domenica 27 maggio 2018
Idee tanto diffuse quanto improprie
domenica 11 febbraio 2018
La concezione piatta
Le probabilità, dentro un'esperienza di
sofferenza interiore, di pensare subito al rimedio, al modo per superare ciò
che, senza dubbi e esitazioni, è inteso soltanto come uno stato negativo da
correggere, sono elevatissime. Sembra risposta sorretta da argomenti ovvi e
inconfutabili. Si dà per scontato che ciò che si sta provando sia il rovescio
di ciò che sarebbe auspicabile e normale. Gli stessi tecnici della cura e
esperti della psiche sono pronti, non certo in pochi, a offrire soluzioni per
mettere le cose a posto, vuoi prescrivendo farmaci, vuoi offrendo tecniche
d'aiuto che vorrebbero togliere e sostituire ciò che è penoso e che non
permette di procedere a cuor leggero, con qualcosa di più felicemente positivo
e funzionale a ritrovare quello star bene che si ha pena d'aver perso o di non
aver mai raggiunto. Terapie che vorrebbero risistemare le cose, togliere le
spine nel fianco, sconfiggere modi di reagire e di sentire giudicati
disfunzionali, che farebbero solo danno, che non avrebbero scopo utile e nulla
di valido da dire, che non saprebbero far altro che creare ostacoli e limitazioni,
pene inutili e superflue. Sarebbero solo il residuo di modi sbagliati di vedere
e di pensare, insomma scorie e difettosi modi di funzionare, casomai dettati da
cattivi condizionamenti educativi e culturali o da adattamenti a situazioni
sfavorevoli divenuti via via sconvenienti e controproducenti. Questo modo di
leggere l'esperienza interiore è conforme e parte di una visione dell'individuo
tutta a senso unico di marcia e piatta. Se non si sta in buon equilibrio
apparente, se non si procede in modo sciolto e senza freni e ostacoli
interni, bisogna adoperarsi per correggere gli attriti e le disfunzioni, perché
tutto giri a meraviglia. L'individuo deve usarsi al meglio e esprimersi come
serve per stare in buona armonia con l'esistente e con le idee di normalità e
di buon funzionamento comuni e prevalenti, questa la regola e il principio
della concezione piatta. La vita fatta e concepita con prioritario e unico
riferimento all'esterno, all'esistente, all'insieme organizzato e pensato,
confermandone, passivamente, il disegno, il linguaggio e i significati,
rendendo cruciali, essenziali i legami con altro e con altri, consacrando il
tutto come "la realtà", da non perdere mai di vista e con cui non
perdere mai contatto pena il rischio di sentirsi persi, psicologicamente come
senza guida e senza risorse, senza ossigeno da respirare, tutto questo delimita
e consente, senza alternative, la concezione piatta. Che l'individuo abbia
facoltà e necessità irrinunciabile, pena il rischio di non esistere come
soggetto, di vedere in proprio e riflessivamente (come guardandosi allo
specchio) ciò che sta facendo di se stesso, di cercare risposte su ciò che è
come individuo unico e originale e non fatto in serie, su ciò che porta dentro
se stesso, risposte non certo già confezionate e a pronto uso, ma da trovare, è
questione e esigenza fondamentale che spesso sfugge. Sfugge la necessità di
crescita personale, di sviluppo di autonomia non di facciata, ma sostanziale e
vera, che implica scoprire ciò che secondo se stessi e riconosciuto con i
propri occhi ha senso e valore, senza farsi imbeccare e imboccare da idee già
pronte e in corso, ma attingendo e mobilitando tutto il proprio potenziale
interiore, lavorando con attenzione, di concerto con la propria interiorità,
sulla propria esperienza, attivando il proprio sguardo e capacità di ricerca.
