domenica 27 maggio 2018

Idee tanto diffuse quanto improprie

Il confronto con se stessi richiederebbe capacità di ascolto, di intendere il senso e le ragioni del proprio interlocutore, in questo caso del proprio interlocutore interno. Viceversa è abituale la risposta di intolleranza e di pregiudizio, di giudizio liquidatorio, che, senza dubbi e esitazioni, decreta che il sentire doloroso e arduo è esperienza negativa, anomala, un che di fortemente sgradito e considerato nocivo, sul cui conto già si scarica ostilità e diffidenza, ancor prima di conoscerne le intenzioni e la proposta. Appiattiti sull'idea dell'esistenza di un normale e fisiologico modo di procedere, sostenuti dalla persuasione che gli altri viaggino senza ostacoli interiori e spensierati, ben compatti nell'avanzare convinti e soddisfatti, in ogni caso senza pene e crucci così pervasivi e condizionanti, senza essere coinvolti in modo così intenso da vicissitudini interne, ci si dispone subito alla guerra senza ma e senza se contro parte di se stessi intima che insiste con tensioni e ansietà, con vissuti di scoramento e assenza di fiducia, con paure che non demordono. La farmacia e l'infermeria dei rimedi per sanare e sistemare il "disturbo" sono sempre aperte. L'idea e la pratica diffuse della cura come proposito di eliminazione del carico interiore “negativo”, come tentativo di correzione, di risanamento e di bonifica delle negative e nocive, presunte tali, esperienze interiori, non fanno che confermare e rendere ancora più persuasi che la lotta per mettere a tacere o per rimettere in riga e al dritto l'esperienza interiore disagevole sia una guerra giusta, ovvia, senza discussione. Ci può essere in alcuni l'idea che il malessere interiore non sia casuale, che non si proponga invano e inutilmente, senza fondamento, che possa indicare l'esistenza di un problema. Il problema è subito però collocato all'esterno, in qualcuno o in qualcosa che non va, che non è compatibile, con cui non c'è quel che dovrebbe esserci per stare bene. L'idea che il passato soprattutto o il presente non abbiano dato ciò che avrebbero dovuto o che dovrebbero è ricorrente. Che ci sia un problema di lontananza da se stessi, di dissociazione, cioè di mancata unità, di mancate capacità e volontà di intesa e di accordo con la propria interiorità, di modo di vivere che va più secondo guide e soluzioni esterne e già concepite che secondo propria visione e consapevolezza, mai cercate e generate, non sfiora pressoché nessuno. L'interlocutore interno, la propria interiorità preme e non dà tregua non per caso, dice e solleva con forza nel malessere la questione della condizione fragile e inconsistente in cui si è anche a dispetto di ciò che si presume, condizione in cui, senza guida interna, senza autonomia vera, che scongiuri il pericolo di contrarre dipendenza da idee comuni, da qualcosa e da qualcuno cui affidare il compito di essere risposta valida e risolutiva alle proprie aspirazioni e necessità, farsi portare e legarsi a guide esterne, pur con l'illusione di dire la propria e di dirigersi da sè, diventano pratica fatale già sperimentata e tendenza incombente. Il comune modo di intendere la vita e di procedere rischiano di essere i soli riferimenti e le guide, gli indicatori su come fare per procedere, per dare compimento e sviluppo alla propria vita o per trarsi in salvo dal pericolo di rimanere soli e tagliati fuori. La solitudine come incubo del vuoto, dell'emarginazione, dell'inaridimento, della perdita di contatto con la cosiddetta realtà e con le opportunità che offrirebbe e ritenute essenziali, diventa lo spauracchio e lo stimolo a fuggire da se stessi, il pericolo da scansare, piuttosto che quello della propria mancanza di unità viva con se stessi e di radici, di scoperte di significato, di convinzioni fondate e vere. Non c'è vita in realtà se non si attinge a se stessi, se non si trova incontro col proprio interlocutore interno, capace di dare impulso e materia viva (come sa fare nel sentire e nei sogni soprattutto) alla scoperta di chi si è, alla formazione di  pensiero e di convinzioni proprie fondate e vive e non appiccicate come con i ragionamenti e con le ideologie. Il malessere interiore è la presa di posizione forte dell'interlocutore interno, che vuole che la priorità sia ritrovarsi e concepire il proprio, vederci chiaro su come si sta procedendo, senza travisamenti e persuasioni di comodo, senza rinvii. Nulla è più salutare del vederci chiaro e del trovare unità di intenti e di visione con se stessi, del trovare proprie risposte e passione di vivere convintamente secondo se stessi. Il negativo, presunto, del malessere che sarebbe ostile o semplice richiamo per cambiare in fretta all'esterno qualcosa o qualcuno è un teorema, l'insistere da parte propria, pur sostenuti da mentalità comune e da non poco diffuse teorie e prassi di non pochi curanti, nel ribadirlo è il vero limite e fonte di danno per se stessi, la vera disfunzione e anomalia.

domenica 11 febbraio 2018

La concezione piatta

Le probabilità, dentro un'esperienza di sofferenza interiore, di pensare subito al rimedio, al modo per superare ciò che, senza dubbi e esitazioni, è inteso soltanto come uno stato negativo da correggere, sono elevatissime. Sembra risposta sorretta da argomenti ovvi e inconfutabili. Si dà per scontato che ciò che si sta provando sia il rovescio di ciò che sarebbe auspicabile e normale. Gli stessi tecnici della cura e esperti della psiche sono pronti, non certo in pochi, a offrire soluzioni per mettere le cose a posto, vuoi prescrivendo farmaci, vuoi offrendo tecniche d'aiuto che vorrebbero togliere e sostituire ciò che è penoso e che non permette di procedere a cuor leggero, con qualcosa di più felicemente positivo e funzionale a ritrovare quello star bene che si ha pena d'aver perso o di non aver mai raggiunto. Terapie che vorrebbero risistemare le cose, togliere le spine nel fianco, sconfiggere modi di reagire e di sentire giudicati disfunzionali, che farebbero solo danno, che non avrebbero scopo utile e nulla di valido da dire, che non saprebbero far altro che creare ostacoli e limitazioni, pene inutili e superflue. Sarebbero solo il residuo di modi sbagliati di vedere e di pensare, insomma scorie e difettosi modi di funzionare, casomai dettati da cattivi condizionamenti educativi e culturali o da adattamenti a situazioni sfavorevoli divenuti via via sconvenienti e controproducenti. Questo modo di leggere l'esperienza interiore è conforme e parte di una visione dell'individuo tutta a senso unico di marcia e piatta. Se non si sta in buon equilibrio apparente, se non si procede in modo sciolto e senza freni e ostacoli interni, bisogna adoperarsi per correggere gli attriti e le disfunzioni, perché tutto giri a meraviglia. L'individuo deve usarsi al meglio e esprimersi come serve per stare in buona armonia con l'esistente e con le idee di normalità e di buon funzionamento comuni e prevalenti, questa la regola e il principio della concezione piatta. La vita fatta e concepita con prioritario e unico riferimento all'esterno, all'esistente, all'insieme organizzato e pensato, confermandone, passivamente, il disegno, il linguaggio e i significati, rendendo cruciali, essenziali i legami con altro e con altri, consacrando il tutto come "la realtà", da non perdere mai di vista e con cui non perdere mai contatto pena il rischio di sentirsi persi, psicologicamente come senza guida e senza risorse, senza ossigeno da respirare, tutto questo delimita e consente, senza alternative, la concezione piatta. Che l'individuo abbia facoltà e necessità irrinunciabile, pena il rischio di non esistere come soggetto, di vedere in proprio e riflessivamente (come guardandosi allo specchio) ciò che sta facendo di se stesso, di cercare risposte su ciò che è come individuo unico e originale e non fatto in serie, su ciò che porta dentro se stesso, risposte non certo già confezionate e a pronto uso, ma da trovare, è questione e esigenza fondamentale che spesso sfugge. Sfugge la necessità di crescita personale, di sviluppo di autonomia non di facciata, ma sostanziale e vera, che implica scoprire ciò che secondo se stessi e riconosciuto con i propri occhi ha senso e valore, senza farsi imbeccare e imboccare da idee già pronte e in corso, ma attingendo e mobilitando tutto il proprio potenziale interiore, lavorando con attenzione, di concerto con la propria interiorità, sulla propria esperienza, attivando il proprio sguardo e capacità di ricerca. Ciò che più profondamente si sarebbe inclini a amare e a desiderare di far vivere, ciò che davvero darebbe senso, valore e pienezza alla propria vita può rimanere sepolto, inaccessibile, tirando dritto e seguendo la concezione piatta dell'esistenza e delle possibilità che concede. Cercando di zittire col malessere interiore anche la pressione della propria interiorità a prendere visione del proprio vero stato e di se stessi, a sviluppare finalmente la consapevolezza che finora non ci si è curati di formare, si finisce per pensare e per muoversi nell'unica direzione che la visione piatta a senso unico consente. Che l'individuo sia fatto oltre che di una superficie di volontà e di capacità di pensiero razionale (che lavorando da solo, senza la guida del sentire, più spesso di quanto non si creda, nella conoscenza di se stessi, ricalca e rigira il già conosciuto, copre la verità anziché svelarla) anche di una parte profonda, di gran peso e presenza, che nel sentire parla di continuo e spinge al vero, che nei sogni offre occasioni di pensiero assai vicino e corrispondente a se stessi, non ripetitivo di altro, aperture lucidissime di sguardo riflessivo attento e affidabile, tutto questo sembra ignorato. Sembra ignorato e sembra stare fuori dalla visione e dalla concezione sia di chi sente malessere e che è alle strette con i richiami e con le pressioni della sua parte profonda, sia di chi, non in piccola schiera, si offre come terapeuta. La visione piatta vuole che tutto giri in un'unica direzione, nel verso del buon regolare funzionamento, ignorando che il complicarsi della vicenda interiore è espressione di un intervento della parte profonda che non vuole tacere, che vuole richiamare l'individuo al compito di capirsi e di capire dove sta conducendo la sua vita e dentro quali vincoli e modalità, di prendere atto di quanto ignora ancora di se stesso e non ha ancora formato come capacità di vedere e di concepire a modo proprio. Altro che disfunzioni! Ansia, attacchi di panico, fobie o cadute depressive, grovigli ossessivi, tutte queste espressioni della vita interiore hanno da dire e da richiamare a compiti di presa di coscienza e di uscita da un modo inconsapevole, passivo, uniforme con altro, incapace di mettere d'accordo il proprio pensare e il proprio sentire, un modo spesso perdente e vano di spendere la propria vita, a dispetto delle apparenze e del conforto di opinioni esterne a sé. Nel rapporto con la propria esperienza interiore, nel modo di considerarla e di trattarla, c'è necessità di liberarsi da automatismi di pensiero e di risposta, non importa se ampiamente condivisi, che accecano e che portano lontano da se stessi, c'è necessità di affrancarsi da una concezione piatta di se stessi e della propria vita, che accredita e che spinge verso un presunto star bene, che umilia il proprio essere anziché esaltarlo.

