domenica 25 novembre 2018
Fa male tenersi tutto dentro?
giovedì 1 novembre 2018
La trappola della idea di malattia
La patente di malato con la sua bella etichetta
diagnostica, spesso invocata da chi vive una condizione di sofferenza
interiore, per confermarsi vittima di ciò che sta provando, per porlo in stato
di quarantena e di controllo come fosse un morbo di cui liberarsi, una minaccia
da cui difendersi e da rendere bersaglio di presunte cure che la combattano e
che la facciano fuori, è in realtà la via maestra per portare a compimento la
propria dissociazione, per destinarsi a rigida chiusura verso la propria
interiorità. La vita interiore non risponde alle attese e alle pretese di
regolare funzionamento così come concepito dal senso comune, così come
auspicato dalla parte razionale dell'individuo, che, se chiusa al dialogo con
la componente intima e profonda, non fa altro che rigirarsi nel pensato comune,
unica fonte, unica ispiratrice dei propri pensieri. La vita interiore è lo
specchio e la traduzione in essere dell'intelligenza profonda. Dentro di noi
c'è una parte tutt'altro che sprovveduta che tiene conto nell'esperienza non
delle apparenze ma della sostanza, non della superficie ma del dentro, che
coglie e riconosce ciò che muove ogni gesto e ogni azione, che anima ogni
risposta, che non trascura di riconoscere il vero dell'esperienza, che non è
incline a coprire, ma a svelare, che non ha come suo intento cavarsela e
risolvere, ma capire, non ottenere risultati, ma riconoscerne la qualità vera,
la conformità a se stessi. Che lo si voglia o no, che lo si sappia o no, c'è
una parte intima e profonda del proprio essere che non è gregaria del
rimanente, che ha forte tempra e autonomia, che insiste nel dare segnali utili
e essenziali per calarsi nel vero, per non stare nell'illusorio, per non
barricarsi nella consapevolezza truccata e di comodo, nell'idea di se stessi
che ha più sostegno nello sguardo comune che nel proprio. E' la parte di se
stessi che ha più vicinanza con le proprie intime ragioni d'esistenza, con il
proprio potenziale da coltivare e sviluppare, che vuole crescita e formazione
di pensiero vero e fondato, autonomo e di sostanza e non spiantato anche se ben
congegnato come quello usuale e ragionato. Quella profonda è la parte di se
stessi che non si lascia incantare dalle inventive e dai prodotti a volte tanto
ingegnosi quanto sterili del ragionamento, che non si fa tirare e portare da
suggeritori esterni più o meno manifesti, che sa vedere la pochezza di essere
individuo realizzato secondo canoni comuni, ma gregario e passivo nell'aver
fatto propria un'idea di vita e di riuscita già concepita e altra da se stesso.
La componente profonda del proprio essere non è della partita e della corsa a
fare ciò che secondo altri e secondo idea prevalente è il meglio o è il
possibile della vita. La parte profonda scuote e agita le acque interiormente
per sollevare il problema del proprio muoversi senza aver mai cercato radice
dentro se stessi, del proprio blaterare e dell'affannarsi a inseguire, a
riprodurre, a stare dentro un'idea di vita che non ha nulla di vicino, di
scaturito da se stessi. Tutta la inquietudine e il malessere interiore, con le
sue diverse espressioni che in molti, che si sono definiti portatori di
pensiero scientifico, hanno preferito catalogare e etichettare per sottoporle a
trattamenti che le contrastassero e che le raddrizzassero, ma che, se sapute
intendere, segnalano puntualmente la fisionomia del proprio modo di condursi,
la problematica dell'essere lontani da contatto, da capacità di rapporto e di
dialogo con se stessi, è e vuole essere invito fermo a fermarsi per capire, per
capirsi, riconoscendo questa come la priorità. La priorità non è spingersi
avanti come se tutto di se stessi fosse implicitamente valido e scontato, non è
avere a cuore i risultati soliti e contingenti, ma è finalmente prendere
visione di come si sta interpretando e svolgendo la propria vita, su che basi e
guidati da cosa. La priorità, secondo la parte profonda di se stessi, è
rendersi conto che, amputati di un rapporto aperto e fecondo col proprio
intimo, non si è niente e nessuno, si è solo ciò che sta dentro una parte e
un'idea già confezionata, che senza il supporto dello sguardo e del consenso
comune non starebbe in piedi. Al profondo di se stessi preme che non si arrivi
al capolinea della vita senza aver capito nulla, senza aver provato a
sostituire l'illusione con la sostanza, la maschera dell'esistenza con
un'esistenza con il proprio volto, la vita secondo altri con la vita propria,
il pensiero rimasticato e nel coro col proprio finalmente cercato, coltivato e
messo al mondo.
