giovedì 24 dicembre 2015

La ricerca del senso

Qualsiasi volto assuma il malessere e la crisi, qualsiasi direzione prenda il corso interiore, quel che più conta è che ha un senso, che vuole rendere riconoscibile qualcosa di importante di se stessi, che vuole dare origine e fondamento a un nuovo modo di esistere, radicato in se stessi e vero. Quel che conta non è capire la causa del malessere e del sofferto corso interiore, ma il suo senso, che è cosa assai diversa. La causa, in uno schema che vuole spiegare tutto in termini di causa e effetto, è intesa come la condizione predisponente o come il remoto perché, trauma, incidente, difficoltà protratta, cattiva influenza e educazione, insufficiente apporto o condizione di deprivazione o altro ancora, che avrebbe (così si suppone) provocato un presunto blocco o modo abnorme, alterato di reagire, uno stato perdurante di sofferenza. La ricerca della causa è figlia di un modo di pensare la realtà interiore come congegno, che o funziona regolarmente o si altera rivelando un guasto, per debole o insana costituzione o per l’agire di cause e di fattori avversi. In realtà il corso interiore, ciò che prende forma e che si impone dentro di noi ha una forte carica propositiva, vuole rendere visibile, riconoscibile qualcosa di importante di noi, vuole portarci più vicini alla comprensione di questioni decisive. L’esperienza interiore è via e matrice di conoscenza, è proposta, è iniziativa insistita, disturbante e inquietante certamente, ma dettata dal prevalere della necessità di vedere, di aprire le questioni, di renderle cocenti e non di tutelare equilibri fasulli e ipocriti. Andare avanti in normalità di esercizio non è soluzione ben accetta interiormente quando ci siano questioni di mancata unità con se stessi, di disaccordo tra pensare e sentire, di sostanziale inconsistenza di un modo d‘essere e di porsi che non hanno nulla di proprio e generato da sé, di vuoto di consapevolezza vera, di assenza di pensiero fondato e originale, di un assetto della personalità dove domina il riferimento all’esterno, la ricerca del consenso e dell‘omologazione. Il profondo agisce per porre in primo piano all'individuo il proprio stato, costringendolo a riconoscere se stesso come il terreno di lavoro prioritario, che urge. Non solo, ma disegna le questioni e dà una prima decisa, perentoria impostazione, tagliando ad esempio le gambe all’agire, al muoversi liberamente dell'individuo all'esterno, rendendogli tangibilmente drammatico l’affacciarsi sul proprio interno, a lui così sconosciuto, abitualmente ignorato e tenuto lontano, come negli attacchi di panico o rendendo acuto il dramma del non avere capacità di incontro e di rapporto con le spinte interiori, con le emozioni, con la parte viva di se stesso, che produce e rende eloquenti le contorsioni ossessivo compulsive. Le diverse espressioni della sofferenza interiore sono significative, ma si impara a comprenderne il senso solo aprendo dialogo vero e approfondito con il profondo, con l'inconscio, che è la parte dell’individuo che genera la crisi, per uno scopo di trasformazione e di crescita e non per disgrazia. Aprendo per intero al profondo, come si fa in una valida esperienza analitica, rivolgendo attento ascolto e sguardo riflessivo a ogni momento ed espressione del sentire e dell’esperienza interiore, soprattutto imparando a avvicinare e a comprendere i sogni, è possibile capire il senso della crisi, raccogliere tutta la ricchezza di riflessione e di pensiero che viene dall'inconscio e creare quella vicinanza e intesa con l’intimo, che è ciò che mancava, che rigenera l’individuo, che gli dà ciò di cui era privo. La crisi tende a creare le basi di un cambiamento profondo, non fatto di cose, ma di nuovo rapporto con se stessi, di capacità di  incontro e di dialogo con la propria interiorità, essenziale per dare affidabilità e consistenza al proprio pensiero, per sviluppare forza di visione propria in accordo e con apertura piena al proprio sentire, compreso come voce e proposta, per riconoscere le proprie ragioni d‘esistenza e il proprio progetto, per non andar dietro a ciò che non gli corrisponde. Sono realizzazioni e conquiste di maturità, di autonomia e di fedeltà a se stessi, non fasulle o illusorie, che il profondo spinge a perseguire. Non si tratta di trovare una causa per spiegare il guasto, si tratta di comprendere il senso di una crisi per assecondarne gli scopi e gli intenti, assolutamente costruttivi.

domenica 6 settembre 2015

Lo chiamano DOC, disturbo ossessivo compulsivo. A te che soffri qualche spunto di riflessione

