a prendere atto che l’edificio costruito, quello della propria personalità, non ha fondamenta vere e solide! In realtà molto spesso non si sa chi si è, si sono solo messe assieme nel tempo risposte di intesa con e per gli altri, idee prese in prestito e rimasticate, travestite da pensiero proprio per cercare di illudersi di sapere, cercando più di tirar avanti che di soffermarsi sul serio, di ascoltarsi con scrupolo e senza fughe. Dentro, nella parte di sè profonda, che si esprime nel proprio sentire, come nei propri sogni (notturni), la questione di chi si è e di quanto di consistente e di davvero corrispondente a se stessi si è scoperto, compreso e realizzato, non passa affatto inosservata. Perciò il proprio sentire dà segnali importanti, che possono intimorire, ma che, se saputi intendere, sono provvidi di suggerimenti e veritieri, tutt’altro che inaffidabili e sgangherati, tutt’altro che irrazionali e senza testa. La questione vera è imparare ad ascoltare, a comprendere il linguaggio dei propri vissuti, delle proprie sensazioni e stati d'animo, di tutto ciò che vive interiormente dentro se stessi, è imparare a reggere la tensione, a non fuggire e a riflettere, a rispecchiarsi, a leggere l'intimo di ciò che si prova. Sono infatti quelli interiori, comunque si propongano, non segni di guasto o anomali accadimenti, ma richiami e segnali che vogliono portare ad aprire gli occhi, che accentuano e che danno risalto e mettono in primo piano condizioni interiori che possono aiutare a capire il proprio stato e le insufficienze reali. Se ad esempio si prova senso di instabilità e di fragilità, di apprensione insistita, non è per caso, ma perchè nulla sinora è stato davvero compreso, perchè ci si muove da sempre sospesi e senza contatto e intesa profonda col proprio sentire, se si prova, dolorosamente senso di svuoto, di sconforto e mancanza totale di interesse verso tutto, non è per caso e senza motivo e senso, ma perchè nulla di ciò cui ci si è legati e cui si è dato credito e primato è veramente intimo e proprio, nulla è stato ed è vita e creatura propria davvero. I segnali interiori vogliono far capire che è ora di preoccuparsi di se stessi, di lavorare sul serio per vedere con i propri occhi la propria vera condizione, per conoscersi, per vedere che tutto ciò che sinora ci si è messi a disposizione è terribilmente fragile e che, questo sì, è inaffidabile. Senza sapere chi si è, senza conoscenze vere, all’inizio anche sgradite, perchè "impietosamente"  mostrano come fino ad oggi ci si è mossi, ( spesso più per imitazione e per senso comune che altro, più preoccupati di tenere a bada e di trarre considerazione e consenso dall’occhio altrui, che di cercare confronto sincero e attento con se stessi), si continuerebbe a muoversi lì dentro, intrappolati e illusi, indefinitamente. Senza risposte formate da sè, senza scoperta (che non è istantanea, ma che richiede incontro e confronto approfonditi con se stessi) di ciò che si è, che davvero appartiene, che profondamente si ama, che merita di essere realizzato, ci si troverebbe ciechi e impotenti, incapaci di aprire con passione e con convincimento la propria strada, di riconoscere e di  dirigersi verso i propri scopi, di avere autonomia di giudizio e forza di autogoverno. Se da dentro di sè arrivano, attraverso sentire scomodo e sofferto, richiami forti a preoccuparsi di se stessi, segnali incisivi e puntuali per leggere il proprio stato vero, è per indurre a provvedere per tempo, a non farsi bastare una maturità di facciata, non affidabile, che esporrebbe a percorsi gregari, a scelte di vita fatte per imitazione, a incapacità di produrre qualcosa di vitale, di far vivere ciò che profondamente corrisponde e appartiene. La propria interiorità è attiva nel dare segnali, che se ben intesi e raccolti, possono diventare la propria salvezza. Va fatto un lavoro serio su se stessi e con se stessi, per passare da personalità posticcia e senza fondamento a personalità vera, salda e fedele a se stessi. Se, di fronte a esperienze interiori sofferte e scomode, si insiste nell’impazienza di sistemare tutto subito, di difendere l'abituale e già conosciuto, se ci si mette senza esitazioni a squalificare le proprie sensazioni difficili e sofferte come insane e sbagliate, si corre il rischio di respingere l’invito, sanissimo, oltre che provvidenziale, a trasformarsi, per il proprio bene vero. C'è una parte di noi stessi che prende iniziativa, che per prima legge la nostra vera condizione, che non ignora le rinunce e i rifiuti presenti sul nostro cammino di vita di fondare su di noi le scelte, di veder chiaro rispetto al cercare aggiustamenti e compromessi, che vuole che ci prendiamo tutta la responsabilità del vero che ci riguarda. Tutto questo perchè ci riesca di affrancarci da una vita che non ci è fedele, che ci tradisce, che ci oscura, che, prima di tutto nei nostri pensieri, non rispecchia la verità e che perciò non può far vivere ciò che potremmo. La proposta interiore è sempre più saggia di qualsiasi pensata fatta col ragionamento, è ben più provvida e sana, capace di dare di ogni tecnica curativa volta a rimettere le cose in riga e al normale, a produrre aggiustamenti artificiali o sciocchi. L'inconscio non trova all'inizio nella parte conscia un interlocutore disponibile e aperto, in grado di condividerne pensieri e intenzioni. L'analisi, quando ben concepita e fatta, è questo: è avvicinamento al proprio profondo e non fuga ostile, è sviluppo della capacità di dialogo e di intesa con la propria interiorità, da cui trarre il meglio e cioè la propria intelligenza e verità.