venerdì 21 settembre 2018
La lingua batte dove il dente duole. La gelosia
giovedì 13 settembre 2018
La scelta
venerdì 24 agosto 2018
Riprendere in mano la propria vita
Docile non è...
La propria interiorità non sta affatto nei
confini della cosiddetta normalità, dentro quel campo delimitato, dove tutto
dovrebbe svolgersi secondo previsione e programma, senza scosse e senza
sorprese sgradite, non dando disturbo, non recando fastidio. Docile a simili
aspettative e pretese non è il proprio profondo, perché ama la vita, perché non
accetta i pastrocchi e le illusioni che l'altra parte, quella conscia, che, si
crede superiore in affidabilità e capacità di giudizio, confeziona. La parte
conscia, in presenza di crisi e di malessere interiore, che vorrebbero riaprire
i giochi, condurre a un serio riesame della propria vita, del proprio modo di
condurla, reagisce e si allarma, spesso, senza tanti indugi, strepita e sentenzia,
giudica e dispone, senza capire e intendere se non i propri pregiudizi, non si
fa scrupolo di aggredire la parte intima, di mortificarla, dandole della
balorda, della sciagurata, dell'incapace e della malata. La conferma autorevole
non tarda a venire. Etichette diagnostiche, che fanno di ogni erba un fascio,
per definire, meglio sarebbe dire per marchiare (e da lì avviare a trattamento
normalizzante farmacologico e non), con pretesa aria di sapere indiscusso e di
scientificità, esperienze interiori, tanto impegnative e disagevoli quanto
uniche e cariche di senso, con cui non si ha né volontà, né capacità di entrare
in rapporto, cui ancor meno si è disposti a riconoscere intelligenza e capacità
propositiva, sono il suggello di un atto ostile, anche se non riconosciuto come
tale. Un atto ostile contro parte di sè e a proprio danno, pur con l'aria di
procurarsi benevola cura, di darsi aiuto. L'interiorità non si piega, non si fa
addomesticare, insiste, ogni suo rinvenire forte e risoluto incontra risposta dura
e ancora ostile, la squalifica prosegue e la parte conscia parla di ricaduta di
malattia. Beata ingenuità di una parte di sé, tanto arrogante e spiccia nei
giudizi, quanto ignorante! Ho dedicato la mia vita a rivalutare e a
valorizzare, a difendere e a rendere giustizia e dignità alla parte
bistrattata, la più saggia in realtà, la più capace, insostituibile nel ridare
a ognuno dignità, forza e spessore di individuo pensante e consapevole e non di
pecora vagante senza meta propria e senza progetto, in forte e stretta sintonia
col gregge piuttosto che con se stesso. L'interiorità è valida, irremovibile
nel suo intento di testimone del vero, di promotrice di crescita, di
realizzazione umana autentica e non d'immagine e fasulla, l'inconscio è una
risorsa straordinaria e ai più sconosciuta nella sua vera natura e potenzialità
di fonte di vita e di pensiero. Ho cercato e cerco di aiutare l'altro a non
ripudiare parte di sé preziosa e affatto nociva, a non spararle contro per
liquidarla senza entrarci in rapporto e senza conoscerla, continuerò a aiutare
l'altro a non fuggire sciaguratamente da se stesso.