domenica 28 gennaio 2018

La triste sorte

E' davvero triste la sorte di chi, coinvolto in una difficile e sofferta esperienza interiore, convincendosi di essere portatore soltanto di un disturbo, tratta ciò che sente e che vive interiormente come malattia, come peso di cui liberarsi e si infila in percorsi conseguenti dove presunti curanti, che della vita interiore e dei sui modi di esprimersi, del senso e dello scopo di un malessere interiore spesso e volentieri non sanno nulla, sono pronti a stilare diagnosi, che vorrebbero chiarire e definire ciò che l'individuo vive dentro se stesso e che non sono altro che caselle con relativa etichetta dentro cui infilare ciò con cui non hanno capacità di mettersi in rapporto. Curanti che prima che di altri non si sono presi cura di se stessi, che non hanno cercato incontro e dialogo con la propria interiorità, che senza apertura e lavoro su se stessi dell'esperienza interiore non hanno imparato a comprendere nulla, che si solo bevuti teorie e tecniche con relativo manuale d'uso, che girano sull'altro, girando i loro limiti di visione stretta, che concepisce solo normalità e disfunzione contrapposti, che riconosce reale solo ciò che è esterno e già dato. Com'è triste la sorte di chi affidato a questo tipo di curanti, purtroppo non rari, mosso da impazienza di risolvere e di tornare a correre o perlomeno a rimanere in  movimento sul binario della normalità e del consueto, comincia a ingurgitare farmaci, a seguire i dettami di qualche terapeuta per correggere ciò che senza indugi è giudicato modo errato e dannoso di sentire e di reagire, rafforzando così soltanto il pregiudizio e l'insofferenza verso parte intima di se stessi, alimentando diffidenza e paura verso la propria interiorità! E' triste sorte porsi in fuga e in urto con se stessi, combattere come presenza nemica ciò che interiormente è tutt'altro che guasto e cattivo funzionamento, che, se saputo comprendere, sarebbe base viva e feconda per entrare nella conoscenza di se stessi, nella comprensione del vero. E' triste sorte maledire come impedimento al vivere ciò che invece, se saputo intendere, è spinta e pressione a formare e a costruire l'essenziale e l'irrinunciabile che manca a se stessi e che non ci si è mai curati di coltivare e di formare. Vivere senza consapevolezza del proprio modo di procedere, senza conoscenza di se stessi, vivere senza pensiero proprio, seguendo e consumando altro, idee, stili di vita, percorsi già segnati, attribuzioni di significato e di valore già stampati e convalidati da uso comune, vivere inseguendo consenso esterno, cercando le opportunità tutte fuori e stringendo i legami solo con altro e con altri, senza avere capacità di legarsi a se stessi, di scoprire e di generare il proprio, senza capacità di stare su da soli, è condizione tutt'altro che rara, è condizione spesso camuffata e volentieri ignorata, nascosta ai propri occhi. Ai propri occhi camuffata da una parte di se stessi, non certo dalla parte profonda, che non ignora cosa significhi e implichi. Stare al passo con altri e con altro che fuori la racconta, limitarsi a consumare qualcosa che, pur in apparenza consono, è già concepito e pronto, che anche se riplasmato dal proprio ragionamento rimane pensiero preso in prestito e rimasticato, è realtà e modo di vivere così presente e diffuso, ampiamente ritenuto normale quanto non accettato e dato per scontato dalla parte profonda di se stessi, che giustamente, che saggiamente lancia l'allarme. Il profondo, che regola e movimenta la vicenda interiore, usa mezzi idonei per sollevare e dare percezione forte e viva del problema (ansietà, attacchi di panico, cadute depressive ne sono un esempio), per far percepire la fragilità dei propri punti veri di appoggio e di riferimento, l'estrema esilità del contatto e della connessione con se stessi, con la propria vita interiore, la mancanza di basi e di ragioni valide per nutrire  fiducia in se stessi e autostima, a dispetto dell'apparente consistenza e possesso di idee, di realizzazioni e di risposte proprie, a dispetto di apparente maturità e autonomia già acquisite. Questa parte profonda e ciò che propone rimane spesso completamente incompreso. La beffa è che la risposta più frequente ai richiami interiori, a ciò che l'interiorità saggiamente e provvidenzialmente consegna, che vorrebbe essere il richiamo a prendere visione del vero della propria condizione e del proprio modo di procedere, a aprire con coraggio il cantiere del cambiamento, colmando prima di tutto la distanza che separa dalla propria vita interiore, imparando a ascoltare e a dialogare con la propria interiorità, per formare su queste basi pensiero, progetti e scelte proprie, non indirizzate e al seguito d'altro ma corrispondenti a se stessi, la risposta è di trattare la propria interiorità come fosse in stato anomalo, in stato di patologia. E' triste sorte quella di combattere come nemico e come segno di inadeguatezza e di malattia ciò che invece, se corrisposto e compreso, avrebbe capacità di condurre a aprire gli occhi e a generare il proprio. E' triste sorte infilarsi per tempo indefinito nella battaglia sciocca contro parte di se stessi, negando credito e cercando di non dare scampo alla propria interiorità, giudicata cattiva presenza da mettere a tacere, rimanendo dannati nello stallo di una cura, che anzichè essere vera cura, volontà e passione di aprire a se stessi, diventa morsa stretta sul proprio essere, bavaglio che soffoca la voce interiore, che la ripudia, che la tratta come scarto di cui sbarazzarsi. Sarebbe possibile, cercando valido aiuto, aprire a se stessi, imparare a ascoltare e a comprendere la voce della propria interiorità in ciò che dice nel sentire e nei sogni, imparando con la sua guida a conoscere davvero e senza preconcetti, a rispettare e a amare tutto il proprio essere, ma ci si dà troppo spesso la  triste sorte di perseguire con perseveranza solo il rifiuto e la paura di se stessi.

domenica 21 gennaio 2018

L'equivoco del rimedio naturale

Chi non intende che ciò che sta provando, pur insolito, doloroso, disagevole, ha un senso, che non è patologia da sanare, ma che racchiude una proposta e un potenziale utile e necessario da imparare a comprendere e a valorizzare, cerca con affanno e con ostinazione un modo e un mezzo per mettere a tacere, per sbarazzarsi di ciò che considera solo un danno per se stesso. Convinto di prendersi in questo modo cura di se stesso e di difendere i propri interessi, cerca qualcosa che agisca per zittire e per dissolvere possibilmente ciò che interiormente considera solo un disturbo, una alterazione che comprometterebbe il suo buon vivere e "normale". La stessa ricerca delle cause del malessere interiore è una delle opzioni nella ricerca dei rimedi, concepiti per venir fuori da una condizione disagevole. Pare scelta più lungimirante e aperta del ricorso a armi chimiche, farmacologiche impiegate per combattere e per mettere a tacere il malessere, ma muove sempre dall'idea, meglio sarebbe dire dal pregiudizio, che ciò che l'individuo sta vivendo interiormente di arduo e disagevole sia uno stato anomalo e negativo, che va ricondotto a una causa, a un fattore sfavorevole, a un cattivo condizionamento, a un trauma, che avrebbe provocato un guasto e compromesso il normale e fisiologico sviluppo. Pare scontato che le cose stiano così e tutta un'offerta di cure asseconda e alimenta questa idea, l'infermeria sociale che si propone di curare i disagi interiori offre e suggerisce mille rimedi, chimici di sintesi o naturali, psicologici. Il rimedio cosiddetto naturale pare a molti più benevolo e rassicurante, meno rudemente estraneo e minaccioso di effetti, più o meno collaterali, dannosi del farmaco. Cosa c'è in questo ricorso a prodotti e mezzi naturali di davvero naturale e nel rispetto della propria natura? Per chi si sta confrontando con un'esperienza interiore difficile sarebbe assai utile e opportuno frenare la propria corsa, condotta con affanno e con ostinazione, alla ricerca dell'arma che debelli il presunto male, sarebbe importante non cadere nell'illusione che ci sia arma meno rischiosa e più buona ricorrendo a rimedi cosiddetti naturali piuttosto che farmacologici. Nelle intenzioni e nell'atteggiamento di chi ne fa uso si tratterebbe infatti in ogni caso di porsi in urto ostile con la propria esperienza interiore, facendo leva su un rimedio, su un'arma, naturale o sintetica che sia, per neutralizzare e togliere di mezzo ciò che sta provando. E' importante non dare per scontato nulla, è fondamentale interrogarsi su ciò che il proprio malessere è realmente e può valere, su ciò che significa e propone, anche se al momento impreparati e senza mezzi per ascoltarsi e per capire il linguaggio interiore. Solo così si potrà valutare attentamente in cosa consista prendersi davvero cura di se stessi, cosa sia fare il proprio bene e interesse. Solo uscendo da facili luoghi comuni si potrà comprendere quale sia la risposta o se vogliamo usare il termine rimedio, quale sia il rimedio davvero naturale. La risposta più naturale al malessere e alla crisi, che rispetti la propria natura e che la assecondi, che non alimenti dissociazione e conflitto con la parte intima e profonda di se stessi, che favorisca l'unità del proprio essere, che scaturisca da se stessi e che non si avvalga di altro e estraneo, è la conquista e l'esercizio da parte propria della capacità riflessiva, della capacità di accogliere e di riconoscere in ciò che si sente, che si prova interiormente l'originale e vero significato e la proposta. Può servire un valido aiuto non già per combattere e per eliminare, per sradicare il malessere come scopo primario, bensì per imparare a ascoltarsi, a entrare in rapporto e a raccogliere l'intima proposta del proprio sentire. Non c'è nulla di peggio, non c'è peggior danno alla propria natura del porsi in contrasto, del cercare di eliminare, di far fuori ciò che la propria parte vitale profonda sta dicendo a se stessi attraverso il vissuto, di considerare pregiudizialmente nemico il proprio sentire, non importa se disagevole e in apparenza, solo in apparenza, sfavorevole o nocivo. Può accadere che ciò che si sente intralci il modo consueto di procedere, che la parte profonda di se stessi soprattutto all'inizio, per incidere, per farsi ascoltare, per spingere a occuparsi di se stessi e della propria sorte, per spingere a lavorarci sopra, blocchi o riduca la funzionalità dell'agire, dell'andare, del fare, che renda il proprio quadro interiore niente affatto godibile e tranquillo. Ciò però non significa che l'intervento del profondo, che quanto si sta interiormente vivendo, vada contro i propri interessi più veri e profondi. Se si sviluppasse, con l'aiuto adatto, capacità riflessiva, capacità cioè di vedere l'intimo volto e di riconoscere l'autentico significato di ciò che si sta provando, di capire cosa il proprio sentire sta dicendo e spingendo a vedere, a conoscere, non si trarrebbe certo danno da simile rapporto e si scoprirebbe che c'è tanto di nuovo di se stessi da comprendere per non perdere di vista ciò che per sè più conta. Il normale procedere, che tanto si teme di perdere e che il malessere interiore sembra intralciare e compromettere, è spesso infatti forma di pensiero e di procedere imitativa d'altro, presa in prestito e non coerente con se stessi, rischia di essere forma vuota e non ricca di sè di condurre la propria vita, più in armonia con altro e con altri che con se stessi. Il rimedio più naturale al malessere e alla crisi interiore è recuperarne il potenziale, è farne tesoro, è comprenderne e assecondarne gli intenti e i pungoli di crescita e di trasformazione nel verso del conoscere e del diventare se stessi. Viceversa la corsa al rimedio, che sia farmacologico o naturale poco importa, inteso e usato come mezzo per tentare di spegnere e di spazzare via ciò che difficile e disagevole si sente, anche se ritenuta utile e positiva, è in realtà scelta lesiva della possibile intesa e unità con se stessi, distruttiva di ciò che potrebbe nascere e crescere dall'incontro e dal dialogo con la propria interiorità che quel sentire propone, è scelta innaturale, diretta contro la propria natura.