Ciò che più profondamente si sarebbe inclini a amare e a desiderare di far
vivere, ciò che davvero darebbe senso, valore e pienezza alla propria vita può
rimanere sepolto, inaccessibile, tirando dritto e seguendo la concezione piatta
dell'esistenza e delle possibilità che concede. Cercando di zittire col
malessere interiore anche la pressione della propria interiorità a prendere
visione del proprio vero stato e di se stessi, a sviluppare finalmente la
consapevolezza che finora non ci si è curati di formare, si finisce per pensare
e per muoversi nell'unica direzione che la visione piatta a senso unico
consente. Che l'individuo sia fatto oltre che di una superficie di volontà e di
capacità di pensiero razionale (che lavorando da solo, senza la guida del
sentire, più spesso di quanto non si creda, nella conoscenza di se stessi,
ricalca e rigira il già conosciuto, copre la verità anziché svelarla) anche di
una parte profonda, di gran peso e presenza, che nel sentire parla di continuo
e spinge al vero, che nei sogni offre occasioni di pensiero assai vicino e
corrispondente a se stessi, non ripetitivo di altro, aperture lucidissime di
sguardo riflessivo attento e affidabile, tutto questo sembra ignorato. Sembra ignorato
e sembra stare fuori dalla visione e dalla concezione sia di chi sente
malessere e che è alle strette con i richiami e con le pressioni della sua
parte profonda, sia di chi, non in piccola schiera, si offre come terapeuta. La
visione piatta vuole che tutto giri in un'unica direzione, nel verso del buon
regolare funzionamento, ignorando che il complicarsi della vicenda interiore è
espressione di un intervento della parte profonda che non vuole tacere, che
vuole richiamare l'individuo al compito di capirsi e di capire dove sta
conducendo la sua vita e dentro quali vincoli e modalità, di prendere atto di
quanto ignora ancora di se stesso e non ha ancora formato come capacità di
vedere e di concepire a modo proprio. Altro che disfunzioni! Ansia, attacchi di
panico, fobie o cadute depressive, grovigli ossessivi, tutte queste espressioni
della vita interiore hanno da dire e da richiamare a compiti di presa di
coscienza e di uscita da un modo inconsapevole, passivo, uniforme con altro,
incapace di mettere d'accordo il proprio pensare e il proprio sentire, un modo
spesso perdente e vano di spendere la propria vita, a dispetto delle apparenze
e del conforto di opinioni esterne a sé. Nel rapporto con la propria esperienza
interiore, nel modo di considerarla e di trattarla, c'è necessità di liberarsi
da automatismi di pensiero e di risposta, non importa se ampiamente condivisi,
che accecano e che portano lontano da se stessi, c'è necessità di affrancarsi
da una concezione piatta di se stessi e della propria vita, che accredita e che
spinge verso un presunto star bene, che umilia il proprio essere anziché
esaltarlo.
domenica 28 gennaio 2018
La triste sorte
domenica 21 gennaio 2018
L'equivoco del rimedio naturale
Chi non intende che ciò che sta provando, pur
insolito, doloroso, disagevole, ha un senso, che non è patologia da sanare, ma
che racchiude una proposta e un potenziale utile e necessario da imparare a
comprendere e a valorizzare, cerca con affanno e con ostinazione un modo e un
mezzo per mettere a tacere, per sbarazzarsi di ciò che considera solo un danno
per se stesso. Convinto di prendersi in questo modo cura di se stesso e di
difendere i propri interessi, cerca qualcosa che agisca per zittire e per
dissolvere possibilmente ciò che interiormente considera solo un disturbo, una
alterazione che comprometterebbe il suo buon vivere e "normale". La
stessa ricerca delle cause del malessere interiore è una delle opzioni nella
ricerca dei rimedi, concepiti per venir fuori da una condizione disagevole.
Pare scelta più lungimirante e aperta del ricorso a armi chimiche,
farmacologiche impiegate per combattere e per mettere a tacere il malessere, ma
muove sempre dall'idea, meglio sarebbe dire dal pregiudizio, che ciò che
l'individuo sta vivendo interiormente di arduo e disagevole sia uno stato
anomalo e negativo, che va ricondotto a una causa, a un fattore sfavorevole, a
un cattivo condizionamento, a un trauma, che avrebbe provocato un guasto e
compromesso il normale e fisiologico sviluppo. Pare scontato che le cose stiano
così e tutta un'offerta di cure asseconda e alimenta questa idea, l'infermeria
sociale che si propone di curare i disagi interiori offre e suggerisce mille
rimedi, chimici di sintesi o naturali, psicologici. Il rimedio cosiddetto
naturale pare a molti più benevolo e rassicurante, meno rudemente estraneo e
minaccioso di effetti, più o meno collaterali, dannosi del farmaco. Cosa c'è in
questo ricorso a prodotti e mezzi naturali di davvero naturale e nel rispetto
della propria natura? Per chi si sta confrontando con un'esperienza interiore
difficile sarebbe assai utile e opportuno frenare la propria corsa, condotta
con affanno e con ostinazione, alla ricerca dell'arma che debelli il presunto
male, sarebbe importante non cadere nell'illusione che ci sia arma meno
rischiosa e più buona ricorrendo a rimedi cosiddetti naturali piuttosto che
farmacologici. Nelle intenzioni e nell'atteggiamento di chi ne fa uso si
tratterebbe infatti in ogni caso di porsi in urto ostile con la propria
esperienza interiore, facendo leva su un rimedio, su un'arma, naturale o
sintetica che sia, per neutralizzare e togliere di mezzo ciò che sta provando.