Ciò che ti accade nasce dentro di te profondamente, come ogni emozione, stato d'animo, pulsione, come ogni svolgimento interiore che sfugge al controllo di volontà e ragione. Nasce dentro di te e ti fa fare esperienza insistita di qualcosa, che può apparirti assurdo, ma che è significativo per te. Molti, tu per primo probabilmente, saranno pronti a considerare ciò che ti capita semplicemente come anomalo, ma ciò che ti accade, dettato, lo sottolineo, da una parte di te, dal tuo profondo, vuole calarti dentro un'esperienza che vuole farti capire nel vivo qualcosa di te, fondamentale e imprescindibile. Se ti fa paura tutto ciò che è imprevedibile e inaspettato, una simile esperienza ha sicuramente un senso per te. Pensieri che irrompono nella tua mente improvvisi, all'inizio congetture, poi ipotesi verosimili, ipotesi terribili, possibilità orrende ai tuoi occhi, sconvolgenti, ti costringono sulla difensiva, estrema, ti impegnano anche se inutilmente a tentare di bandirli, di scongiurarli. La via d'uscita, macchinosa, sempre più macchinosa e esigente, dispendiosa. Interventi d'ordine, verifiche esasperanti,  sequenze di comportamento obbligato, tutto ciò che ti senti interiormente costretto a fare sembra volerti evitare ogni brutta sorpresa, sembra volerla scongiurare, per non caricarti della responsabilità di aver favorito sviluppi negativi o sciagurati. Sembrerebbe che all'origine tu sia "fondamentalmente" incline a controllare tutto, a rendere tutto piano e sicuro, prevedibile e programmato, certo e favorevole. Può darsi che in realtà la tua tendenza di fondo, la modalità che prevarrebbe in te di rapportarti alla tua esperienza e a ciò che provi, sia quello di tradurre subito ciò che senti in qualcosa di agito immediatamente, impulsivamente, senza stare a esitare e a interrogarti su cosa ci sia lì dentro, attribuendogli invece automaticamente un significato scontato, evidente. Perciò il rigido controllo ti serve a creare un dispositivo ferreo di sicurezza, tanto drastico e assoluto (talora o spesso incontentabile in ciò che ti chiede di applicare), quanto capace di evitarti qualsiasi rischio. L'impulsività, l'andar dietro a rotta di collo a spinte interiori, che in realtà chiederebbero di essere comprese e non agite, la tendenza a prender tutto in modo immediato, senza riflessività, se si affermassero ti esporrebbero al rischio di andare a finire pericolosamente non sai bene dove. Il dispositivo di controllo contrasta in modo rigido quella tendenza. Perciò ti dicevo prima che forse "fondamentalmente" non sei incline al controllo assoluto, ma viceversa all'immediatezza per l'immediatezza, senza attenzione, all'impulsività, allo sfogo liberatorio. Scusa se ti ho impegnato sinora in una riflessione che so non essere facile, ma le vicende e le questioni interiori non sono semplici, anche se non sono incomprensibili. So bene che su quello che ti accade potrebbero esercitarsi terapeuti con la voglia di diagnosticare, che etichette del tipo di "disturbo ossessivo compulsivo" sono pronte a scattare, casomai con la persuasione che, messa l'etichetta, si arrivi di per sè chissà a quale risultato. Le etichette diagnostiche sono però solo etichette, rischiano di far di ogni erba un fascio, di allontanare dal desiderio di ascoltare e di comprendere l'esperienza interiore di ognuno. Messa l'etichetta è pronto il farmaco e l'armamentario di consigli o di sproni, di prescrizioni, di tecniche per correggere l'anomala tendenza, perchè solo questo si pensa: che sia anomala e penalizzante. In realtà è un segnale, è la testimonianza di qualcosa di più complesso e però umanamente significativo e da capire. Se la questione è quella del tuo rapporto con la tua esperienza interiore, con le spinte interne, con tutto ciò che non è razionale, ma che è parte vitale e irrinunciabile di te come emozioni, stati d'animo, pulsioni e svolgimenti interni, la risposta va cercata nel costruire questo rapporto. Si parte da un'esperienza e da una condizione che ben conosci e che può sembrarti e sembrare semplicemente strana e fallimentare, ma si può cercare di aprire te al rapporto e alla conoscenza di tutto ciò che vive in te, facendoti scoprire cosa può darti e dirti, facendoti scoprire e toccare con mano come è possibile entrare in rapporto col sentire e con tutto ciò che nasce in te e che non è volontà e ragione. Il tuo sentire, le tue spinte interiori chiedono di essere accolte e però chiedono contemporaneamente di essere comprese nel loro intimo e originale, non agite o sommariamente trattate, come fosse scontato il loro significato. Imparare a scoprire che la tua vita interiore è un luogo e un'occasione per nutrirti e ritrovarti, che le mille novità interiori e apparenti contraddizioni sono parte viva di un insieme che può e che vuole essere da te esplorato e conosciuto, è ciò che va da parte tua pazientemente sperimentato e compreso. Nulla nell'intimo è disordinato e nocivo, minaccioso o altro, tutto concorre a formare esperienza intima, che è fondamento vivo di conoscenza, di consapevolezza. Inadeguato al dialogo interiore è solo l'atteggiamento che semplifica, che cerca la soluzione pronta, la coerenza innanzi tutto, il bianco contro il nero. Dialogare con l'interiorità è possibile, ma è una lenta conquista. L'immediatezza, il concedersi aperto e pieno a ciò che nasce interiormente imprevedibile e inatteso è irrinunciabile, è fondamentale e necessario, perchè è incontro con il flusso vitale, con il vero che continuamente cerca di farsi strada, di rendersi riconoscibile, senza omissioni, senza semplificazioni. L'immediatezza deve però coniugarsi, questo è fondamentale, con la capacità di ascolto, con la riflessività per intendere e per non mal interpretare, per accogliere la proposta interiore, per comprendere l'intimo vero significato e intenzione di ogni spinta e movimento del sentire, per non farne spreco o uso improprio. Se la tua interiorità ti fa vedere implicato in difese ferree, in fuga da qualsiasi responsabilità d'errore, se ti trascina nel vortice di possibili azioni estreme, di ipotetiche terribili tentazioni, se ti mostra tutto intento a spaccare il capello in quattro per vedere questo e il suo contrario come dilemma impossibile, significa che sei messo dinnanzi alla consapevolezza che hai orrore di tutto ciò che interiormente ti è diverso e sconosciuto, che coinvolgendoti ti può esporre e aprire al nuovo e all'incerto, al non scontato sicuro esito, alla non conferma di ciò che pensi o supponi di te stesso, a un'esperienza che non puoi trattare e governare col calcolo e col ragionamento, che viceversa richiede ciò che non hai: capacità di apertura, di riflessività vera, di dialogo interiore. Hai incapacità di rapporto col dentro, con la tua esperienza interiore viva, che tratti come tensione da scaricare subito, che ti rappresenti come meccanismo da tenere a bada (e idealmente, dove potessi, da dominare e regolare a tuo piacimento) e non come parte vitale di te e propositiva, intelligente, da ascoltare, capire e rispettare. Il cosiddetto DOC o disturbo ossessivo compulsivo non è una trappola assurda, vuole aprire una questione, che solo riscoprendo il rapporto con l'esperienza interiore, solo imparando a viverla e a rispettarla come parte essenziale di te, a conoscerla, a valorizzarla e ad amarla per ciò che sa originalmente dire e dare, può essere compresa e portata a maturazione. Nulla interiormente accade mai per caso o insensatamente. 