venerdì 1 settembre 2017

Non mente mai

Non mente mai, è sempre affidabile guida. Tutto ciò che si propone nel nostro sentire, ansia compresa, è base sicura di incontro con noi stessi, di ricerca, di verifica attenta. C'è sempre il vero nel sentire. La nostra interiorità ci offre di continuo i richiami giusti, le guide per rientrare in noi, per uscire da una condizione di inconsapevolezza. I ragionamenti, ciò che produce la parte conscia e ragionante di noi stessi, facendo da sé, senza sostegno e senza guida del sentire, non ha spesso nulla di affidabile per arrivare a vedere dentro di noi. Anzi, seppur inconsapevolmente, i pensieri costruiti col marchingegno del ragionamento assorbono luoghi comuni, schemi di pensiero e di giudizio aprioristici, mai verificati e compresi davvero, li replicano, sono guardie a difesa dello status quo, fanno un lavoro che serve più a mantenere, a consolidare posizioni preconcette che a aprire alla comprensione del vero. Il sentire non mente, è il linguaggio della nostra parte profonda, che vuole segnalare dove stiamo davvero mettendo i piedi, cosa stiamo facendo di noi stessi. Il nostro sentire ci vuole dare occasione di percepire ciò che realmente ci sta accadendo, lo rende problematico, carico di tutte le sue implicazioni più scottanti e vere. Sentire significa riconoscere i significati in modo vivo, ben addentro, senza aggiustamenti, senza veli. Il lavoro della nostra parte profonda è incessante, trova espressione nel sentire, in tutto ciò che fuori da controllo di volontà e ragione si svolge dentro di noi, trova ancora espressione eccellente nei sogni, che, se saputi avvicinare e comprendere nel loro originale linguaggio e intendimento, si rivelano  potenti fari per capire, autentici laboratori di pensiero, non campato per aria come nei ragionamenti, ma sensato e aderente come null'altro al vero, di profondità e respiro impareggiabili. Tutto il problema è formare capacità di incontro, di dialogo, di rapporto creativo con la nostra interiorità, capacità non di commentare, non di spiegare ciò che ci accade interiormente, ma di intendere ciò che il nostro sentire e tutta la nostra esperienza interiore e profonda dice, mostra, svela, ci conduce a comprendere. Si cresce imparando a rimanere intenti e inchiodati alla realtà esterna, ma non a trattare e a comprendere l’esperienza interiore. Formare capacità di ascolto e riflessiva per essere in grado di vedere l’ìntimo di stati d’animo, di emozioni, di vissuti è ciò che andrebbe sviluppato dentro una buona psicoterapia. La tendenza abituale, che ci si porta dietro è infatti quella o di giudicare o di spiegare da fuori e dall’alto del ragionamento ciò che si prova. Dobbiamo stare molto attenti a non parlar sopra ciò che sentiamo, è tale l'abitudine a far girare i ragionamenti, che, anche messi di fronte a ciò che proviamo, la tentazione di dargli una spiegazione, un perché, incastrandolo dentro i soliti punti di riferimento, è fortissima e spesso scatta fatale, uccidendo ciò che il sentire ha intenzione e capacità di dire. E' come se in presenza di un altro che soffre e che in ciò che sta patendo ha da dire, cominciassimo subito, senza ascoltarlo, a dirgli il perché e il percome della sua condizione e cosa gli è utile fare. Così col nostro sentire è importante imparare a lasciarlo dire, a portare lo sguardo su ciò che sta svelando. L'ansia e tutto ciò che si muove nell'esperienza interiore, anche se doloroso e arduo, anche se insolito e assillante, non è nemico, considerarlo tale solo perché scomodo e perché intralcia il cammino è una vera sciocchezza. Tutto l'impianto della cura volto a sconfiggere l'ansia e il malessere interiore come scopo primario è l'espressione della miopia se non addirittura della cecità della parte conscia, che non vede altro che ciò che è abituata a concepire, che vuole mantenere e in cui vuole persistere, non ultimo perché così fan tutti. L'ansia è amica e dire questo non è un mezzuccio per riuscire a conviverci o a neutralizzarla. L'ansia è il linguaggio del profondo che tutto vuole meno che ci perdiamo e che ci prendiamo in giro. L'ansia e il malessere interiore chiedono di essere ascoltati e valorizzati come base e tramite per aprire gli occhi, per avvicinarci a noi stessi, per capirci. Se il profondo arriva a usare le maniere forti come con gli attacchi di panico o con strette continue di apprensione e di ansietà che tolgono il fiato, che non concedono quiete, è perché sa che lasciarci liberi in ciò che stiamo concependo e facendo, scissi e lontani, non comunicanti con la nostra parte interiore, è come destinarci a essere privi di guida, buoni per essere a norma, ma non per essere consapevoli e autonomi, capaci di riconoscere il vero di noi stessi, di dare vita al nostro pensiero e di dire la nostra, a modo nostro.

domenica 6 agosto 2017

Con le buone o con le cattive

In presenza di malessere interiore si verifica un conflitto tra la componente cosiddetta conscia dell'individuo, tutta sbilanciata dalla parte di ciò che crede di conoscere e su cui è abituata a fare leva, protesa a difenderne la continuità e a far valere lo status quo e la sua interiorità, la parte intima e a fin di bene, perché non accada il peggio. Il peggio per l'individuo è di procedere illuso di sapere e di conoscere ciò che va difeso a oltranza e mantenuto nel proprio interesse, in realtà senza capire cosa sta davvero facendo di se stesso, in realtà senza ancora aver conosciuto nulla di se stesso e del proprio potenziale. In questa situazione di conflitto, in cui la parte profonda, aprendo la crisi, spinge perché si produca un profondo quanto salutare cambiamento, in cui col malessere preme perché l'individuo si coinvolga per intero, ceda a far sua questa necessità di trasformazione, ne prenda coscienza e cooperi per produrla, accade invece che l'individuo, ignaro di questi perché del malessere, di queste ragioni della propria interiorità, convinto di sapere già con certezza cosa va affermato e mantenuto, si aspetti in genere che a cambiare debba essere la propria interiorità, che sia pronto a battersi per ottenere questo. L'individuo in genere auspica, persuaso di avere tutte le ragioni dalla sua, che la sua interiorità, che insiste nel proporre qualcosa di interiormente difficile e sofferto, si rimetta in riga, smetta di dare fastidi e tormento, smetta di intralciare. Anzi l'individuo vorrebbe che le proprie risposte interiori fossero concordi e solidali, di appoggio e non di ostacolo al suo sforzo, alla sua pretesa di  perseguire i risultati e le prestazioni giudicate normali e positive secondo modelli e idee comuni. Con le buone o con le cattive. C'è chi trova che evadere e non dare peso, non concedersi alla presa del malessere e non esserne impensieriti, sia la scelta giusta e vantaggiosa. E' come dire a se stessi, alla propria interiorità: tu mi rompi e insidi la mia tranquillità e buon umore, ostacoli la mia voglia di procedere indisturbato, il mio diritto di stare bene e io ti ignoro, non ti do peso. C'è chi, vedendosela brutta, perché l'interiorità sa essere cocciuta, cerca nei farmaci, previo il verdetto di qualche psichiatra o figura simile, che con la diagnosi, con l'apposizione di una etichetta dia l'illusione che sul (presunto) guasto ci sia finalmente una presa sicura, lo strumento per zittire e per raddrizzare la parte di sé che non vuole tacere. C'è chi ancora cerca una terapia psicologica, che, come quelle di tipo cognitivo comportamentale, oggi assai in voga, prometta di aggiustare presto le cose, affidandosi a chi diriga e impartisca istruzioni e schemi di nuovo comportamento, tecniche per imbrigliare o per correggere quelle che paiono soltanto anomale risposte, paure di troppo e assurde, strani grovigli, cadute di fiducia inspiegabili e nocive. Tecniche terapeutiche, a volte dai nomi suggestivi e catturanti, che parlano di strategie e di modifiche in tempi brevi dei modi di pensare e di reagire, giudicati sbagliati, in gergo tecnico "disfunzionali", sembrano il toccasana, il sostituto del rimedio chimico, ma per ottenere il più in fretta possibile lo stesso risultato: porre fine a esperienze interiori che sembrano solo una sciagura e un modo guasto di sentire, di reagire, di vivere, ottenere che tutto giri nel verso giudicato sano e positivo. Per finire c'è chi, disposto a seguire un cammino di ricerca più impegnativo, vorrebbe essere aiutato a trovare la causa del suo malessere, partendo sempre, né più né meno di chi ha scelto le strade dette prima, dal presupposto che la propria esperienza interiore stia dando segni di guasto e di malfunzionamento. La causa sarebbe quel fattore x, preferibilmente rinvenibile nel proprio passato, che nella forma di un cattivo condizionamento, di una influenza negativa, di un affetto negato o esercitato in modo distorto da familiari o simili, di un trauma, avrebbe inceppato e reso anomalo il proprio sviluppo, lasciato tracce e conseguenze ancora presenti. Insomma l'idea di fondo è che tutto avrebbe dovuto svolgersi e svilupparsi regolarmente e bene e che qualcosa abbia scassato il meccanismo. L'idea è che nell'esperienza interiore disagevole di oggi  ci siano i segni di un torto patito, che ci siano i modi di rispondere emotivi dettati e insiti in esperienze negative trascorse, che tendono a ripetersi, a permanere. Trovata la causa pare trovata la via di uscita, l'occasione per liberarsi di quelle reazioni e risposte emotive, per saldare il conto, per affrancarsi finalmente da quelle ombre del passato, per mettere a tacere il proprio malessere interiore. Poco importa che (succede in non poche psicoterapie che vorrebbero definirsi di tipo analitico), dopo aver trovato la causa, cosa che se da un lato fa contento lo psicoterapeuta, che può dimostrare di aver saputo svolgere il suo compito, dall'altro pare dare sollievo immediato all'individuo in terapia, che può dirsi che ora sa, che ha capito, che è andato finalmente alla radice del problema, accada non raramente che la sua esperienza interiore continui a riservargli la sgradita presenza di una inquietudine, di un malessere che non demorde, che ancora la sua esperienza viva interiore rimanga ai suoi occhi alla fin fine qualcosa di scomodo e fastidioso da fronteggiare. A questo punto la risposta dell'individuo, la sua auto rassicurazione è che ora potrà gestire meglio le sue emozioni, le sue esperienze interiori. Gestire come si gestisce un meccanismo, una cosa appunto, da tenere a bada. La scoperta della causa gli fornisce il mezzo per rispondere all'esperienza interiore difficile con un atteggiamento del tipo: adesso so perché sento questa ansia, so perché reagisco così, non perderò il controllo, aspetterò che si moderi, cercherò di conviverci. In sostanza accade che, dal momento della individuazione della presunta causa, al proprio sentire si metta sopra una spiegazione fissa, la spiegazione di causa e effetto elaborata in psicoterapia, senza ascoltarlo ogni volta in ciò che ha da dire, che vuole rendere tangibile e riconoscibile in quel momento, cosa peraltro che non gli è stata concessa e garantita  neppure nella fase della ricerca della causa. In questi casi, non certo rari, il rapporto con se stessi non è cambiato, da un lato c'è il ragionamento che ha sistemato le sue idee e convinzioni, illuso di avere chissà quale nuova consapevolezza e dall'altro continua a esserci un'interiorità con cui permane incapacità di apertura, di sintonia e di incontro, con cui non c'è dialogo e confidenza. Ancora c'è un sentire, il proprio sentire, che in ciò che dice continua a non essere ascoltato, a essere spiegato con formule rigide, a non essere compreso nel suo linguaggio, in ciò che vuole fare toccare con mano e conoscere, in ciò che vuole comunicare. Ahimè l'interiorità in un caso o nell'altro, presa con le buone o con le cattive, continua a essere oggetto di incomprensione e della pretesa che in qualche modo cambi, che si "aggiusti", che si normalizzi. E' davvero un paradosso, la propria interiorità è la parte del proprio essere, tutt'altro che scriteriata e inaffidabile e da tenere a bada, che, se compresa, potrebbe come è nelle sue intenzioni (col sentire, con tutti gli svolgimenti interiori, non certo insensati, con i sogni) guidare, con fermezza, lucidità e saggezza, al cambiamento, che vorrebbe dare linfa, spinta e occasione per avvicinarsi a sé, per conoscersi davvero e apertamente, per vedere con i propri occhi e non attraverso la lente dei giudizi convenzionali e comuni, per trovare le proprie ragioni d'esistenza, per trasformare il proprio pensiero da astratto e convenzionale a pensiero vivo, originale e fondato e invece... Invece si chiede proprio alla parte interiore di sé, la più preziosa, valida e capace, di mettersi in riga, di ritornare finalmente a uno stato di "normale" funzionamento, lasciando l'altra parte in pace e libera di proseguire, non importa se, in assenza di guida propria, a rimorchio di idee, di schemi e di valori presi in prestito e preconfezionati, con l'illusione di sapere e di decidere, in realtà senza comprensione dei significati veri insiti nelle proprie esperienze, senza verifica e scoperta di ciò che per sé vale davvero, senza conoscenza profonda di se stessi e di ciò che di sé vorrebbe vivere e realizzarsi. L'interiorità che potrebbe ridare all'individuo la sua vera identità e il suo bagaglio di idee e di passioni autentiche e fondate, che potrebbe condurlo a trovare, a generare tutto ciò che gli manca per essere individuo completo e autonomo, deve solo tacere e mettersi in riga. Con le buone o con le cattive, perché le cose rimangano quelle di sempre, normali, regolari, in buona intesa con altri e con tutto, fuorché con se stessi.

domenica 16 luglio 2017

Felicità rubata? Incapacità di essere felici?