martedì 21 agosto 2018
La propria strada
martedì 31 luglio 2018
L'importanza di non travisare
L'interiorità si fa in quattro per
coinvolgere la parte cosiddetta conscia, che spesso di consapevolezza vera ne
cerca e ne forma assai poca, per farle capire che c'è necessità vitale di
prendere visione attenta di come si è e di provvedere a costruire, a formare
quanto manca per essere all'altezza di individuo con propria identità e
progetto. L'interiorità non vuole chiudere gli occhi e preme facendo capire che
non c'è urgenza di fare e di proseguire come sempre, senza perdere colpi, che
l'urgenza è ben altra. Ostinatamente lancia l'allarme, il profondo dell'essere
strattona anche con forza la parte di sopra, ponendo intralci alla sua pretesa
di quieto vivere, alla sua propensione a gettarsi fuori, come se il fuori fosse
l'unica risorsa e riferimento, l'unico habitat possibile, rifuggendo il luogo
intimo, dello stare in contatto con se stesso, col proprio sentire, come fosse
irrilevante e senza promessa, un niente da evitare, dentro cui non sostare,
perchè ci sarebbe sempre bisogno d'altro per vivere e, per dirla giusta, per
non perdere il passo con qualcosa che non si sa bene perchè, ma che tutti
dicono essere normale. L'interiorità non recede e insiste nella volontà di
porre al centro dell'attenzione non le illusioni, non la voglia matta, questa
sì matta, di proseguire e basta, ma non c'è verso, le capita solo di essere
oggetto di improperi (del tipo di: maledetta ansia!), di giudizi senza ascolto,
di sentenze senza appello, casomai sotto forma di diagnosi, di prese di misura
curativa che altro non sono che purghe per spazzare via ciò che è inteso solo
come disturbo e patologia. Il quadro è questo, ma i travestimenti in forma di
cura di risposte sorde e ostili all’interiorità e i travisamenti sono
infiniti e ferrei. Ne sono esempi, ben sostenuti dall'ideologia dello star bene
purchessia, casomai nel segno del non aver di mezzo dubbi e domande, la cura
che vuole mettere a posto e a tacere l’interiorità con i farmaci, quella
che vuole risanare e correggere con tecniche per eliminare ciò che considera
anomalo e disfunzionale. E poi ancora la cura che, con pretesa di essere
introspettiva e analitica, vuole spiegare i presunti perchè di ciò che,
interiormente impegnativo e difficile, non sa ascoltare in ciò che vuole dire e
far capire, cui soltanto va a cercare con lunghi giri le presunte cause per
levarselo di torno, per liberarsi dell’incomodo di qualcosa, che in partenza
terapeuta e paziente giudicano l'esito infelice di un danno patito, di un
passato sfavorevole, una sofferenza residua frutto di condizionamenti negativi,
di traumi subiti, travisando, travisando. Con ostinata sicumera si travisa come
disturbo da togliere e guasto da sanare ciò che l'interiorità vuole, a ragion
veduta, dire e dare, la consegna, che certamente impegnativa, ma a misura e a
altezza di essere umano, vuole portare a cambiare profondamente, a diventare
soggetti consapevoli e artefici della propria vita e non passivi traduttori di
un'idea di vita già scritta, con parte da interpretare e sceneggiatura belle
che pronte. Il profondo ha capacità di vedere vuoti e assenze, vuoti di sè, di
pensiero proprio, di capacità di leggere nell'intimo e senza veli il proprio
modo di essere e di procedere. Se ancora non si sono trovate le proprie
risposte alla propria vita e se ancora non si hanno radici in se stessi, come
si può pretendere di proseguire integri e imperterriti, come se tutto fosse
scontato e già risolto? Se una parte di se stessi vede e non ignora il problema
è assurdo e patologico o è comprensibile e sano che si faccia in quattro per
sollevarlo, strafottendosene della preoccupazione che domina l'altra parte di
sè di proseguire comunque e basta, di non perdere il passo con gli altri? E'
importante non travisare.