domenica 12 aprile 2015

Patire e agire, due espressioni umane inscindibili

Si fa spesso equivalere l’esperienza interiore dolorosa e spiacevole a un danno subito, a un guasto, a una situazione nociva di cui liberarsi. E' questo un motivo di riflessione, che ricorre nei miei scritti. Patire non è in sé esperienza infausta, è, quando interiormente si propone o impone, un percorso da fare per non astrarsi dal vero. E’ la nostra stessa interiorità che non tace, che non vuol tacere, che è attiva nel calarci nel vero, per conoscere, per favorire la nostra  presa di coscienza, per alimentare lo sviluppo della nostra autonomia. Non c’è nulla di maledetto o di superfluo nel patire, nel sentire spiacevole, tutto il sentire, anche nelle sue espressioni più dolorose o intricate, imprevedibili o "strane", evidenzia e conduce a riconoscere il vero. Se si impara a entrare in rapporto col sentire, se ci si dispone non al rifiuto e al giudizio, ma all'ascolto, se ci si dota di vera capacità riflessiva, di guardare e cogliere, di riconoscere, non in modo vago e approssimativo, ma attento e fedele, l'intimo disegno e proposta del sentire (capacità riflessiva che non ha nulla a che vedere col modo corrente di intendere la riflessione, come esercizio di ragionamento sull'esperienza), tutto il proprio sentire diventa occasione di avvicinamento a se stessi, terreno fecondo di presa di coscienza utile, anzi necessaria. Aggiungo che non intendo parlare del patire in chiave rassegnata, fatalistica o strumentale, del patire come mezzo per espiare o per trarre da lì qualche beneficio morale o altro. La modalità del patire, nel senso del lasciarsi prendere e segnare dal corso interiore dell‘esperienza, dell'entrare in intimo rapporto e scambio con ciò che si sta avvicinando per conoscerlo, è essenziale, è espressione umana intelligente, è complemento indispensabile della modalità, dell'espressione umana, altrettanto fondamentale, dell'agire, che cerca di cogliere il senso e di tradurlo in volontà di realizzazione. Nel sentire arduo, difficile c’è l’esperienza intima che fa entrare in rapporto, che fa toccare con mano, che fa riconoscere e comprendere. Non si conosce freddamente e dall’esterno, si conosce davvero e efficacemente, facendo intima esperienza, si conosce vivendo interiormente ciò che in questo modo, sentendo con vivacità di percezione e con precisione di particolari, può essere attentamente e validamente compreso. Accompagnando l’esperienza del patire con la capacità riflessiva di cui parlavo, assolutamente necessaria, che fa vedere cosa nelle pieghe e nell’intimo del proprio sentire accade, è possibile conoscere, prendere consapevolezza, in modo vivo e fondato, efficace, indelebile. Porto spesso l’esempio del camminare a piedi nudi, esperienza sensibile che permette di “capire” il terreno e di decifrare con precisione di dettagli il cammino che si sta facendo, per far intendere per analogia la funzione intelligente del sentire, anche quando doloroso, spiacevole, difficoltoso. Si pretende in genere di riservare al pensiero razionale, libero da interferenze e da "contaminazioni" emotive, la facoltà di conoscere al meglio, in modo lucido e affidabile. Il pensiero razionale in realtà, se scisso dal sentire, se non indirizzato dall’esperienza interiore, non fa, nella conoscenza di se stessi, che combinare schemi astratti, che impiegare definizioni di cui ignora l’origine e il significato, non fa che assecondare, senza ammetterlo e riconoscerlo, interessi di autoconferma, non fa che rigirare il già noto, anche quando appare innovativo o geniale. Senza guida interiore, senza il supporto del sentire, che dà base e fondamento vero alla ricerca, il pensiero vaga insensatamente tra congetture e spiegazioni spiantate, compie acrobazie utili solo a darsi vanagloria e illusione di capire. L’esperienza interiore non va selezionata e filtrata, cercando di eliminare, come fossero scorie o esperienze negative, le parti spiacevoli o di difficile comprensione immediata. Il dolore interiore non è parte negativa, è via e tramite necessario di conoscenza, a meno di voler rendere artificioso tutto, a meno di voler contraffare, per comodo, la conoscenza di se stessi. La propria interiorità non tace nulla, anzi spinge verso la consapevolezza che più serve per non rimanere ignari e disarmati, incapaci di capire e di dirigere la propria vita. Se il dolore è considerato come il subire lo sfavore di questo o quello, se è inteso come la “malattia” da cui essere salvati, davvero si finisce per non essere all’altezza delle intenzioni e dell'intelligenza della propria parte profonda.