Accade non di rado che si lamenti una sorta di incapacità di gioire di ciò che, già presente nella propria vita o a portata di mano, si ritiene essere giusto e valido motivo di soddisfazione. Inquietudine interiore, malessere e apprensione, sembrano malamente insidiare o derubare se stessi del diritto, come tale è vissuto, di godere della vita e di ciò che parrebbe desiderabile e soddisfacente. E' una sfortuna e una maledizione che ci sia una parte del nostro essere che, non dando credito a ciò che ostinatamente vorremmo farci credere, che guardando con disincanto e con acume critico ciò che ci siamo proposti come ideale, casomai tutto dentro guide di senso e schemi di valore comuni, segnala che non c'è lì, nel raggiungimento e nella difesa di simili traguardi, vero motivo di gioire e di cantare vittoria? Dobbiamo per intero a noi stessi questa stonatura, questa divergenza di sguardo e di opinioni. Lo dobbiamo al fatto che non siamo (per nostra fortuna) solo calcolo e ragione, mezzi spesso utilizzati solo per stare in riga e per ripetere luoghi comuni, per andare al traino di modi condivisi di pensare, azzerando ogni impegno di vedere e di capire con la nostra testa. Una parte di noi stessi, che ci parla e che si fa valere in noi attraverso stati d’animo, vissuti interiori e emozioni, ha capacità di vedere con maggior autonomia e capacità critica ciò che la nostra parte cosciente da sola non è disposta e capace di mettere in questione oltre che di intendere. C'è una tendenza allo sfascio, c'è una patologica tendenza del profondo a guastare la festa? O invece, con saggezza oltre che con puntiglio, il profondo vuole che il vero si affermi, casomai per non perdere la propria vita in realizzazioni dettate solo da conformismo e da passivo assorbimento di idee e valori? Per non finire nel buco di mete e di scopi già segnati, per non seppellire la possibilità di comprendere e di concepire da sé, autonomamente, i propri perchè e scopi, di sviluppare la presa di coscienza, la conoscenza che serve per nutrire e orientare progetti propri, per non smettere mai per tutto il corso della vita di cercare e di costruire a modo proprio, è fondamentale e provvidenziale l'azione di "disturbo" e di rottura del profondo. L'inconscio non suona la stessa musica della parte conscia e razionale, che tanto si crede intelligente e superiore alla parte interiore e “irrazionale”, quanto in realtà è spesso ottusa e inaffidabile, pericolosamente inaffidabile nell'istigare a ficcarsi nell'imbuto delle idee e dei propositi convenzionali e a soffocare come malata la voce del profondo, del sentire che dissente e che suggerisce cose vere, anche se scomode.

domenica 25 giugno 2017

Controcorrente

Controcorrente va la proposta del profondo, va il corso interiore che non dà quiete e tregua, che, deludendo le attese e le pretese della parte conscia, non concede, nello svolgersi dell'esperienza, respiro facile e movimento fluido e disteso. Pare un fastidio, ma l'inconscio, interferendo, contrappunta l’esperienza di segnali e di richiami alla presa di consapevolezza. Subito intesi e squalificati come segni di malfunzionamento, come odiosi e incomprensibili intralci, come segni di anomalo sentire (etichettati come ansia e con tante svariate diciture) sono stimoli mirati e intelligenti, sono occasioni per vedere chiaro. Sono complicazioni necessarie e salutari, dove si intenda la necessità di capire e di capirsi. Le istanze del profondo sono di fondare su di sé e su conoscenza attenta le proprie scelte, sono di comprendere ciò che sostiene e implica ogni movimento e modo di procedere, sono di non perdersi nell’illusione, di non svanire come soggetti nell’adattamento, nell’andare dietro all‘idea convenzionale, nel ripetere schemi pronti, nel cercare vita e occasioni, formazione e completamento di sé nell’adesione e nella presa dipendente su altro e su altri. La preoccupazione del profondo è di non perdere se stessi nell’inconsapevolezza, di non confondere il "normale" procedere con la propria fedele realizzazione, di non scambiare la simbiosi con altro, che sia persona o cosa o ruolo o prestazione, fisica o intellettuale, pur applaudita e comunemente ben considerata, con la propria crescita e miglior realizzazione. L’inconscio, la parte profonda di noi stessi non ammette imbrogli, non tollera autoinganni, ha a cuore il nostro originale merito e talento, che prima di tutto è capacità di visione chiara, di genuino pensiero, ha a cuore di non seppellire il nostro possibile originale apporto alla vita. La parte profonda insiste nel dare occasioni di scoperta di verità, senza censura e senza ritegno, senza risparmio e senza preoccupazione circa il fastidio e la sofferenza che la verità, che l’impegno di cercarla e di reggerla  può procurare. Non dà tregua nel dare spunti di  ricerca, perché vivere e esprimere al meglio il proprio essere significa coltivare, far nascere e crescere le proprie idee e progetti e non consumare soluzioni e idee già pronte, significa credere profondamente e amare ciò che si sostiene e si vuole far vivere e non farsi indirizzare e portare dal consenso e dalla approvazione altrui. Controcorrente va il nostro profondo per consentirci di rompere l'illusione, per darci occasione valida e piena, per coinvolgerci nella corrente della vita.

domenica 4 dicembre 2016

"Agorafobia". Qualche spunto di riflessione

Siamo creature complesse, i confini del nostro essere sono molto più ampi di quel che abitualmente si pensa. La nostra parte profonda, tutt'altro che elementare, inconsapevole e "istintiva", dando a questo termine il significato di automatica nelle sue espressioni e semplicemente ripetitiva di schemi appresi o ereditati, è ben presente e attiva nella nostra vita. Passo dopo passo ci accompagna in modo attento e intelligente, non rinunciando mai a darci (attraverso l'esperienza del sentire, nel succedersi mai casuale di emozioni e di stati d'animo, di svolgimenti interiori, sempre significativi, così come, in modo estremamente approfondito, attraverso i sogni) spunti e occasioni di presa di coscienza. E' la parte di noi stessi che non bada a trovare un adattamento qualsiasi e comunque, a far funzionare le cose secondo regole di pretesa normalità, ma che interroga come siamo e come procediamo, che riconosce l'intimo e non l'apparente, il perchè vero che ci muove nelle nostre risposte e nelle nostre scelte, che sa vedere il senso, a cosa portano. La nostra parte profonda custodisce e sa ciò di cui, come individui particolari e originali, siamo portatori e che potremmo sviluppare, ciò che ci è insito e congeniale. Non trascura di considerare il modo in cui ci stiamo facendo interpreti della nostra vita, non si lascia di certo persuadere dalle apparenze. Se la cosiddetta normalità, se l'andar dietro a modelli e a idee comuni ci sta bastando, se ci sta addormentando, se sta esaurendo la nostra ricerca, se ci sta sostanzialmente fuorviando dalla scoperta e dalla realizzazione del nostro scopo, se procediamo ciechi, cioè inconsapevoli del reale perchè e delle implicazioni di ciò che stiamo facendo, la nostra parte profonda, che ha occhi ben aperti, che è ben sveglia, non rinuncia a far sentire la sua voce, a esercitare la sua influenza con interventi, con condizionamenti interni (tipo paure e blocchi, che poi qualcuno etichetterà come fobie, come "agorafobia" ad esempio) che non sono mai casuali, mai buttati lì in modo qualsiasi. Se è ora di fermarci, perchè non ce n'è di risorsa nostra per procedere, perchè è ora di fare il pieno di consapevolezza, se è ora di venire a tu per tu con noi stessi,  in una modalità raccolta e intima per formare su basi di intesa con noi stessi un nuovo modo di vedere, di riconoscere senza autoinganni e illusioni come stiamo procedendo, guidati da che cosa, se è tempo di mettere assieme un bagaglio di convincimenti nostri e non ripetitivi d'altro, fondati, di chiarimenti circa ciò che ci è insito e congeniale e che la nostra vita potrebbe tradurre in essere, perseguire come scopo, ecco che fermare l'abituale corsa, il procedere solito e disinvolto, diventano la prima necessità, il primo segnale forte. Non è tempo di andare fuori, di disperdersi, di spingere sul rapporto con altro, con gli altri, è tempo di ritrarsi. La priorità dettata dal profondo, che crea un impedimento di paura fortissima e invalicabile all'immergersi e allo spaziare ampio nel fuori, è imparare a ripiegare, per avvicinarsi al dentro, a non staccare da lì, dallo spazio di incontro e di dialogo intimo con la propria interiorità, per coltivare con cura e veder nascere ciò che manca, per poi tornare a muoversi liberamente e a porsi in rapporto con l'esterno, con gli altri, ma con il proprio di idee e di chiarimenti, con il proprio progetto.

martedì 1 novembre 2016

L'interiorità. C'è più da ricevere e imparare che da correggere e sanare.

Ciò che la psicologia convenzionale (sia quella presente nel pensare comune, sia quella specialistica degli esperti) spesso ignora è che l'interiorità dell'individuo non è un oggetto, non è un meccanismo semplicemente reattivo e condizionato o plasmato da fattori esterni, non è componente secondaria, satellite e accessoria della parte cosiddetta conscia, ma è parte centrale e fondamentale dell'essere, parte vivacemente propositiva, è laboratorio di pensiero, è capacità di promuovere e di sviluppare pensiero. Tutta l'esperienza interiore, l'intero corso del sentire, dei vissuti, anche dei più difficili, senza distinzione e contrapposizione di normali e "anomali", è fermento di conoscenza, è traccia intelligente e guida per prendere visione e consapevolezza del proprio modo di procedere, di questioni e di nodi decisivi inerenti il proprio modo di stare in relazione con se stessi, di farsi interpreti di se stessi. Ho ripetuto non per caso quel "se stessi". Si è abituati a porre sempre al centro dell'attenzione e dell'interesse il rapporto con gli altri, col mondo esterno, con la cosiddetta realtà, mentre è spesso risolta in modo rapido e banale, se non addirittura ignorata la questione del rapporto con se stessi, come se verificare il proprio stato, avere visione chiara o meno del proprio modo di tradurre la propria vita e del perchè, di ciò che spinge a stare nella modalità e nelle espressioni di vita abituali, del loro essere fondate, comprese e scaturite da se stessi e a se stessi fedeli oppure vincolate, incoraggiate e suggerite da altro, fossero questioni marginali e secondarie. Il proprio profondo, l'inconscio dà rilievo a tutte queste questioni, le ha al centro della sua cura e del suo sguardo, esercita spinta incessante (attraverso tutto il corso del sentire e con i sogni) non già alla rincorsa e alla tutela dell'aggancio e dell'accordo, comunque sia, con l'esterno, bensì prioritariamente alla ricerca dell'incontro e del confronto con se stessi, alla scoperta del vero. I sogni in particolare, quando saputi intendere e rispettare in ciò che di originale sanno aprire, proporre e dire, testimoniano, mostrano e dimostrano la capacità straordinaria che ha l'inconscio di spingere verso la presa di coscienza, di alimentare pensiero proprio, non appiattito sul convenzionale, sul già pensato e concepito. Tutto questo, la funzione esercitata dal profondo, il potenziale della vita interiore, il significato vero degli accadimenti e degli svolgimenti interiori in tutte le loro espressioni, è spesso ignorato e frainteso. Si cercano cause, si ipotizzano carichi eccessivi di stress o altro per spiegare vicissitudini interiori, situazioni di sofferenza nelle quali non si sa vedere l'iniziativa dell'inconscio e la traduzione in essere di un lavorio interiore per portare l'individuo a convergere col suo profondo nella presa di visione della verità del proprio stato, per individuare i nodi decisivi su cui lavorare. Una delle questioni decisive su cui l'inconscio soprattutto nei sogni è attivo nel dare segnali, nell'esercitare forti pressioni perchè sia resa consapevole, è quella della passività dell'individuo, della sua tendenza a aderire a modalità di pensiero, a usare di attribuzioni di significato date per acquisite e certe, che non hanno trovato matrice, formazione e verifica dentro di lui su base d'esperienza, di vissuti, ma che sono stati passivamente assorbiti, presi in prestito e riprodotti, pur con la persuasione illusoria di esercitare attivamente proprio pensiero. La tendenza a seguire, a farsi portare, a valersi di guide e di riferimenti tutti esterni è questione non di poco conto. Così facendo l'individuo diventa gregario, replicante e copia d'altro, pur portando avanti la persuasione di essere libero, pensante e autonomo. La componente interiore e profonda non ignora lo stato vero delle cose, sa che in quell'andare dietro, in quel farsi portare, in quel riprodurre qualcosa di già definito e modellato c'è il perdersi di sè, della propria potenzialità di formare pensiero autonomo e fondato, di aprire percorsi, di concepire e di sviluppare progetti originali. Una vita sprecata, una finzione di vita, che si regge su altro che la conferma e tiene su, un misero surrogato di vita. Stare dentro una parte, rendersi forti del supporto e della convalida che arrivano dall'esterno, rassicurati  dal senso comune, è il surrogato di una vita, che viceversa potrebbe nascere e svilupparsi da propria presa di coscienza, da scoperta e da utilizzo di propria originale facoltà di pensiero e progettuale. L'inconscio non ci sta a scambiare l'illusione per verità, il prodotto surrogato per l'originale autentico e pieno. L'inconscio non cessa di premere per far vivere ciò che è più prezioso di qualsiasi quieto adattamento e riuscita esterna, l'aprirsi e l'affermarsi del proprio sguardo, la comprensione del vero. Non c'è momento e espressione della vita interiore, anche la più insolita,"contorta"(in apparenza) o tribolata, che non voglia, che non sappia (se compresa fedelmente e con intelligenza e non ottusamente giudicata secondo criteri di normalità e efficienza) condurre a aprire gli occhi sul vero. Purtroppo il significato della vita interiore, dell'esperienza interiore, è davvero poco o nulla conosciuto. Lo stato e il corso della vita interiore non sono il riflesso o la semplice conseguenza di cause e di fattori esterni incidenti che li determinano e condizionano, l'interiorità è propositiva, è tenacemente e sapientemente propositiva e intraprendente. I punti di forza e affidabili per l'individuo non sono la sua facoltà di ragionamento e la sua volontà, quando, come spesso accade, scissi dal sentire e dall'interiorità. Senza legame con la propria interiorità, senza l'apporto del profondo, l'individuo è fatalmente orfano di se stesso, privo di capacità di vedere e di pensare autonomamente, di compiere e di sostenere scelte fedelmente corrispondenti a se stesso.