sabato 21 luglio 2018
Il valore dei sogni
domenica 1 luglio 2018
La cura
martedì 26 giugno 2018
La vera patologia
domenica 27 maggio 2018
Idee tanto diffuse quanto improprie
domenica 11 febbraio 2018
La concezione piatta
Le probabilità, dentro un'esperienza di
sofferenza interiore, di pensare subito al rimedio, al modo per superare ciò
che, senza dubbi e esitazioni, è inteso soltanto come uno stato negativo da
correggere, sono elevatissime. Sembra risposta sorretta da argomenti ovvi e
inconfutabili. Si dà per scontato che ciò che si sta provando sia il rovescio
di ciò che sarebbe auspicabile e normale. Gli stessi tecnici della cura e
esperti della psiche sono pronti, non certo in pochi, a offrire soluzioni per
mettere le cose a posto, vuoi prescrivendo farmaci, vuoi offrendo tecniche
d'aiuto che vorrebbero togliere e sostituire ciò che è penoso e che non
permette di procedere a cuor leggero, con qualcosa di più felicemente positivo
e funzionale a ritrovare quello star bene che si ha pena d'aver perso o di non
aver mai raggiunto. Terapie che vorrebbero risistemare le cose, togliere le
spine nel fianco, sconfiggere modi di reagire e di sentire giudicati
disfunzionali, che farebbero solo danno, che non avrebbero scopo utile e nulla
di valido da dire, che non saprebbero far altro che creare ostacoli e limitazioni,
pene inutili e superflue. Sarebbero solo il residuo di modi sbagliati di vedere
e di pensare, insomma scorie e difettosi modi di funzionare, casomai dettati da
cattivi condizionamenti educativi e culturali o da adattamenti a situazioni
sfavorevoli divenuti via via sconvenienti e controproducenti. Questo modo di
leggere l'esperienza interiore è conforme e parte di una visione dell'individuo
tutta a senso unico di marcia e piatta. Se non si sta in buon equilibrio
apparente, se non si procede in modo sciolto e senza freni e ostacoli
interni, bisogna adoperarsi per correggere gli attriti e le disfunzioni, perché
tutto giri a meraviglia. L'individuo deve usarsi al meglio e esprimersi come
serve per stare in buona armonia con l'esistente e con le idee di normalità e
di buon funzionamento comuni e prevalenti, questa la regola e il principio
della concezione piatta. La vita fatta e concepita con prioritario e unico
riferimento all'esterno, all'esistente, all'insieme organizzato e pensato,
confermandone, passivamente, il disegno, il linguaggio e i significati,
rendendo cruciali, essenziali i legami con altro e con altri, consacrando il
tutto come "la realtà", da non perdere mai di vista e con cui non
perdere mai contatto pena il rischio di sentirsi persi, psicologicamente come
senza guida e senza risorse, senza ossigeno da respirare, tutto questo delimita
e consente, senza alternative, la concezione piatta. Che l'individuo abbia
facoltà e necessità irrinunciabile, pena il rischio di non esistere come
soggetto, di vedere in proprio e riflessivamente (come guardandosi allo
specchio) ciò che sta facendo di se stesso, di cercare risposte su ciò che è
come individuo unico e originale e non fatto in serie, su ciò che porta dentro
se stesso, risposte non certo già confezionate e a pronto uso, ma da trovare, è
questione e esigenza fondamentale che spesso sfugge. Sfugge la necessità di
crescita personale, di sviluppo di autonomia non di facciata, ma sostanziale e
vera, che implica scoprire ciò che secondo se stessi e riconosciuto con i
propri occhi ha senso e valore, senza farsi imbeccare e imboccare da idee già
pronte e in corso, ma attingendo e mobilitando tutto il proprio potenziale
interiore, lavorando con attenzione, di concerto con la propria interiorità,
sulla propria esperienza, attivando il proprio sguardo e capacità di ricerca.