sabato 11 aprile 2015

I due sguardi

E’ assai frequente in chi vive una situazione di sofferenza interiore la corsa precipitosa a cercare cause, in genere in altro da se stesso e soprattutto rimedi, dando per scontato che, se fa intima esperienza di difficoltà, di perdita di sicurezza e di fiducia, se imperversano interiormente paura, apprensione e angoscia in varia forma, cadute d’umore o altri “strani” grovigli o imperativi interni e tormenti, questo sia solo un guasto da sanare, una disfunzione dannosa da correggere. Chi è colto da malessere interiore è spesso allarmato, ma anche intollerante verso la sofferenza interiore, presto drammatizzata come trappola o sciagura, reclama come diritto il ritorno al normale solito, di corsa, per non farsi escludere dalla realtà conosciuta e comune, pensata come l'unica realtà possibile, assoluta, dimenticando o ignorando che reale è e diventa ogni passo avanti nella conoscenza e nella presa di coscienza personale, che può portare a concepire il nuovo, a fare la propria storia e non a fare lo spettatore o la comparsa nella storia comunemente raccontata e già allestita. E’ miope se non addirittura preoccupante, soprattutto se ciò coinvolge anche chi si sia dato il compito di dare aiuto e di curare, non riconoscere che l’interiorità dentro l'esperienza dolorosa segnala puntualmente ciò che vuole indurre a prendere sul serio, smontando illusioni e creando le basi, pur sofferte e scomode, di una presa di coscienza vera, di una trasformazione e di una crescita personale assolutamente necessarie e utili. Manca sia a chi è portatore di sofferenza, che al curante incline all'idea di cura come rimessa in ordine e come correzione di uno stato ritenuto pregiudizialmente anomalo e insano, la conoscenza dell'interiorità, del suo modo di proporsi, del significato della sofferenza interiore, manca il possesso di strumenti, come lo strumento riflessivo, la capacità di ascolto e di lettura del significato intimo del sentire, indispensabili per accogliere l'esperienza interiore sofferta e per comprenderne e valorizzarne la proposta. Impreparati a questo, senza consapevolezza che nulla dell'esperienza interiore è insensato e vuoto, semplicemente anomalo, protesi subito alla ricerca frettolosa di spiegazioni e soprattutto di rimedi, con l’idea che il disagio interiore sia comunque una irrazionale risposta e un limite da superare velocemente perchè nocivo, ci si acceca e si rende ancora più acuto il contrasto tra ciò che l'interiorità vuole testimoniare e promuovere e ciò che la parte cosiddetta conscia sentenzia e in affanno chiede e pretende: la normalizzazione. E' come non voler vedere ciò che il profondo dell‘individuo non vuole che si ignori più e cui chiede risposta matura e non atteggiamento sordo o qualche sciocco rimedio per aggirare il problema. C’è insomma spesso una completa incomprensione tra sguardo profondo che, senza far tanti complimenti, non concedendo tregua, vuole dare pungoli e indicazioni ferme e oneste, intelligenti e sagge di ciò che manca e che è critico, da chiarire, da verificare coraggiosamente e da trasformare di se stessi e lo sguardo della superficie razionale che, preoccupata più di stare in stretto legame e intesa con l'esterno che con il proprio intimo, non vuol saperne di contrattempi e ancora meno di ostacoli più seri al suo rimanere ignara, altrove da se stessi e da puntuali verifiche, in stato di qualsivoglia quiete o galleggiamento, purchè duri, senza grattacapi e intoppi.

mercoledì 25 marzo 2015

Uscire o entrare?