E' importante non dare per scontato nulla, è fondamentale interrogarsi su ciò
che il proprio malessere è realmente e può valere, su ciò che significa e
propone, anche se al momento impreparati e senza mezzi per ascoltarsi e per
capire il linguaggio interiore. Solo così si potrà valutare attentamente in
cosa consista prendersi davvero cura di se stessi, cosa sia fare il
proprio bene e interesse. Solo uscendo da facili luoghi comuni si potrà
comprendere quale sia la risposta o se vogliamo usare il termine rimedio, quale
sia il rimedio davvero naturale. La risposta più naturale al malessere e alla
crisi, che rispetti la propria natura e che la assecondi, che non alimenti
dissociazione e conflitto con la parte intima e profonda di se stessi, che
favorisca l'unità del proprio essere, che scaturisca da se stessi e che non si
avvalga di altro e estraneo, è la conquista e l'esercizio da parte propria
della capacità riflessiva, della capacità di accogliere e di riconoscere in ciò
che si sente, che si prova interiormente l'originale e vero significato e la
proposta. Può servire un valido aiuto non già per combattere e per eliminare,
per sradicare il malessere come scopo primario, bensì per imparare a
ascoltarsi, a entrare in rapporto e a raccogliere l'intima proposta del proprio
sentire. Non c'è nulla di peggio, non c'è peggior danno alla propria natura del
porsi in contrasto, del cercare di eliminare, di far fuori ciò che la propria
parte vitale profonda sta dicendo a se stessi attraverso il vissuto, di
considerare pregiudizialmente nemico il proprio sentire, non importa se
disagevole e in apparenza, solo in apparenza, sfavorevole o nocivo. Può
accadere che ciò che si sente intralci il modo consueto di procedere, che la
parte profonda di se stessi soprattutto all'inizio, per incidere, per farsi
ascoltare, per spingere a occuparsi di se stessi e della propria sorte, per
spingere a lavorarci sopra, blocchi o riduca la funzionalità dell'agire,
dell'andare, del fare, che renda il proprio quadro interiore niente affatto
godibile e tranquillo. Ciò però non significa che l'intervento del profondo,
che quanto si sta interiormente vivendo, vada contro i propri interessi più
veri e profondi. Se si sviluppasse, con l'aiuto adatto, capacità riflessiva,
capacità cioè di vedere l'intimo volto e di riconoscere l'autentico significato
di ciò che si sta provando, di capire cosa il proprio sentire sta dicendo e
spingendo a vedere, a conoscere, non si trarrebbe certo danno da simile
rapporto e si scoprirebbe che c'è tanto di nuovo di se stessi da comprendere per
non perdere di vista ciò che per sè più conta. Il normale procedere, che tanto
si teme di perdere e che il malessere interiore sembra intralciare e
compromettere, è spesso infatti forma di pensiero e di procedere imitativa
d'altro, presa in prestito e non coerente con se stessi, rischia di essere
forma vuota e non ricca di sè di condurre la propria vita, più in armonia con
altro e con altri che con se stessi. Il rimedio più naturale al malessere e
alla crisi interiore è recuperarne il potenziale, è farne tesoro, è
comprenderne e assecondarne gli intenti e i pungoli di crescita e di
trasformazione nel verso del conoscere e del diventare se stessi. Viceversa la
corsa al rimedio, che sia farmacologico o naturale poco importa, inteso e usato
come mezzo per tentare di spegnere e di spazzare via ciò che difficile e
disagevole si sente, anche se ritenuta utile e positiva, è in realtà scelta
lesiva della possibile intesa e unità con se stessi, distruttiva di ciò che
potrebbe nascere e crescere dall'incontro e dal dialogo con la propria
interiorità che quel sentire propone, è scelta innaturale, diretta contro la
propria natura.
venerdì 1 settembre 2017
Non mente mai
domenica 6 agosto 2017
Con le buone o con le cattive
In presenza di malessere interiore si verifica un
conflitto tra la componente cosiddetta conscia dell'individuo, tutta
sbilanciata dalla parte di ciò che crede di conoscere e su cui è abituata a
fare leva, protesa a difenderne la continuità e a far valere lo status quo e la
sua interiorità, la parte intima e a fin di bene, perché non accada il peggio.