martedì 25 ottobre 2016

Maledetta ansia? Le tue radici

Se ti ascoltassi, se smettessi di lagnarti e cercassi in ciò che senti non i sintomi di una malattia o di una condizione abnorme, ma una voce, se ti facessi aiutare in questo da chi sapesse aprirti all'incontro e al dialogo con te stesso, alla comprensione del linguaggio interiore, potresti cominciare a raccogliere segnali utilissimi e preziosi di verità dove ora vedi solo disturbo. Forse dentro di te sta patendo, languendo un modo di esistere, perchè è fatale che senza contatto e unità con tutto il tuo essere, che senza legame con le tue radici profonde la tua vita non ha possibilità di essere tale. Se sinora tutte le espressioni del tuo esistere sono andate nel fare e nell'esprimerti in modi che sapessero convincere e piacere agli altri e all'ambiente, nell'interagire in modo prevalente o esclusivo con altri e con situazioni esterne, nel rispondere a stimoli e nel tener dietro a ritmi, a temi e a tempi dettati da fuori, incurante del rapporto col tuo intimo, col tuo sentire, della necessità dell'ascolto e della comprensione attenta e fedele di ciò che via via ti diceva e proponeva, forse accade che tutto questo stia diventando per una parte di te, intima e profonda, insopportabile oltre che preoccupante per ciò che può implicare nel tempo. L'unica realtà degna di considerazione e di credito ti è sembrata essere quella esterna, regolata da esigenze e da logica sue, l'unico pensiero quello mutuato e preso in prestito da lì, seppur rigirato e rifinito da tuoi ragionamenti in apparenza originali, autonomi, l'unica preoccupazione quella di non perdere contatto e vicinanza col fuori, dell'accordo con altri e con altro, senza cura dell'accordo e della vicinanza con te stesso. Da tempo però si è accentuata  fino al parossismo nel tuo vissuto la sottolineatura emotiva, che non ti dà tregua, del tuo rincorrere la riuscita con animo sospeso, con cataclismi di apprensione, di paura di esiti rovinosi, di angoscia di fallire e di crollare. In questa rincorsa, in questa pena ti è fatto intendere, se l'ascolti, che manca qualcosa. Tutto interiormente concorre a dirti che manca qualcosa di fondamentale, che quella non è vita, che su quelle basi, di un fuori che ti tira, di un modello preimpostato e preconcetto che pretende di governare il tuo dentro, rendendolo solo esecutivo e riproduttivo d'altro, guardiano del suo regolare funzionamento, è penoso vivere. A te in realtà premerebbe cancellare, mettere a tacere tutte queste esperienze interiori penose, che non ti danno tregua e respiro, liquidandole (da solo e con l'ausilio di altri, esperti e non, pronti a concordare con questo proposito) col marchio "ansia" o con altre etichette diagnostiche, per tornare a prima, senza tanti ripensamenti, senza interesse per la verifica attenta, per la comprensione lucida e approfondita, sincera e senza trucchi, sia del tuo modo abituale di procedere, sia del senso e della finalità di ciò che interiormente ti sta tenendo sulla corda e dando disagio. Forse finora saper stare al passo con gli altri e mostrare volto felice e possesso di modalità adeguate, che gli altri potessero apprezzare e confermarti, ti è bastato per sentirti a posto, soddisfatto, completo. Da tempo tra te e il tuo modo abituale di procedere, considerato normale e valido, senza alternative possibili, si è messo in mezzo un terzo incomodo, una parte di te profonda, che di tutto ciò che senti è artefice e regolatrice. Sei ostile a ciò che ti accade interiormente, lo vivi come infelice sorte, come corso anomalo, come fastidioso intralcio, come disturbo che ti auguri cessi e punto. Nulla di ciò che ti accade interiormente, se non lo travisi, è però sciagurato o insensato, anzi è prezioso indicatore, occasione per capirti, per aprire gli occhi. Il tuo malessere interiore, ciò che ostinatamente si fa sentire in te è sì un intralcio e un freno, ma indispensabile per comprendere cosa davvero è e implica il tuo modo di procedere, per sentire intensamente la necessità e per riconoscere i perchè di una trasformazione decisiva per non negarti a te stesso, quella di imparare a pensare e a vivere con e ben connesso alle tue radici, al tuo profondo. Primo passo di questa trasformazione che puoi impegnarti a compiere è un cambio di atteggiamento verso te stesso e ciò che sperimenti dentro di te. Se liquidi tutto come spazzatura, se, andando dietro il coro, fai tua l'idea che ciò che senti come ansia ecc. è solo un disturbo da correggere, da cui sperare di liberarti, se non riconosci in ciò che ti accade interiormente l'esperienza intima vissuta di qualcosa da capire, momento vivo di un avvicinamentio alla conoscenza di te, di riflessione su di te, rischi di accentuare soltanto l'incomprensione e la scissione da te. Una parte di te ti sta dando segnali utili per ripensarti e per capirti, se li invalidi, se li squalifichi pensando che sia solo maledetta ansia da far passare, che ti faccia solo danno, puoi ben intuire cosa di favorevole stai o meno promuovendo e offrendo a te stesso. L'intimo e il profondo del tuo essere, le tue radici sono fondamentali per esistere e oggi il tuo profondo ti fa provare patimento, ti dà con forza segni vivi, che ancora non vuoi e non sai cogliere, di insostenibilità del tuo stare lontano e scisso da te, adeso al fuori più che al dentro, alle tue radici, segni che aspettano di essere compresi e non scioccamente rigettati o travisati. 

giovedì 22 settembre 2016

il punto critico

Un'esperienza di sofferenza interiore raggiunge spesso il punto critico quando l'individuo, nel rapporto col suo sentire, con ciò che vive interiormente, non dà (e ripetutamente) risposta improntata all'ascolto e protesa alla ricerca del senso e del vero, portati dal proprio sentire, perciò alla salvaguardia dell'unità con se stesso, ma una risposta di paura e di insofferenza, di rifiuto e di fuga, persino di squalifica di ciò che la sua interiorità gli propone con forza, giudicato semplicemente sbagliato, anomalo e assurdo. La conseguenza di un simile atteggiamento è rilevante, perché genera rottura dell'unità del proprio essere, senza che di questo e della sua gravità l'individuo si renda consapevole. Affermazioni come quelle circa la necessità innanzitutto di combattere l'ansia, l'umore depresso, il malessere interiore nelle sue diverse espressioni, sembrano talmente ovvie, sostenute dall'idea, altrettanto in apparenza scontata, che sia in atto un processo negativo, sfavorevole o pericolosamente  malato, che passa del tutto inosservato che quanto si sta mettendo in atto nel rapporto con se stessi è l'espressione di un colossale travisamento. L'individuo è convinto di sapere già cosa sia il meglio e l'irrinunciabile per se stesso, così come di mobilitare le energie migliori per confrontarsi con ciò che sta vivendo. Si sforza di darsi una spiegazione dell'insieme di ciò che sta provando interiormente, spesso trattato più come strano meccanismo da regolare, che come propria intima esperienza e sensibilità viva da valorizzare e da ascoltare, da imparare (facendosi casomai aiutare in questo) a comprendere in ciò che originalmente sa e vuole comunicare, dire, far capire di se stessi. Il pensare, spiegare e argomentare razionale pare la migliore risposta all'esigenza di capire. Quanto siano affidabili e fondate simili spiegazioni e  argomentazioni è tutto da vedere. Un argomento ricorrente quando l'individuo vive una condizione di malessere interiore è ad esempio che non ci sono motivi reali per le ansietà o per la sfiducia e abbattimento che prova, per lo stato di tensione implacabile che sta vivendo. Lo sguardo si rivolge subito all'esterno, agli altri, al pensare comune per stabilire ciò che è vivibile, comprensibile e accettabile, espressione di un sano sentire e normale, bocciando subito e mettendo in quarantena ciò che, sofferto e difficile, si sta provando interiormente, bollato come insano, non a norma. Analogamente, mentre lo sguardo ancora va all'esterno a considerare situazioni, circostanze e  fattori concreti per cercare l'origine o il perchè del malessere, il giudizio si avvale di criteri e di parametri comuni per stabilire ciò che può essere influente, compatibile o meno con uno stato di ipotetico benessere. Avere ciò che ai più pare desiderabile e normale, rispecchiarsi nel modo di procedere ritenuto comunemente valido e con tutti gli accessori del presunto e del preteso benessere in regola, sembra condizione sufficiente per pretendere di dettare al proprio sentire risposta consenziente, docile alla attesa che tutto sia a posto. Interiormente, per fortuna, non siamo nè superficiali, nè ottusi, tanto meno gregari rispetto a idee comuni e prevalenti nel pensare e nel valutare ciò che ci riguarda. Il malessere, l'inquietudine interiore sono lo scotto da pagare, sono il riscontro vivo del diverso punto di vista e modo di vedere la propria realtà della propria interiorità, del proprio profondo, di comprendere il presente e il futuro verso cui si è portati dai propri modi di procedere e dal proprio stato di crescita vera o di immaturità,  spesso di sostanziale assenza di capacità di capirsi, di riconoscere il vero, di farsi interpreti fedeli di se stessi. Si insiste nel voler mettere a posto le cose con ogni mezzo ritenuto curativo, con gli psicofarmaci prima di tutto, con psicoterapie direttive, che definirei correttive (le psicoterapie di impronta cognitivo comportamentale, oggi molto diffuse, che vorrebbero mettere a tacere, superare e sostituire i vissuti, le risposte e le esperienze interiori sofferte e disagevoli di cui stiamo parlando, giudicate irragionevoli, per sè dannose, "disfunzionali" con altre giudicate più congrue e  favorevoli ) o con psicoterapie solo in apparenza introspettive e volte alla conoscenza interiore, ma che spingono spesso e dall'inizio nella unica direzione della normale ripresa, dell'individuazione di una qualche causa per far tornare tutto, con qualche aggiustamento, al normale solito assetto. Si vuol tornare (senza che questo appaia rilevante, senza avere chiara consapevolezza delle reali implicazioni) a vivere su basi solite e immutate, date per auspicabili e favorevoli, che sono però spesso di adesione ad altro e di dipendenza da altro, di mancanza di visione propria autonoma e corrispondente a se stessi, di mancanza di capacità di dialogo e di intesa con la propria interiorità. Non si vuole intendere che le cose non sono a posto alla radice, che non lo sono affatto secondo una visione più attenta, approfondita e lungimirante, come quella esercitata e sostenuta dall'inconscio, che non per caso agita interiormente le acque, che non lo sono secondo una visione più onesta e disinteressata, non viziata da voglia di far proseguire le cose senza chiarire in profondità cosa questo significhi e implichi, da docilità e da dipendenza da modi comuni e precostituiti, già confezionati di pensare e di concepire la vita. La parte profonda di se stessi non è né cieca né dispettosa, nemmeno assurdamente intransigente, quel che è vero è che non accetta il sacrificio dell'intelligenza, che non accetta la propria rinuncia a se stessi e a far vivere ciò che si potrebbe, originale, vero, proprio. Il punto critico di rottura è su questo, la cosa "tragica" è che la parte di se stessi, più consapevole e attenta alle proprie esigenze vitali, che vuole dare lo stimolo e la guida al cambiamento, è quella spesso sbrigativamente liquidata come insana, come dannosa, come incapace di stare alla regola del vivere accomodato, illusorio, non compreso alla radice, del vivere senza verità, senza autenticità e pienezza di se stessi, senza possibilità di mettere al mondo il proprio. Non siamo solo ciò che ragioniamo, che facciamo e su cui insistiamo come non ci fosse altro di noi e dentro di noi. Comprendere di essere di più di ciò che ragionamento e volontà sembrano già dare alla propria vita di illusoriamente chiaro, sostanziale e sufficiente, scoprire e toccare con mano che una parte di se stessi, profonda, ha capacità e intenzione di ridare a se stessi il proprio, prima di tutto formando e sviluppando la propria capacità di vedere e di riconoscere il vero, senza distorsioni e veli, è l'occasione offerta da un valido lavoro su se stessi, da una scelta di cura vera, di cura dei propri interessi vitali.