La richiesta più frequente, di apparente buon senso, di chi è alle prese con un'esperienza interiore fortemente difficoltosa è di essere aiutato a uscir fuori da quella pena, da quel groviglio doloroso. La scelta di venirne fuori pare coincidere con la propria messa in salvo, con la possibilità di riprendere un cammino più favorevole e riconosciuto sano, promettente, abbandonando quello che pare solo un pantano, una trappola. In realtà uscir fuori significa, squalificandola come sciagurata e pericolosa, perdente e negativa, remare contro, divergere rispetto alla tendenza di una parte di sè, interiore e profonda, viceversa a entrare, a non evitare, a non tacersi, anzi a mettere dito e oltre in qualcosa che il sentire vuole rendere appunto sensibile perchè sia riconosciuto, compreso. Un pò come in medicina sul terreno fisico il dolore, il cosiddetto disturbo è sintomo e può e vuole rendere riconoscibile una condizione più complessa, così il sentire, l'esperienza interiore accidentata e spigolosa, ardua e dolorosa rende tangibile e vuole portare vicino a una verità intima finora ignorata, a una presa di coscienza necessaria. Se in medicina sparare sul sintomo per metterlo a tacere è riconosciuto come condotta irresponsabile e stupida, perchè mette a rischio il paziente, di cui, zittendo il sintomo, si oscura la condizione sottostante più complessa, compromettendo la possibilità di indagarne e di conoscerne lo stato vero, così e ancor di più sul terreno psicologico, mettere a tacere come prima scelta, sparare contro una condizione interiore disagevole, bollandola come sfavorevole, negativa e basta o priva di ragioni, solo nociva, casomai con la messa in scena o simulazione di un chiarimento come si fa applicando un'etichetta diagnostica, è scelta scriteriata e niente affatto favorevole. Appiccicare un'etichetta diagnostica, che con parole un pò più tecniche e oscure casomai ripete quanto l'individuo già sa e può dire, non incoraggia certo l'ascolto, la comprensione più attenta, fedele e approfondita, anzi la chiude. Semmai incoraggia la delega al tecnico a far qualcosa per allontanare ciò che ora, dopo la "diagnosi", sembra solo una patologia. Da un lato la parte profonda di sè introduce e spinge attraverso il sentire a vedere e a prendere consapevolezza e dall'altra la volontà dell'individuo, persuaso di far bene e il proprio bene, è quella di scaricare il tutto, di venirne fuori. All'oscuro dunque di ciò che il proprio sentire voleva rendere riconoscibile, perchè, capendo, provvedesse, perchè ne facesse consapevolezza utile e capace di mutare propria visione, modi o scelte, l'individuo che è stato aiutato a uscir fuori, anzichè a entrare nella comprensione del suo sentire, non avrà certo mezzi utili per fare il proprio bene e interesse. Per avere mezzi e strumenti validi, per sventare rischi di infelice conduzione di se stesso, per comprendere ciò che più profondamente gli è necessario, per diventare più fedele interprete di se stesso, per capire ciò che c'è di vero, ciò che utilmente e necessariamente va trasformato e costruito, l'individuo ha vitale necessità di intendersi con se stesso, di capire ciò che sente, che dentro di sè preme e insiste per essere udito. Trattare come segnale di guasto, come cattivo sentire ciò che un individuo pur penosamente sente, racchiude il rischio di fare un serio danno, come in medicina può fare l'uso di sedativi per soffocare ciò che è segno emergente di una condizione fisica complessa da identificare e capire con cura e con  tempestività. Se ad esempio un individuo dolorosamente non riesce a trovare, vede cadere dentro di sè stima e fiducia in se stesso, se avverte perdita di interesse verso tutto, senso di lontananza da ciò che lo circonda, è fondamentale che non sia incoraggiato a uscire da quei vissuti, trattati subito come patologici e privi di motivo valido, ma semmai aiutato a entrarci per ascoltarli, per ben comprenderli in relazione a se stesso, senza stare a vedere se fuori di sè ha questo o quello di cui potrebbe già compiacersi o per cui potrebbe rimotivarsi. Capita infatti che sia necessario vedere il poco o nulla di sè che c'è in un modo di vivere pur all'apparenza convincente perchè "normale". L'interiorità non tace ciò che impegnativo va riconosciuto, non tace il vuoto di sè, la mancanza di motivi validi di compiacimento e stima verso se stesso, dove l'esistenza, di fattura normale, sia stata condotta in modo gregario, imitando, ripetendo, applicando e punto. Un segnale impegnativo e doloroso, ma vero, per arrivare davvero a intendere, a concepire e a desiderare il nuovo, una vita che abbia il proprio volto, fedele a sè, fatta di scoperte di significato proprie, di realizzazioni di matrice e costruzione propria. Ho portato in modo breve un esempio per far capire come definizioni come quelle per cui un vissuto doloroso sarebbe solo insano e deleterio, non avrebbe motivo d'essere e andrebbe rapidamente superato e spento, potrebbero essere oltre che una fandonia, un atto di irresponsabilità, un atto "curativo" tutt'altro che benefico. L'interiorità propone non di rado di entrare in percorsi interiori non facili, ma utili e necessari per capirsi, per vedere il vero con i propri occhi, per cambiare consapevolmente e convintamente, per crescere. Per prendersi davvero buona cura di se stessi è importante essere incoraggiati e validamente aiutati a entrare, a compiere quei percorsi, pur difficili, sviluppando la capacità di comprenderli intimamente, anzichè essere indotti dalla "cura" a nutrire ulteriore timore e diffidenza verso il proprio intimo sentire, ad avere ancora più insofferenza e impazienza di allontanarlo, di uscirne. E' importante e possibile essere aiutati a prendersi cura di se stessi per unire, per trovare unità con se stessi, per non remare contro e per non divergere da se stessi, per non coltivare, pur convinti di agire al meglio, solo la propria inconsapevolezza, per non disarmarsi, per non buttare via ciò che, tutt'altro che dannoso, se compreso, può aprire la strada per trasformare utilmente la propria vita, per renderla davvero la propria vita.