Ciò che più profondamente si sarebbe inclini a amare e a desiderare di far
vivere, ciò che davvero darebbe senso, valore e pienezza alla propria vita può
rimanere sepolto, inaccessibile, tirando dritto e seguendo la concezione piatta
dell'esistenza e delle possibilità che concede. Cercando di zittire col
malessere interiore anche la pressione della propria interiorità a prendere
visione del proprio vero stato e di se stessi, a sviluppare finalmente la
consapevolezza che finora non ci si è curati di formare, si finisce per pensare
e per muoversi nell'unica direzione che la visione piatta a senso unico
consente. Che l'individuo sia fatto oltre che di una superficie di volontà e di
capacità di pensiero razionale (che lavorando da solo, senza la guida del
sentire, più spesso di quanto non si creda, nella conoscenza di se stessi,
ricalca e rigira il già conosciuto, copre la verità anziché svelarla) anche di
una parte profonda, di gran peso e presenza, che nel sentire parla di continuo
e spinge al vero, che nei sogni offre occasioni di pensiero assai vicino e
corrispondente a se stessi, non ripetitivo di altro, aperture lucidissime di
sguardo riflessivo attento e affidabile, tutto questo sembra ignorato. Sembra ignorato
e sembra stare fuori dalla visione e dalla concezione sia di chi sente
malessere e che è alle strette con i richiami e con le pressioni della sua
parte profonda, sia di chi, non in piccola schiera, si offre come terapeuta. La
visione piatta vuole che tutto giri in un'unica direzione, nel verso del buon
regolare funzionamento, ignorando che il complicarsi della vicenda interiore è
espressione di un intervento della parte profonda che non vuole tacere, che
vuole richiamare l'individuo al compito di capirsi e di capire dove sta
conducendo la sua vita e dentro quali vincoli e modalità, di prendere atto di
quanto ignora ancora di se stesso e non ha ancora formato come capacità di
vedere e di concepire a modo proprio. Altro che disfunzioni! Ansia, attacchi di
panico, fobie o cadute depressive, grovigli ossessivi, tutte queste espressioni
della vita interiore hanno da dire e da richiamare a compiti di presa di
coscienza e di uscita da un modo inconsapevole, passivo, uniforme con altro,
incapace di mettere d'accordo il proprio pensare e il proprio sentire, un modo
spesso perdente e vano di spendere la propria vita, a dispetto delle apparenze
e del conforto di opinioni esterne a sé. Nel rapporto con la propria esperienza
interiore, nel modo di considerarla e di trattarla, c'è necessità di liberarsi
da automatismi di pensiero e di risposta, non importa se ampiamente condivisi,
che accecano e che portano lontano da se stessi, c'è necessità di affrancarsi
da una concezione piatta di se stessi e della propria vita, che accredita e che
spinge verso un presunto star bene, che umilia il proprio essere anziché
esaltarlo.
domenica 28 gennaio 2018
La triste sorte
domenica 21 gennaio 2018
L'equivoco del rimedio naturale
Chi non intende che ciò che sta provando, pur
insolito, doloroso, disagevole, ha un senso, che non è patologia da sanare, ma
che racchiude una proposta e un potenziale utile e necessario da imparare a
comprendere e a valorizzare, cerca con affanno e con ostinazione un modo e un
mezzo per mettere a tacere, per sbarazzarsi di ciò che considera solo un danno
per se stesso. Convinto di prendersi in questo modo cura di se stesso e di
difendere i propri interessi, cerca qualcosa che agisca per zittire e per
dissolvere possibilmente ciò che interiormente considera solo un disturbo, una
alterazione che comprometterebbe il suo buon vivere e "normale". La
stessa ricerca delle cause del malessere interiore è una delle opzioni nella
ricerca dei rimedi, concepiti per venir fuori da una condizione disagevole.
Pare scelta più lungimirante e aperta del ricorso a armi chimiche,
farmacologiche impiegate per combattere e per mettere a tacere il malessere, ma
muove sempre dall'idea, meglio sarebbe dire dal pregiudizio, che ciò che
l'individuo sta vivendo interiormente di arduo e disagevole sia uno stato
anomalo e negativo, che va ricondotto a una causa, a un fattore sfavorevole, a
un cattivo condizionamento, a un trauma, che avrebbe provocato un guasto e
compromesso il normale e fisiologico sviluppo. Pare scontato che le cose stiano
così e tutta un'offerta di cure asseconda e alimenta questa idea, l'infermeria
sociale che si propone di curare i disagi interiori offre e suggerisce mille
rimedi, chimici di sintesi o naturali, psicologici. Il rimedio cosiddetto
naturale pare a molti più benevolo e rassicurante, meno rudemente estraneo e
minaccioso di effetti, più o meno collaterali, dannosi del farmaco. Cosa c'è in
questo ricorso a prodotti e mezzi naturali di davvero naturale e nel rispetto
della propria natura? Per chi si sta confrontando con un'esperienza interiore
difficile sarebbe assai utile e opportuno frenare la propria corsa, condotta
con affanno e con ostinazione, alla ricerca dell'arma che debelli il presunto
male, sarebbe importante non cadere nell'illusione che ci sia arma meno
rischiosa e più buona ricorrendo a rimedi cosiddetti naturali piuttosto che
farmacologici. Nelle intenzioni e nell'atteggiamento di chi ne fa uso si
tratterebbe infatti in ogni caso di porsi in urto ostile con la propria
esperienza interiore, facendo leva su un rimedio, su un'arma, naturale o
sintetica che sia, per neutralizzare e togliere di mezzo ciò che sta provando.