domenica 19 giugno 2016

Il percorso analitico

A dispetto delle apparenze e delle convinzioni più diffuse, è ben poco promettente un percorso, un lavoro su se stessi che abbia come scopo quello di liberarsi dell'assillo di una parte di sè che preme, che col malessere interiore tiene sulle spine, che oscura il senso di  sicurezza e di fiducia, che in varia forma intralcia e non dà sostegno alla volontà di preservare e di proseguire ciò che è abituale. Sembrerebbe massimo bene per sè togliersi un simile peso, ritrovarsi liberi da tensioni e da ostacoli interiori. La vita parrebbe finalmente sorridere e accessibile senza restrizioni, senza fardelli aggiunti, senza coloriture insane. Eppure una simile lettura, talmente, a prima vista, convincente da apparire ovvia, è profondamente distorsiva del vero e per nulla ben promettente. Se quel che conta è non ritrovarsi in guerra con parte intima di se stessi e essere pienamente, davvero pienamente, liberi e vitali, il cammino, il percorso da seguire è tutt'altro da quello di togliersi di dosso la pressione interiore di cui si è preda. Non c'è banalmente nel malessere interiore il segnale di un problema di origine remota, di un trauma psichico pregresso, di una cattiva influenza subita dall'ambiente familiare e non, di carenze o di distorsioni patite. Spendersi per una lunga ricognizione nel passato alla ricerca dell'inghippo, della causa di tutti i mali, partendo da una lettura vittimistica del proprio disagio, allontanandosi dal confronto, dall'incontro e dal dialogo col sentire attuale, sarebbe un inutile e assurdo lavorio, sordo al presente, al richiamo odierno della propria interiorità. Sarebbe un lavoro segnato dall'aprioristico convincimento che ci sia una causa da trovare, dalla preconcetta idea di ciò che avrebbe dovuto svolgersi e spettare a se stessi, inanellando solo preconcetti e petizioni di principio. Il percorso possibile e sensato è un altro. C'è la propria interiorità che in modo vivo incalza, preme e dice. Si tratta di imparare a darle retta, a ascoltarla, a intendere il suo linguaggio, a comprendere la sua proposta. La propria interiorità non soltanto coinvolge e comunica attraverso il sentire, ma, per farsi meglio capire e per dare guide di ricerca e di comprensione approfondita, mette a disposizione i sogni, autentica scuola di pensiero per capirsi, per conoscere. Il percorso analitico è questo, vuole aprire e svolgere senza restrizioni e deformazioni il dialogo e il confronto con la propria interiorità, allo scopo di non schiacciare o respingere il malessere interiore, la difficile esperienza interiore che si vive, ma di comprenderla nel suo linguaggio e nelle sue intenzioni, di farne tesoro come occasione per capire fino in fondo se stessi e i nodi della propria vita, per perseguire lo scopo di trovare piena sintonia e  unità con se stessi, scoprendo che ciò che vive dentro se stessi non è presenza ostile o guasto o insidia, ma viceversa autentica fonte di consapevolezza e di vita. Non promette nulla di buono mettersi sul piede di guerra contro ciò che interiormente si giudica sbagliato, anomalo, insano o nemico. Non offre nulla l'idea che ci sia un guasto da correggere, una causa di tutti i propri mali da trovare. Non promette nulla di buono il tentativo, davvero insano oltre che velleitario, di zittire e di togliersi di dosso parte vitale di se stessi, temuta, svalutata e osteggiata ancor prima di conoscerla. Promette invece unità con se stessi e visione più fondata della propria vita e delle proprie ragioni d'esistenza, scoperta delle proprie originali potenzialità cercare un incontro e un dialogo aperto e senza restrizioni con la propria interiorità. E' proprio questo che il malessere interiore cerca e sollecita con forza: ascolto della propria parte intima e profonda, dialogo e unità con se stessi.

venerdì 17 giugno 2016

Apertura e intelligenza

Cosa richiede il malessere interiore, quale cura? In due parole direi: apertura e intelligenza. Il malessere interiore è ispirato e tenuto vivo dalla parte più intelligente e lungimirante dell'individuo, anche se frequentemente ignorata e sottovalutata, anche se malintesa e spesso bistrattata. Il profondo, l'inconscio non cessa di avanzare proposte intelligenti, ispirate non già dalla preoccupazione di sistemare alla bell'e meglio le cose, di mantenere integro e in buona forma, di dare conferme a un modo di procedere e un'idea di se stessi imperanti, che non vorrebbero intralci, che si considerano insostituibili, ma viceversa dal proposito di parlar chiaro e sincero, di non tacere contraddizioni e vuoti, di spingere verso cambiamenti importanti, fedeli a se stessi profondamente e dalle solide fondamenta. L'inconscio non è perso dietro illusioni, vuole non seppellire la consapevolezza, vuole che adulti si diventi nel segno di dare al mondo il proprio e non di farsi dire cosa inseguire e come essere per ricevere conferma o plauso. L'inconscio vuole consapevolezza, vuole che ci sia crescita vera, è un pungolo, è un maestro esigente, cui non fanno difetto il coraggio e la determinazione, l'intelligenza e la saggezza. Per corrispondergli, per non remargli contro è necessario dare apertura e non chiusura ostile e pregiudizio. E' necessario disporsi a conoscere e a capire, a fare un lavoro attento e approfondito, senza scorciatoie e senza inganni, senza semplificazioni, senza i bluff e gli imbrogli del ragionamento, del modo di pensare razionale, che non ha supporto e che non cerca guida nel sentire. Ci vuole intelligenza, perchè è sul piano del pensare intelligente e riflessivo, che guarda (come guardandosi allo specchio, riflessivamente) nell'intimo di se stessi e della propria esperienza, che si muove l'inconscio, che si svolge la sua iniziativa, che si esprimono sia i sogni che i vissuti, gli stati d'animo e le emozioni, che tutto il corso della vicenda interiore, che l'inconscio regola e governa. La cura del malessere e della crisi interiore, il prendersi cura di se stessi in due parole: apertura e intelligenza. Quanto manchino nei modi di prendersi cura più abituali, nei metodi di cura più frequenti è sotto gli occhi di tutti. Ne sono esempio l'utilizzo sempre più esteso di psicofarmaci, cioè  di armi chimiche per tentare di mettere a tacere e in riga come fossero bizzarrie e assurdità, anomalie e disturbi, i richiami e i segnali interiori intelligenti (anche se sofferti, anche se non piacevoli), la proposta assai diffusa di psicoterapie direttive, che vorrebbero condurre a correggere e a riplasmare le risposte interiori (non comprese nel loro vero significato e intendimento, assolutamente opportuni e intelligenti) ritenute, senza dubbi e esitazioni, "disfunzionali", cioè immotivate, irrazionali, sfavorevoli. Il malessere interiore, vissuto e interpretato spesso (da chi lo vive, ma anche anche dai modi delle cure prevalenti) come presenza nemica, come minaccia e ostacolo da eliminare, se ben compreso in ciò che vuole dire, promuovere e aprire, va contro e attenta in realtà a un'unica cosa, alla chiusura mentale e al rifiuto di spendersi per se stessi in coraggio e in intelligenza.

martedì 14 giugno 2016

Realtà e "derealizzazione"

Riprendo qui il filo di un discorso aperto in un precedente scritto (titolato:simbiosi con altro e fuga da se stessi), per svolgere un approfondimento sulla cosiddetta derealizzazione.                                     Per realtà si intende comunemente quell'insieme strutturato e organizzato esterno a sè, cui si sta rivolti e intenti (oggi si direbbe connessi), da cui ci si fa dire e dare, da cui spesso ci si fa suggerire temi e opportunità, dentro cui sembra doversi inscrivere la propria ricerca di cose da conoscere, da sperimentare, da realizzare. Imparando, come in genere si fa, a stare in ben stretto legame con cose, vicende, persone, assimilando tutte le regole di una simile integrazione e il relativo linguaggio e modo di pensare , prendendo, per esempio, per buono che ciò che è sotto i riflettori è ciò che è più attuale e importante, che ciò che si discute tra i più è l’ordine del giorno degli argomenti da svolgere e da sapere, via via nutrendo dentro sé, sempre più, fame di questo altro esterno a sè e la paura che, senza contatto e riconoscimento esterno, si sia soltanto in ombra e a rischio d’essere spenti, ci si convince che in quell'insieme esterno e in quello stretto legame adesivo con esso ci sia la realtà in assoluto e il contatto con la realtà. Realtà dunque diventa ciò da cui si dipende totalmente, cui si fa riferimento per avere luce negli occhi, argomenti, opportunità, scansione di tempo, tutto insomma. La crescita di un individuo corre spesso lungo questo binario. Si impara a considerare reale solo ciò che sta in stretta correlazione e dentro questo insieme esterno. Reale potrebbe essere "in realtà" tutto ciò che si può incontrare nel proprio e nell'intimo di sensazioni e di stati d’animo, imparando a dialogare con questi e a trovare lì comprensione di significati, luce e sguardo, argomenti e punti di riferimento, senso di ciò che è vero, fondato su scoperta originale, tenendo conto di sé, ma questa è possibilità spesso ignorata oppure sminuita. Cos'è possibile infatti, ci si chiede, trarre da sè, dal confronto con se stessi, che peraltro si auspica veloce, non troppo prolungato, per paura di rimanere indietro, se non qualche commento sull'ordine del giorno di cui dicevo, se non qualche proposito di stare meglio inseriti e al passo del reale là fuori?                                                                 Cosa accade quando la componente profonda dell’individuo non tollera più lo stato di dipendenza dall’esterno come unica fonte e unico supporto vitali, quando, per segnalare che c’è urgenza e necessità di trovare nuova realtà viva e consistente, vero senso di realtà, per spingere a congiungersi a se stessi, a connettersi non al fuori ma al proprio sentire e alla propria intima esperienza, per cominciare finalmente a accendere e a formare sguardo e pensiero propri, prende con decisione a staccare i fili che connettono all'esterno? Cosa accade quando la cosiddetta realtà per iniziativa profonda è resa nel vissuto smorta, scolorita, opaca, piatta, quando il sentire impone senso di non familiarità, di estraneità, di lontananza da tutto ciò là fuori che fino a ieri era cercato come essenziale e necessario, come una droga per avere senso di contatto, di presenza in qualcosa, di presenza in una storia, senza che la propria storia e i suoi presupposti e fondamenti avessero mai visto la luce? Se la componente profonda non accetta la lontananza da se stessi, l’illusione d’esserci e di essere in un percorso significativo e proprio, quando invece si è solo a rimorchio, quando si riproduce solo una parte e un ruolo tenuto su e reso credibile da sguardo e da conferme esterne più che da consapevolezza e da persuasione proprie e profonde, mai cercate e coltivate, se di conseguenza prende posizione forte e crea un simile stato di disconnessione e di perdita di sintonia con l'esterno, la reazione dell'individuo è non solo di comprensibile smarrimento e sconcerto, ma anche di disperazione. Qualche esperto o preteso tale è già pronto a battezzare il malessere che insorge, la crisi che si apre (che vuole mettere in questione l'equilibrio, tutt'altro che esaltante, della dipendenza totale dal cosidetto reale, che chiude a se stessi), con espressioni tecniche come "derealizzazione", che come paroline magiche sembrano spiegare tutto, che sembrano avere l'autorevolezza del sapere scientifico, con tanti pronti a riverirle, a servirsene, ad assumerle come il chiarimento esaustivo del proprio stato, considerato automaticamente anomalo e da curare come fosse un’affezione al pari dell’influenza o della polmonite. Che triste realtà quella in cui non si comprende che reale è prima di tutto la propria presenza, il proprio essere da incontrare e da conoscere nella sua totalità e pienezza, ricomponendo la dissociazione tra pensare/agire e sentire/esperienza interiore, che reale è ciò che si comprende davvero, passando attraverso se stessi, conoscendo su base di intima esperienza e riflessione e non replicando il sentito dire!