domenica 22 marzo 2015

La proposta interiore

A volte il nostro sentire ci avanza proposte, ci cala in vissuti, in sensazioni e in stati d'animo, in percorsi interiori, che non solo ci risultano spiacevoli e sgraditi, ma che possono addirittura generare in noi sgomento, smarrimento. Sembrano inquietanti oltre che dannosi. Si è inclini in simili casi, sull’onda di modi di pensare e di atteggiamenti comuni e diffusi, a trattarli come espressioni di un guasto, come pericolosi segnali di un congegno interno che pare fuori controllo, forse, si ritiene, perché logoro, compromesso da qualcosa di nocivo, da troppo patimento. In realtà in questi casi, in ciò che si vive interiormente, non c'è la fragilità di un organismo indebolito e afflitto, ma la fermezza e la lucidità di una proposta. Qualcosa interiormente vuole, non solo farsi udire forte e deciso, ma anche dare guide e occasioni di presa di coscienza, mirate e intelligenti, tutt'altro che segnali di malfunzionamento. La propria identità e il proprio bagaglio di consapevolezza non possono, per essere saldi e affidabili, che essere fondati su qualcosa che si riesce davvero a comprendere fino in fondo e da sè, a riconoscere attraverso esperienza interiore e riflessione, toccando nell'intimo con mano, riconoscendo implicazioni, significati vissuti e veri. Spesso ciò che si pensa essere il proprio patrimonio di idee, di valori e di convincimenti, la propria personalità per intero, sono in prevalenza il frutto di adattamenti all’ambiente, di rifacimento di idee, di atteggiamenti e di modi di trattare l'esperienza, presi in prestito, ispirati e modellati da consuetudine, da pensiero e da persuasioni comuni e prevalenti. Molto più impegno e sforzo nel corso della propria vita è stato messo per stare in legame e in intesa col mondo esterno che con se stessi. Va poi tenuto presente che la scoperta autonoma del vero costa in termini di ricerca, perchè l'applicazione del preconcetto è automatica, facile e immediata, così come la costruzione ragionata del pensiero è concatenazione semplice di idee preformate, anche quando ha apparenza ingegnosa e sofisticata, mentre la conquista di visione e di presa di coscienza che passa attraverso il vissuto è più lenta, impegnativa. Non solo, ma cercare il vero è scomodo, può imbarazzare, ferire il proprio orgoglio e mettere in crisi, inquietare, non dare spensieratezza. Standoci attenti, i modi di capire e di capirsi nel proprio procedere abituale sono consistiti più nell'omettere ricerca attenta, coraggiosa e sincera,  più nel rivestire la propria esperienza di significati convenzionali, che spesso hanno dato rassicurazione oltre che illusione di comprendere, che nel cercare con trasparenza i significati e le implicazioni vere di momenti, situazioni e scelte. Significativo il fatto che le proprie sensazioni e stati d'animo, pronti passo dopo passo a svelare, a dare supporto alla comprensione del vero, ci si sia abituati soltanto a catalogarli grossolanamente  come buoni o cattivi, come piacevoli o spiacevoli, come normali o no, a non ascoltarli e a non leggerli con attenzione, a non considerarli guide fondamentali per capire. Se nel corso dell'esperienza  il proprio sentire pareva in qualche modo concordare con quanto ci si aspettava e si sarebbe voluto ottenere e far funzionare, ci si diceva che andava bene, lo si trattava come musica di fondo o coloritura emotiva più o meno gradevole e ben accetta, se viceversa, come non raramente capitava, discordava, lo si relegava come fatto minore e secondario, pronti a sminuirlo, perchè tanto si trattava solo di parti "emotive“. Quando perciò accade che inaspettatamente il proprio sentire alzi i toni e dia segnali acuti, interiormente dolorosi, gravosi, ecco che allora la diffidenza, mista a paura, comincia a scavare il fossato, ad alzare il muro. In questi casi al proprio sentire, che per insistenza e per intensità  sta segnando in modo forte la propria sorte e vicenda, non mancherà di arrivare la bocciatura e la squalifica, perché ritenuto solo espressione "irrazionale", nel senso di inaffidabile e insensata, miope e senza intelligenza, sciagurata, fonte di danno e di sofferenza ingiustificata. Un colossale travisamento. Si vuole in realtà sistemare tutto subito, si vuole la conservazione e il ritorno al normale. Guai a prendere atto che l’edificio costruito, quello della propria personalità, non ha fondamenta vere e solide! In realtà molto spesso non si sa chi si è, si sono solo messe assieme nel tempo risposte di intesa con e per gli altri, idee prese in prestito e rimasticate, travestite da pensiero proprio per cercare di illudersi di sapere, cercando più di tirar avanti che di soffermarsi sul serio, di ascoltarsi con scrupolo e senza fughe. Dentro, nella parte di sè profonda, che si esprime nel proprio sentire, come nei propri sogni (notturni), la questione di chi si è e di quanto di consistente e di davvero corrispondente a se stessi si è