E' importante non dare per scontato nulla, è fondamentale interrogarsi su ciò
che il proprio malessere è realmente e può valere, su ciò che significa e
propone, anche se al momento impreparati e senza mezzi per ascoltarsi e per
capire il linguaggio interiore. Solo così si potrà valutare attentamente in
cosa consista prendersi davvero cura di se stessi, cosa sia fare il
proprio bene e interesse. Solo uscendo da facili luoghi comuni si potrà
comprendere quale sia la risposta o se vogliamo usare il termine rimedio, quale
sia il rimedio davvero naturale. La risposta più naturale al malessere e alla
crisi, che rispetti la propria natura e che la assecondi, che non alimenti
dissociazione e conflitto con la parte intima e profonda di se stessi, che
favorisca l'unità del proprio essere, che scaturisca da se stessi e che non si
avvalga di altro e estraneo, è la conquista e l'esercizio da parte propria
della capacità riflessiva, della capacità di accogliere e di riconoscere in ciò
che si sente, che si prova interiormente l'originale e vero significato e la
proposta. Può servire un valido aiuto non già per combattere e per eliminare,
per sradicare il malessere come scopo primario, bensì per imparare a
ascoltarsi, a entrare in rapporto e a raccogliere l'intima proposta del proprio
sentire. Non c'è nulla di peggio, non c'è peggior danno alla propria natura del
porsi in contrasto, del cercare di eliminare, di far fuori ciò che la propria
parte vitale profonda sta dicendo a se stessi attraverso il vissuto, di
considerare pregiudizialmente nemico il proprio sentire, non importa se
disagevole e in apparenza, solo in apparenza, sfavorevole o nocivo. Può
accadere che ciò che si sente intralci il modo consueto di procedere, che la
parte profonda di se stessi soprattutto all'inizio, per incidere, per farsi
ascoltare, per spingere a occuparsi di se stessi e della propria sorte, per
spingere a lavorarci sopra, blocchi o riduca la funzionalità dell'agire,
dell'andare, del fare, che renda il proprio quadro interiore niente affatto
godibile e tranquillo. Ciò però non significa che l'intervento del profondo,
che quanto si sta interiormente vivendo, vada contro i propri interessi più
veri e profondi. Se si sviluppasse, con l'aiuto adatto, capacità riflessiva,
capacità cioè di vedere l'intimo volto e di riconoscere l'autentico significato
di ciò che si sta provando, di capire cosa il proprio sentire sta dicendo e
spingendo a vedere, a conoscere, non si trarrebbe certo danno da simile
rapporto e si scoprirebbe che c'è tanto di nuovo di se stessi da comprendere per
non perdere di vista ciò che per sè più conta. Il normale procedere, che tanto
si teme di perdere e che il malessere interiore sembra intralciare e
compromettere, è spesso infatti forma di pensiero e di procedere imitativa
d'altro, presa in prestito e non coerente con se stessi, rischia di essere
forma vuota e non ricca di sè di condurre la propria vita, più in armonia con
altro e con altri che con se stessi. Il rimedio più naturale al malessere e
alla crisi interiore è recuperarne il potenziale, è farne tesoro, è
comprenderne e assecondarne gli intenti e i pungoli di crescita e di
trasformazione nel verso del conoscere e del diventare se stessi. Viceversa la
corsa al rimedio, che sia farmacologico o naturale poco importa, inteso e usato
come mezzo per tentare di spegnere e di spazzare via ciò che difficile e
disagevole si sente, anche se ritenuta utile e positiva, è in realtà scelta
lesiva della possibile intesa e unità con se stessi, distruttiva di ciò che
potrebbe nascere e crescere dall'incontro e dal dialogo con la propria
interiorità che quel sentire propone, è scelta innaturale, diretta contro la
propria natura.