sabato 28 maggio 2016

Malessere e (mal)trattamento

I modi di pensare comuni fraintendono e trattano malamente l'esperienza interiore particolarmente quando alza i toni e diventa difficile e sofferta, non sono per nulla adatti a comprenderla. Si parte in genere dal principio, che pare ovvio e indiscutibile, che se si vive un'esperienza interiore disagevole, se si prova ansia, malessere interiore nelle sue diverse e possibili espressioni, questo sia uno stato anomalo, sfavorevole e nocivo da cui uscire prima di tutto e al più presto. La sofferenza interiore è certamente una esperienza non facile, non piacevole, può essere assai penosa, a prima vista insolita e strana, ma non per questo è insana. Non è insana perchè non è insulsa. Anche se spesso si è pronti a sostenere che non ha motivo d'essere, anche se la si stigmatizza come abnorme e assurda per il modo insolito di proporsi, in realtà dice cose vere, assolutamente fondate e con grande precisione, anche se richiede, per essere compresa fedelmente, sia un diverso animo, che non voglia rifuggire e scaricare ciò che interiormente risulta spiacevole, che capacità di ascolto e riflessiva, che solitamente non si possiedono. Pare strano, ma si cresce imparando più a intendersi, si fa per dire, col mondo esterno che col proprio sentire, che con se stessi. Per questo motivo le esperienze e le vicende interiori complesse e disagevoli colgono  impreparati molti e suscitano facilmente risposte più volte a contrastarle e a combatterle, che a avvicinarle, a intenderle, a valorizzarle. Se è comprensibile lo smarrimento e la reazione di paura di fronte all'acuirsi di esperienze interiori affatto comode e discrete, bensì pervasive e persistenti, non è esagerato dire che è perfido oltre che ottuso giudicare senza appello come anomalo o malato ciò che non si sa avvicinare, che non si sa ancora intendere. Il trattamento riservato al malessere interiore nelle sue diverse espressioni finisce spesso, costringendolo a fare i conti con principi di presunta normalità di funzionamento e non, di salute e malattia, per squalificare come disturbo e malfunzionamento ciò che non è compreso nel suo significato e valore, ciò cui non si concede il minimo ascolto. Tutto avviene con le parvenze della cura, della volontà di procurarsi e di farsi dare da cure e da curanti beneficio. In realtà il beneficio ha il prezzo del rifiuto e della fuga, del combattimento ostile contro parte viva di se stessi cui non si sa dare riconoscimento e ascolto. La vita interiore è l'eterna sconosciuta, bollata, catalogata nelle sue espressioni meno facili da capire con le diverse etichette diagnostiche (le diagnosi, operazioni classificatorie sterili, che però, in virtù dell'essere pronunciate da presunti esperti, sembrano definire per intero contenuto e significato di ciò che in partenza, che a priori e senza appello è giudicato anomalo), frantumata in sintomi che vorrebbero suffragare il guidizio diagnostico, spiegata con ipotesi di apparente sapore scientifico di squilibri biochimici (la biochimica, le reazioni biochimiche accompagnano, fanno da substrato a ogni espressione della nostra vita, del nostro essere, ma ciò non significa che il nostro essere si riduce alla biochimica o che ne è in automatico determinato), giudicata nelle sue espressioni come disfunzionale, incongrua e non utile, tutto meno che saputa avvicinare e comprendere in ciò che dice, che rivela, che intende proporre, nello scopo che vuole promuovere e far perseguire. Non ci si può certamente limitare a assumere l'idea che ciò, che interiormente è squalificato e ridotto a segno di malattia, ha un senso e un valore, si tratta di essere aiutati a avvicinare e a comprendere davvero, puntualmente e senza omissioni, il proprio intimo sentire e tutto ciò che la propria esperienza interiore propone. La possibilità esiste, ma serve che lo stesso curante non sia estraneo alla vita interiore, che non sia un semplice ripetitore di teorie e di tecniche curative prese in prestito da scuole e da libri e riprodotte. Se il curante, lontano dalla conoscenza interiore e di se stesso prima di tutto, è tutt'uno con l'idea del malessere come anomalia da sanare, con la ricerca aprioristica del rimedio per rimettere ordine, se, nel migliore dei casi (migliore si fa per dire) pensa che ci sia una causa da cercare in qualche recondito del passato o in qualche circostanza avversa per spiegare la sofferenza che non sa ascoltare e comprendere in ciò che sta dicendo e svelando adesso, finirà per diventare complice e istigatore della fuga dell'altro da se stesso, del suo dissociarsi dal proprio intimo e profondo. Se l'individuo che soffre interiormente crede che la sua esperienza interiore difficile e sofferta sia solo una minaccia, un impedimento, un danno, tutt'attorno il modo prevalente di concepire la vita e il cosiddetto benessere non incoraggia di certo la riflessione, l'avvicinamento fiducioso a se stessi, l'ascolto, la valorizzazione di ogni segnale e espressione della vita interiore. Il comune imperativo di fronte a situazioni di malessere interiore è "uscirne al più presto", le stesse cure, farmacologiche e non, sembrano essere più strumenti per cacciare via e mettere a tacere il proprio sentire, che aiuti per colmare la frattura di paura e di insofferenza, di pregiudizio e  di diffidenza, che separa da se stessi, per trovare col proprio intimo, con ciò che si prova e sperimenta interiormente capacità di incontro, di ascolto, di comprensione. Il malessere è espressione viva di una parte di noi stessi, profonda, più interessata a entrare nel merito e nel profondo di come siamo e di ciò che ci coinvolge, che di far proseguire indisturbata la nostra esistenza come se niente fosse, accontentandoci di apparire a noi e agli altri normali e adeguati, con tutte le cosine a posto. Dentro di noi e profondamente siamo più attenti e testimoni del vero, che di ciò che ci fa comodo pensare. Profondamente abbiamo più istinto e desiderio di non tacerci nulla, di non rinunciare a noi stessi e prima di tutto a vedere le cose che ci riguardano con attenzione e verità, che di proseguire indenni e indifferenti, illusi e senza conoscenza di chi siamo e di come siamo. Se il profondo agita le acque, se addirittura, per sospendere il quieto e solito procedere, dà scosse tremende come con gli attacchi di panico, un motivo c'è, un motivo di salvaguardia per non perdere tempo e per provvedere, per non perdere se stessi in un corso di vita in cui nulla di sè si è davvero preso a cuore, nulla è stato davvero compreso e approfondito, nulla sì è coltivato e fatto crescere capace di rendere autonomi e capaci di fare della vita la propria vita.   Il malessere interiore non è una trappola da cui uscire in fretta, è semmai il contrario, sempre che si impari a comprenderlo per il suo verso, sempre che si impari, casomai con l'aiuto di chi sappia dare gli strumenti necessari, a dialogare con la propria esperienza interiore e non a trattarla come un incomodo, come un meccanismo guasto da riparare o da mettere a tacere in qualche modo. Il profondo, che agita le acque, che non dà tregua, che esercita potenti e insistiti richiami attraverso il malessere interiore, se ascoltato in ciò che dice nel sentire e soprattutto nei sogni, dove dà il meglio per spingere a guardare dentro se stessi e a capirsi, sa aiutare a trovare la strada, sa aiutare non già a uscire dalla crisi rimanendo tali e quali, ma a entrare in un percorso vivo di ricerca per finalmente arricchirsi di consapevolezza, per diventare se stessi pienamente. Se si vuole si può imparare, con l'aiuto giusto, a prendersi davvero cura di se stessi, cercando unità con la propria interiorità, col proprio intimo, assecondando ciò che il malessere e la crisi interiore vogliono generare. Se viceversa la cura, pur con le migliori intenzioni dichiarate, è operazione ostile, se respinge ciò che si fa avanti dal profondo, se lo cestina come insano e patologico, se tenta di raddrizzarlo perchè lo giudica disfunzionale, se non sa riconoscerlo come proposta intelligente, come spinta e via di trasformazione e di crescita, non solo utili, ma necessarie e di vitale importanza, rischia di seppellire il proprio in nome del qualunque, di confermare e di rafforzare soltanto la rottura con se stessi.

domenica 15 maggio 2016

Disturbo?