Il peggio per l'individuo è di procedere illuso di sapere e di conoscere ciò
che va difeso a oltranza e mantenuto nel proprio interesse, in realtà senza
capire cosa sta davvero facendo di se stesso, in realtà senza ancora aver
conosciuto nulla di se stesso e del proprio potenziale. In questa situazione di
conflitto, in cui la parte profonda, aprendo la crisi, spinge perché si produca
un profondo quanto salutare cambiamento, in cui col malessere preme perché
l'individuo si coinvolga per intero, ceda a far sua questa necessità di
trasformazione, ne prenda coscienza e cooperi per produrla, accade invece che
l'individuo, ignaro di questi perché del malessere, di queste ragioni della
propria interiorità, convinto di sapere già con certezza cosa va affermato e
mantenuto, si aspetti in genere che a cambiare debba essere la propria
interiorità, che sia pronto a battersi per ottenere questo. L'individuo in
genere auspica, persuaso di avere tutte le ragioni dalla sua, che la sua
interiorità, che insiste nel proporre qualcosa di interiormente difficile e
sofferto, si rimetta in riga, smetta di dare fastidi e tormento, smetta di
intralciare. Anzi l'individuo vorrebbe che le proprie risposte interiori
fossero concordi e solidali, di appoggio e non di ostacolo al suo sforzo, alla
sua pretesa di perseguire i risultati e le prestazioni giudicate normali
e positive secondo modelli e idee comuni. Con le buone o con le cattive. C'è
chi trova che evadere e non dare peso, non concedersi alla presa del malessere
e non esserne impensieriti, sia la scelta giusta e vantaggiosa. E' come dire a
se stessi, alla propria interiorità: tu mi rompi e insidi la mia tranquillità e
buon umore, ostacoli la mia voglia di procedere indisturbato, il mio diritto di
stare bene e io ti ignoro, non ti do peso. C'è chi, vedendosela brutta, perché
l'interiorità sa essere cocciuta, cerca nei farmaci, previo il verdetto di
qualche psichiatra o figura simile, che con la diagnosi, con l'apposizione di
una etichetta dia l'illusione che sul (presunto) guasto ci sia finalmente una presa
sicura, lo strumento per zittire e per raddrizzare la parte di sé che non vuole
tacere. C'è chi ancora cerca una terapia psicologica, che, come quelle di tipo
cognitivo comportamentale, oggi assai in voga, prometta di aggiustare presto le
cose, affidandosi a chi diriga e impartisca istruzioni e schemi di nuovo
comportamento, tecniche per imbrigliare o per correggere quelle che paiono
soltanto anomale risposte, paure di troppo e assurde, strani grovigli, cadute
di fiducia inspiegabili e nocive. Tecniche terapeutiche, a volte dai nomi
suggestivi e catturanti, che parlano di strategie e di modifiche in tempi brevi
dei modi di pensare e di reagire, giudicati sbagliati, in gergo tecnico
"disfunzionali", sembrano il toccasana, il sostituto del rimedio
chimico, ma per ottenere il più in fretta possibile lo stesso risultato: porre
fine a esperienze interiori che sembrano solo una sciagura e un modo guasto di
sentire, di reagire, di vivere, ottenere che tutto giri nel verso giudicato
sano e positivo. Per finire c'è chi, disposto a seguire un cammino di ricerca
più impegnativo, vorrebbe essere aiutato a trovare la causa del suo malessere,
partendo sempre, né più né meno di chi ha scelto le strade dette prima, dal
presupposto che la propria esperienza interiore stia dando segni di guasto e di
malfunzionamento. La causa sarebbe quel fattore x, preferibilmente rinvenibile
nel proprio passato, che nella forma di un cattivo condizionamento, di una
influenza negativa, di un affetto negato o esercitato in modo distorto da
familiari o simili, di un trauma, avrebbe inceppato e reso anomalo il proprio
sviluppo, lasciato tracce e conseguenze ancora presenti. Insomma l'idea di
fondo è che tutto avrebbe dovuto svolgersi e svilupparsi regolarmente e bene e
che qualcosa abbia scassato il meccanismo. L'idea è che nell'esperienza
interiore disagevole di oggi ci siano i segni di un torto patito, che ci
siano i modi di rispondere emotivi dettati e insiti in esperienze negative
trascorse, che tendono a ripetersi, a permanere. Trovata la causa pare trovata
la via di uscita, l'occasione per liberarsi di quelle reazioni e risposte