scoperto, compreso e realizzato, non passa affatto inosservata. Perciò il proprio sentire dà segnali importanti, che possono intimorire, ma che, se saputi intendere, sono provvidi di suggerimenti e veritieri, tutt’altro che inaffidabili e sgangherati, tutt’altro che irrazionali e senza testa. La questione vera è imparare ad ascoltare, a comprendere il linguaggio dei propri vissuti, delle proprie sensazioni e stati d'animo, di tutto ciò che vive interiormente dentro se stessi, è imparare a reggere la tensione, a non fuggire e a riflettere, a rispecchiarsi, a leggere l'intimo di ciò che si prova. Sono infatti quelli interiori, comunque si propongano, non segni di guasto o anomali accadimenti, ma richiami e segnali che vogliono portare ad aprire gli occhi, che accentuano e che danno risalto e mettono in primo piano condizioni interiori che possono aiutare a capire il proprio stato e le insufficienze reali. Se ad esempio si prova senso di instabilità e di fragilità, di apprensione insistita, non è per caso, ma perchè nulla sinora è stato davvero compreso, perchè ci si muove da sempre sospesi e senza contatto e intesa profonda col proprio sentire, se si prova, dolorosamente senso di svuoto, di sconforto e mancanza totale di interesse verso tutto, non è per caso e senza motivo e senso, ma perchè nulla di ciò cui ci si è legati e cui si è dato credito e primato è veramente intimo e proprio, nulla è stato ed è vita e creatura propria davvero. I segnali interiori vogliono far capire che è ora di preoccuparsi di se stessi, di lavorare sul serio per vedere con i propri occhi la propria vera condizione, per conoscersi, per vedere che tutto ciò che sinora ci si è messi a disposizione è terribilmente fragile e che, questo sì, è inaffidabile. Senza sapere chi si è, senza conoscenze vere, all’inizio anche sgradite, perchè "impietosamente"  mostrano come fino ad oggi ci si è mossi, ( spesso più per imitazione e per senso comune che altro, più preoccupati di tenere a bada e di trarre considerazione e consenso dall’occhio altrui, che di cercare confronto sincero e attento con se stessi), si continuerebbe a muoversi lì dentro, intrappolati e illusi, indefinitamente. Senza risposte formate da sè, senza scoperta (che non è istantanea, ma che richiede incontro e confronto approfonditi con se stessi) di ciò che si è, che davvero appartiene, che profondamente si ama, che merita di essere realizzato, ci si troverebbe ciechi e impotenti, incapaci di aprire con passione e con convincimento la propria strada, di riconoscere e di  dirigersi verso i propri scopi, di avere autonomia di giudizio e forza di autogoverno. Se da dentro di sè arrivano, attraverso sentire scomodo e sofferto, richiami forti a preoccuparsi di se stessi, segnali incisivi e puntuali per leggere il proprio stato vero, è per indurre a provvedere per tempo, a non farsi bastare una maturità di facciata, non affidabile, che esporrebbe a percorsi gregari, a scelte di vita fatte per imitazione, a incapacità di produrre qualcosa di vitale, di far vivere ciò che profondamente corrisponde e appartiene. La propria interiorità è attiva nel dare segnali, che se ben intesi e raccolti, possono diventare la propria salvezza. Va fatto un lavoro serio su se stessi e con se stessi, per passare da personalità posticcia e senza fondamento a personalità vera, salda e fedele a se stessi. Se, di fronte a esperienze interiori sofferte e scomode, si insiste nell’impazienza di sistemare tutto subito, di difendere l'abituale e già conosciuto, se ci si mette senza esitazioni a squalificare le proprie sensazioni difficili e sofferte come insane e sbagliate, si corre il rischio di respingere l’invito, sanissimo, oltre che provvidenziale, a trasformarsi, per il proprio bene vero. C'è una parte di noi stessi che prende iniziativa, che per prima legge la nostra vera condizione, che non ignora le rinunce e i rifiuti presenti sul nostro cammino di vita di fondare su di noi le scelte, di veder chiaro rispetto al cercare aggiustamenti e compromessi, che vuole che ci prendiamo tutta la responsabilità del vero che ci riguarda. Tutto questo perchè ci riesca di affrancarci da una vita che non ci è fedele, che ci tradisce, che ci oscura, che, prima di tutto nei nostri pensieri, non rispecchia la verità e che perciò non può far vivere ciò che potremmo. La proposta interiore è sempre più saggia di qualsiasi pensata fatta col ragionamento, è ben più provvida e sana, capace di dare di ogni tecnica curativa volta a rimettere le cose in riga e al normale, a produrre aggiustamenti artificiali o sciocchi. L'inconscio non trova all'inizio nella parte conscia un interlocutore disponibile e aperto, in grado di condividerne pensieri e intenzioni. L'analisi, quando ben concepita e fatta, è questo: è avvicinamento al proprio profondo e non fuga ostile, è sviluppo della capacità di dialogo e di intesa con la propria interiorità, da cui trarre il meglio e cioè la propria intelligenza e verità.  