Ci complica la vita convivere con una parte di noi stessi intima e profonda, che non rinuncia a interferire, a intervenire nella nostra esperienza, dando segnali, plasmando vissuti, che, scomodi e in apparenza inopportuni, vogliono però perseguire uno scopo, in genere incompreso. Quando le risposte interiori risultano deludenti o addirittura (in apparenza) sciagurate e fallimentari rispetto a attese di buona prestazione o di “normale” funzionamento, sono subito esposte al rischio di squalifica e di rifiuto. Diventano ai propri occhi, prima ancora che a quelli di altri, un disturbo, un'insufficienza, soprattutto un ostacolo, un preoccupante motivo di insuccesso. Se le cose sono viste unilateralmente dalla parte conscia, se pensate e giudicate in un'unica accezione, in modo univoco nel verso dell’ottenere risposte efficaci secondo principi di pretesa normalità e di buona prestazione, le sensazioni provate, come, per fare un esempio, quelle di timidezza, di impaccio, di ansietà e paura in presenza d'altri e particolarmente di figure ritenute d'autorità, sono prontamente squalificate, considerate solo come risposta difettosa e dannosa per i propri interessi, controproducente. In realtà risposte interiori e vissuti, niente affatto sgangherati e frutto di malfunzionamento, di fragilità o di storture nel modo di pensare e di funzionare, vogliono invece dare base intelligente per capire, per capirsi. Ogni espressione del sentire evidenzia, marca con vigore questioni su cui lavorare non già per ottenere subito risultati funzionali, ma per capire in profondità, per favorire, su basi realmente consapevoli,  importanti e profonde trasformazioni, robusti processi di crescita. Per rimanere all'esempio di prima,  per chi vive quelle cocenti sensazioni cosa c'è in gioco nel suo rapporto con gli altri, con chi particolarmente occupa posizioni di cosiddetta autorità, quanta dipendenza c’è dagli altri nel farsi indicare obiettivi e nel farsi riconoscere abilità, qualità, meriti? Cosa copre e (malamente) sostituisce di mancante, di non cercato dentro sè, di non generato da sè questa dipendenza? Quanta mancanza di conoscenza di se stessi, quanta incapacità di guidarsi e di legittimarsi nelle proprie scelte, c'è alla base di questa dipendenza da altri, quanta poca ricerca e esercizio del proprio sguardo c'è in quell'incombere e dominare continuo dello sguardo e del giudizio altrui, particolarmente se di persone comunemente considerate autorevoli? Non può e non deve, questo ciò che anima il profondo nel suo dettare quelle risposte interiori, passare inosservata e ignorata una simile condizione di  dipendenza, il cui prezzo è farsi tirare i fili, dirigere e definire da altri in ciò che si è e in cosa va perseguito e come. Se sfugge di mano la consapevolezza della propria reale condizione e di come si procede, non si è liberi, si va a testa bassa, casomai con la convinzione illusoria di essere già sufficientemente maturi e arrivati a buon punto nel capire e nel conoscere se stessi,  nell'essere liberi e indipendenti nel definire i propri scopi. Se non si comincia a vedere riflessivamente, come guardandosi allo specchio, il proprio stato e modo di procedere (senza travisamenti di comodo), si rischia di rimanere ingabbiati in una condizione cieca, senza consapevolezza e senza verifiche, casomai inseguendo altro dai propri veri scopi, tutti sommersi, ancora da scoprire. Chi si è e cosa ha valore per sé, se non c’è convergenza con se stessi per trovare lì, nell’incontro e nello scambio con la propria interiorità, chiarimenti e risposte, possono rimanere verità e scoperte inaccessibili. Se la parte interiore interviene e interferisce è per donare occasione di presa di coscienza, casomai con più dispendio di impegno, di tempo e di energie per capire, del semplice cercare di proseguire in buon ordine come si ritiene facciano tutti, ma con la opportunità di attrezzarsi con chiarimenti e con risposte più mature e vicine ai propri interessi. La scelta del profondo, che mobilita il sentire, che detta le risposte interiori per ottenere lo scopo di guardare dentro se stessi, di vedere nitidamente, senza veli, senza illusioni o infingimenti, i propri modi di procedere è scelta assai più provvida e fruttuosa dell’incaponirsi a cercare subito "normali" e buone prestazioni (particolarmente in pubblico), del trovare subito riscontri di buon funzionamento. Spingere a senso unico nella direzione della normalizzazione non aiuterebbe certo a trovare intesa con se stessi, anzi rafforzerebbe il dissidio e l’incomprensione già presenti col proprio intimo e profondo. Il rischio è di non capire che ciò che si sente, anche se risulta arduo e non piacevole, anche se complica il procedere, è espressione di una parte di se stessi che non vuole fare danno, anzi tutt’altro, che vuole viceversa aiutare a trovarsi, a trovare, in dialogo e d'intesa col prorio profondo, risposte proprie, a sviluppare su questa base forza e autonomia vere, a costruire capacità di autogoverno della propria vita. L'abitudine a pensare nel modo in cui si fa comunemente o dando retta a presunte autorevoli fonti, a dare per scontati i significati, unita alla  mancata capacità di stabilire un rapporto con le proprie sensazioni, vissuti, esperienze interiori che non sia il brutale mettere loro addosso definizioni e giudizi di valore, senza concedere loro dignità, senza prestare loro attenzione e ascolto, rischiano di rendere incrollabile e inossidabile l'idea del disturbo, vera arma letale usata contro se stessi e a proprio danno. Per sostituire modi sbrigativi di sentenziare contro e sul conto del proprio sentire, come con l'idea del disturbo, per aprire la strada del conoscersi e del capirsi dentro e attraverso ciò che si prova interiormente, serve un lavoro nuovo e diverso dal solito  dare spiegazioni col ragionamento, serve acquisire e sviluppare capacità di ascolto e riflessiva per entrare in rapporto con la propria interiorità, per rispettarla e per comprenderla in ciò che dice. Per trovare fondata fiducia dove ora c'è timore e diffidenza verso ciò che si vive interiormente, per aprirsi a uno scambio pieno e fecondo con la propria interiorità, per imparare a lavorare su ciò che i suoi richiami (nel sentire e nei sogni) indicano come i nodi da sciogliere, come i temi vitali da approfondire, essenziali per favorire la propria crescita e autentica realizzazione, può rendersi necessario l’aiuto di chi sappia accompagnare in una simile ricerca, di chi non abbia in testa solo idee di aggiustamento e normalizzazione, di pronta rimessa in efficienza.

domenica 3 aprile 2016

Illusione o sostanza

Il malessere interiore non è nemico, vuole essere complice, cerca complicità nell'individuo, che lo vive, nel guardare ben dentro se stesso e oltre le apparenze, cosa che implica capacità e coraggio di mettersi in discussione, di non tirare le cose nel verso più conosciuto e rassicurante. Molto spesso, per puntellare sicurezze, che casomai fanno acqua, ma che immediatamente fa comodo mantenere, si oscura la verità di se stessi, si tengono vive illusioni, facendo leva e cercando appoggio all'esterno, nelle conferme che possono arrivare dagli altri e dal senso comune. Avere poco o nulla, non mi riferisco a cose, ma a dotazione personale di pensieri e di scoperte proprie e fondate, a conoscenza di se stessi, se da un lato è spesso una condizione tanto reale quanto ignorata dalla parte conscia o perlomeno minimizzata, dall'altro produce e tiene viva inquietudine interiore. Questo perchè dentro se stessi profondamente non si è incuranti o ingenui, si sa riconoscere ciò che manca, che è essenziale non già per stare in un qualche equilibrio, ma per avere idea di chi si è, di cosa significa questo e quello della propria esperienza e modo di procedere, per raggiungere consapevolezza di ciò che ha davvero valore per sè, di ciò che è irrinunciabile perseguire e realizzare perchè la propria vita abbia scopo, sostanza e merito ai propri occhi. Per raggiungere l'autonomia, la capacità di dirigere e di realizzare la propria vita con le proprie forze e verso i propri scopi, senza chiedere permesso e approvazione ad altri, serve colmare quel vuoto, quella mancanza di consapevolezza e di intesa con se stessi. Il malessere interiore, la crisi intendono far risaltare ciò che manca e spingere perchè si inverta la tendenza, perchè ci si preoccupi non già di conservare l'equilibrio e lo stato soliti, ma di formare ciò che non c'è, che non si possiede ancora. Paradossalmente capita invece che in presenza di difficoltà e di sofferenza interiore prevalga la tendenza a evadere, a prendere distanza dalla crisi, come se l'unico interesse fosse quello di ripristinare e rinsaldare la condizione solita. Spensierarsi, svagarsi, occuparsi, spesso in modo del tutto casuale, di questo o di quello, provare banalmente a rilassarsi, reazioni sovente incoraggiate anche dagli altri al malessere interiore, non possono nè soddisfare nè compensare ciò che manca e per cui si è comprensibilmente tesi e inquieti. La normalità e il quieto aderire della parte conscia allo stato vigente prima della crisi, condizioni cui si vorrebbe prontamente ritornare, come fossero il massimo bene possibile, si fondano più spesso di quanto non si crede o non si vuole credere su illusioni circa il proprio grado di maturità e la qualità del proprio stato, spesso caratterizzati  più da lontananza da se stessi, da dipendenza da altro e da altri, piuttosto che da capacità di capirsi, di comprendere i propri vissuti, il proprio sentire, da capacità, su queste basi di intesa e di conoscenza di sè, di dirigersi e di governarsi consapevolmente e autonomamente, fuori da guide e da convalide esterne. L'attaccamento, la volontà pervicace di ritorno al solito e abituale, al corso normale,  implicano, come già in passato,  ancor più ora, in presenza di segnali di crisi, forti pressioni a ottenere conferma e risultati, a dare prova di questa normalità e parvenza di buono stato. Dimostrarsi all'altezza, avere da dire, rivelarsi adeguati sono prove, cimenti e verifiche continue cui ci si sottopone. In mancanza di buone prestazioni o in presenza di senso intimo di insicurezza e apprensione, la reazione della parte conscia è di disappunto, di preoccupazione, di recriminazione per la mancata saldezza e prontezza. Giudicati come deficit incomprensibili o come conseguenza di malaugurati cali di autostima e di fiducia, non si comprende nulla di ciò che queste esperienze e che questi vissuti vogliono dire, di ciò che queste insicurezze vogliono segnalare, soprattutto non si comprende che non c'è fragilità eccessiva o anomala, ma precisa volontà interiore di rendere il quadro più vero, più profondamente chiaro. Accade infatti che il profondo scelga in modo diverso rispetto a ciò che la volontà, che la parte cosiddetta conscia vorrebbero ottenere, persuase che la strada da seguire sia indubitabilmente quella ad esempio della reazione pronta, della dimostrazione di adeguatezza  secondo i criteri dominanti di normalità e di riuscita. Capita che alla parte profonda non sfugga l'utilità di un diverso, sostanziale modo di intendere la propria crescita e la propria realizzazione, che non ignori i vuoti, non di prestazione, ma di sostanza, la mancanza di tessuto vivo di consapevolezza e di pensiero proprio, da coltivare, da formare, non per riuscire subito e per dimostrarsi all'altezza delle comuni e abituali pretese, ma per avere davvero del proprio originale, valido e consistente, per dare volto proprio alla propria vita. Se per la parte conscia dell'individuo avere fiducia in se stesso (l'ho detto in altri miei scritti) è quasi una pretesa, come si trattasse di un'ovvietà, come se i giochi fossero già fatti, come se un pò d'anagrafe e d'esperienza di per sè dovessero già dare forza e maturità di risposta nelle diverse situazioni, al suo profondo preme la sostanza, non cade vittima di illusioni. Se la fiducia in se stessi va fondata su reale possesso di risposte proprie, guadagnate da incontro e da confronto con se stessi, da scoperta con i propri occhi di significati, che non siano quelli già codificati e comuni, semplicemente ripetuti e rimasticati, ridetti con illusione di sapere, in realtà senza capire alla radice nulla, ecco che il profondo non ci sta e vuole per se stessi un percorso, casomai più lungo e graduale, più impegnativo e faticoso, ma certamente più solido e promettente, oltre che appassionante, per conquistare capacità autonoma di pensiero. Non è uno sfizio questa autonomia, è la base per esistere, per non essere gregari rispetto a principi e a idee comuni, per essere pensanti e capaci di concepire il proprio, coerente con se stessi, è la base per sentirsi realmente consapevoli di ciò che si dice e che ci si  propone, per essere liberi di non infilarsi nel percorso segnato da altri e da altro, liberi di intraprendere e seguire, anche senza consensi esterni, cammino originale e verso scopo compreso e da sè concepito. Capita dunque che l'inconscio, che il profondo neghi percezione di sicurezza e di fiducia, per rifondarle su basi nuove, per non insistere nell'andare avanti con fiducia fittizia e immeritata, non agli occhi degli altri, ma ai propri. Capita che il profondo, determinando impacci o blocchi, spunti l'arma della prestazione tanto desiderata soprattutto se in presenza d'altri, ad esempio della replica pronta, della parola e dell'affermazione efficaci, per far sì che, tacendo, incassando la tensione, ci si chieda cosa quella discussione o questione ha mosso in se stessi, cosa significa dire o dare risposta, cercando che cosa, se di tradurre qualcosa in cui si crede davvero e che davvero si comprende e si può sostenere o se, sforzandosi solo di convincere altri, di sventarne il cattivo giudizio, di meritarne la buona considerazione, casomai parlando a vanvera e senza sapere per davvero cosa si sta dicendo. Al profondo preme la crescita vera e sostanziale, non gliene importa di vittorie di immagine, di buone riuscite in pubblico, di successi del cavolo, che non hanno sotto davvero nerbo, qualità e sostanza. Questi vanno trovati nella capacità, graduale, di capire e di capirsi, di non tacersi nulla, anche se scomodo, di tessere filo di pensiero proprio, fondato su verifiche attente e sincere, saldo. La visione del profondo è straordinariamente più saggia e lungimirante di quella della parte cosiddetta conscia, che spesso si fa bastare illusioni e che è così incline al cieco aderire all'abituale, all'impazienza, allo stare ai tempi dettati dall’esterno, dall’assillo della prova e del giudizio altrui. L'ansia e quant'altro che interiormente crea instabilità, che segnala crisi, che non dà quieto vivere, vuole proprio rilanciare la tensione del cambiamento, mostrare crepe, invitare con forza, talora con prepotenza, come con gli attacchi di panico, alla priorità dell'avvicinamento a se stessi, del lavoro su se stessi, rispetto al cieco andare avanti con pretesa che tutto sia già a posto. E’ assai frequente incontrare in chi vive situazioni di disagio interiore, come fosse reazione e recriminazione ovvia, un susseguirsi di lagnanze, di attacchi ostili all'ansia e a quant'altro interiormente disturba, squalificato, considerato (ottusamente) come ostacolo e impedimento e non come richiamo al compito di guardare dentro se stessi e di formare quel che ancora non c'è: consapevolezza, tessuto umano e di pensiero propri, unità con se stessi. Si può scegliere se cercare la propria autonomia e la propria forza, vere e non velleitarie, la capacità di dire la propria alla vita e di generare il proprio, facendo tutto il percorso di ricerca e il lavoro su di sè necessari  per raggiungere questo scopo o rivendicare la continuità del normale, pur se spiantato e inconsistente.