emotive, per saldare il conto, per affrancarsi finalmente da quelle ombre del
passato, per mettere a tacere il proprio malessere interiore. Poco importa che
(succede in non poche psicoterapie che vorrebbero definirsi di tipo analitico),
dopo aver trovato la causa, cosa che se da un lato fa contento lo
psicoterapeuta, che può dimostrare di aver saputo svolgere il suo compito,
dall'altro pare dare sollievo immediato all'individuo in terapia, che può dirsi
che ora sa, che ha capito, che è andato finalmente alla radice del problema,
accada non raramente che la sua esperienza interiore continui a riservargli la
sgradita presenza di una inquietudine, di un malessere che non demorde, che
ancora la sua esperienza viva interiore rimanga ai suoi occhi alla fin fine
qualcosa di scomodo e fastidioso da fronteggiare. A questo punto la risposta
dell'individuo, la sua auto rassicurazione è che ora potrà gestire meglio le
sue emozioni, le sue esperienze interiori. Gestire come si gestisce un
meccanismo, una cosa appunto, da tenere a bada. La scoperta della causa gli
fornisce il mezzo per rispondere all'esperienza interiore difficile con un
atteggiamento del tipo: adesso so perché sento questa ansia, so perché reagisco
così, non perderò il controllo, aspetterò che si moderi, cercherò di
conviverci. In sostanza accade che, dal momento della individuazione della
presunta causa, al proprio sentire si metta sopra una spiegazione fissa, la
spiegazione di causa e effetto elaborata in psicoterapia, senza ascoltarlo ogni
volta in ciò che ha da dire, che vuole rendere tangibile e riconoscibile in
quel momento, cosa peraltro che non gli è stata concessa e garantita
neppure nella fase della ricerca della causa. In questi casi, non certo
rari, il rapporto con se stessi non è cambiato, da un lato c'è il ragionamento
che ha sistemato le sue idee e convinzioni, illuso di avere chissà quale nuova
consapevolezza e dall'altro continua a esserci un'interiorità con cui permane
incapacità di apertura, di sintonia e di incontro, con cui non c'è dialogo e
confidenza. Ancora c'è un sentire, il proprio sentire, che in ciò che dice
continua a non essere ascoltato, a essere spiegato con formule rigide, a non essere
compreso nel suo linguaggio, in ciò che vuole fare toccare con mano e
conoscere, in ciò che vuole comunicare. Ahimè l'interiorità in un caso o
nell'altro, presa con le buone o con le cattive, continua a essere oggetto di
incomprensione e della pretesa che in qualche modo cambi, che si
"aggiusti", che si normalizzi. E' davvero un paradosso, la propria
interiorità è la parte del proprio essere, tutt'altro che scriteriata e
inaffidabile e da tenere a bada, che, se compresa, potrebbe come è nelle sue
intenzioni (col sentire, con tutti gli svolgimenti interiori, non certo
insensati, con i sogni) guidare, con fermezza, lucidità e saggezza, al
cambiamento, che vorrebbe dare linfa, spinta e occasione per avvicinarsi a sé,
per conoscersi davvero e apertamente, per vedere con i propri occhi e non
attraverso la lente dei giudizi convenzionali e comuni, per trovare le proprie
ragioni d'esistenza, per trasformare il proprio pensiero da astratto e
convenzionale a pensiero vivo, originale e fondato e invece... Invece si chiede
proprio alla parte interiore di sé, la più preziosa, valida e capace, di
mettersi in riga, di ritornare finalmente a uno stato di "normale"
funzionamento, lasciando l'altra parte in pace e libera di proseguire, non
importa se, in assenza di guida propria, a rimorchio di idee, di schemi e di
valori presi in prestito e preconfezionati, con l'illusione di sapere e di
decidere, in realtà senza comprensione dei significati veri insiti nelle
proprie esperienze, senza verifica e scoperta di ciò che per sé vale davvero,
senza conoscenza profonda di se stessi e di ciò che di sé vorrebbe vivere e
realizzarsi. L'interiorità che potrebbe ridare all'individuo la sua vera
identità e il suo bagaglio di idee e di passioni autentiche e fondate, che
potrebbe condurlo a trovare, a generare tutto ciò che gli manca per essere
individuo completo e autonomo, deve solo tacere e mettersi in riga. Con le
buone o con le cattive, perché le cose rimangano quelle di sempre, normali,
regolari, in buona intesa con altri e con tutto, fuorché con se stessi.
domenica 16 luglio 2017
Felicità rubata? Incapacità di essere felici?
domenica 25 giugno 2017
Controcorrente
domenica 4 dicembre 2016
"Agorafobia". Qualche spunto di riflessione
martedì 1 novembre 2016
L'interiorità. C'è più da ricevere e imparare che da correggere e sanare.
martedì 25 ottobre 2016
Maledetta ansia? Le tue radici
giovedì 22 settembre 2016
il punto critico
domenica 19 giugno 2016
Il percorso analitico
venerdì 17 giugno 2016
Apertura e intelligenza
Cosa richiede il malessere interiore, quale
cura? In due parole direi: apertura e intelligenza. Il malessere interiore è
ispirato e tenuto vivo dalla parte più intelligente e lungimirante
dell'individuo, anche se frequentemente ignorata e sottovalutata, anche se
malintesa e spesso bistrattata. Il profondo, l'inconscio non cessa di avanzare
proposte intelligenti, ispirate non già dalla preoccupazione di sistemare alla
bell'e meglio le cose, di mantenere integro e in buona forma, di dare conferme
a un modo di procedere e un'idea di se stessi imperanti, che non vorrebbero
intralci, che si considerano insostituibili, ma viceversa dal proposito di
parlar chiaro e sincero, di non tacere contraddizioni e vuoti, di spingere
verso cambiamenti importanti, fedeli a se stessi profondamente e dalle solide
fondamenta. L'inconscio non è perso dietro illusioni, vuole non seppellire la
consapevolezza, vuole che adulti si diventi nel segno di dare al mondo il
proprio e non di farsi dire cosa inseguire e come essere per ricevere conferma
o plauso. L'inconscio vuole consapevolezza, vuole che ci sia crescita vera, è
un pungolo, è un maestro esigente, cui non fanno difetto il coraggio e la
determinazione, l'intelligenza e la saggezza. Per corrispondergli, per non
remargli contro è necessario dare apertura e non chiusura ostile e pregiudizio.
E' necessario disporsi a conoscere e a capire, a fare un lavoro attento e
approfondito, senza scorciatoie e senza inganni, senza semplificazioni, senza i
bluff e gli imbrogli del ragionamento, del modo di pensare razionale, che non
ha supporto e che non cerca guida nel sentire. Ci vuole intelligenza, perchè è
sul piano del pensare intelligente e riflessivo, che guarda (come guardandosi
allo specchio, riflessivamente) nell'intimo di se stessi e della propria
esperienza, che si muove l'inconscio, che si svolge la sua iniziativa, che si
esprimono sia i sogni che i vissuti, gli stati d'animo e le emozioni, che tutto
il corso della vicenda interiore, che l'inconscio regola e governa. La cura del
malessere e della crisi interiore, il prendersi cura di se stessi in due
parole: apertura e intelligenza. Quanto manchino nei modi di prendersi cura più
abituali, nei metodi di cura più frequenti è sotto gli occhi di tutti. Ne sono
esempio l'utilizzo sempre più esteso di psicofarmaci, cioè di armi
chimiche per tentare di mettere a tacere e in riga come fossero bizzarrie e
assurdità, anomalie e disturbi, i richiami e i segnali interiori intelligenti
(anche se sofferti, anche se non piacevoli), la proposta assai diffusa di
psicoterapie direttive, che vorrebbero condurre a correggere e a riplasmare le
risposte interiori (non comprese nel loro vero significato e intendimento,
assolutamente opportuni e intelligenti) ritenute, senza dubbi e esitazioni,
"disfunzionali", cioè immotivate, irrazionali, sfavorevoli. Il
malessere interiore, vissuto e interpretato spesso (da chi lo vive, ma anche
anche dai modi delle cure prevalenti) come presenza nemica, come minaccia e
ostacolo da eliminare, se ben compreso in ciò che vuole dire, promuovere e
aprire, va contro e attenta in realtà a un'unica cosa, alla chiusura mentale e
al rifiuto di spendersi per se stessi in coraggio e in intelligenza.