domenica 15 marzo 2015

Comunicare con se stessi

Comunicare con se stessi, con la propria interiorità, non è facile, soprattutto non è usuale. Capita infatti spesso di intendere, fraintendendoli, il dialogo interiore e la riflessione come un ragionare e un parlare sopra la propria interiorità e intima esperienza, costruendo sul suo conto, senza prestarle ascolto e senza vera riflessione, perciò senza possibilità di comprensione alcuna, spiegazioni tanto in apparenza logiche e coerenti quanto spiantate. Conoscere e capire se stessi richiede essere liberi da pregiudizi e da a priori, significa imparare a svolgere dialogo aperto e rispettoso con la propria interiorità, quindi a zittirsi per lasciarla dire, per ascoltarla, significa imparare la riflessione vera, che non è invenzione e costruzione ragionata di ipotesi e di spiegazioni, che non è deduzione di significati e di perchè, ma capacità di guardare negli occhi, come ponendosi davanti a uno specchio, il proprio intimo sentire, per vedere, per riconoscere cosa originalmente, autenticamente rivela. In presenza di malessere interiore, si parte viceversa in genere da un a priori indiscusso, dalla premessa, che pare evidente e certa, che se si sta soffrendo, se si sta vivendo un corso d'esperienza interiore disagevole, questo è l'espressione di un cattivo funzionamento, di una anomala condizione, a cui prima di tutto va cercato un rimedio per riportarlo al dritto, al normale o presunto tale e cui, volendo capire, bisogna scovare una causa. Andare verso il proprio passato in cerca di qualche fattore nocivo condizionante, limitante o perturbante, di qualche influenza negativa, di qualche responsabilità e manchevolezza altrui, è il percorso preferito. L'interiorità solleva oggi un problema attuale e rilevante di cui cominciare a prendere coscienza e su cui lavorare, di cui responsabilizzarsi, rompe uno stato di equilibrio e di quiete, pone acutamente col sentire questioni che riguardano il proprio modo di condursi, lo stato vero della propria autonomia e capacità di autogoverno, lo stato del rapporto con se stessi, con la propria esperienza interiore, spesso vago o inesistente, dove pensare e sentire divergono, non si incontrano (condizioni cui il profondo non dà tacito benestare e sostegno, ma che viceversa pungola prima di tutto a riconoscere e a disporsi a trasformare) e, in presenza di tutto questo, la risposta è quella di trattare subito vittimisticamente ciò che si sta vivendo interiormente come patologia e come conseguenza d'altro, di liquidarlo come guasto da correggere e come pena insopportabile e nociva di cui prima di tutto liberarsi. Senza esitazioni la proposta del profondo, l'esperienza interiore disagevole in cui si è presi e coinvolti, è letta e travisata come disturbo e anomalo funzionamento, con riferimento e a paragone di qualcosa che senza ombra di dubbio si decreta essere normale e sano, fisiologico e dovuto, tipo il poter stare tranquilli, spensierati, sicuri e fiduciosi, il poter gioire di ciò che si ha e che all'esterno si può trovare. Tutto, sia l'idea del "cattivo" stato, vissuto non come spunto e richiamo di verità, come esperienza intima che può dire e svelare, ma come danno e torto patiti, sia il suo rovescio, l'auspicato benessere e valido stato o normale, sostenuti e affermati in modo così sicuro, come ci fosse in queste affermazioni evidenza e scontatezza. E' sufficiente, pensando in termini di cattivo stato e di normalità, ricalcare gli atteggiamenti e il pensato comuni per convincersi di avere chiara idea e consapevolezza, oltre che certezza di ciò che si sta dicendo. Insomma accade che in presenza di un'interiorità, della propria interiorità, che prende a dire e a pungolare, a mettere alle strette, a chiedere ascolto e riflessione per essere compresa, le si mettano sopra o contro spiegazioni, giudizi squalificanti, frutto di preconcetti, di luoghi comuni. Un luogo comune, che s'aggiunge agli altri, che ha parvenza di essere meno rozzo e liquidatorio di quelli che affermano esserci nel malessere interiore solo disturbo e patologia da curare e da spazzare via coi farmaci o con altro, che viceversa sembrerebbe segnalare più apertura mentale e desiderio di capire, è quello che ritiene che l'inconscio sia il deposito di brutte esperienze del passato e di ricordi dolorosi, che, come si dice in gergo, rimossi, allontanati dalla percezione e dal riconoscimento più diretti, da lì non cesserebbero di procurare pena e tormento, di tanto in tanto venendo allo scoperto o molestando subdoli e invisibili. Si vorrebbe  spiegare così il malessere attuale. E' un altro luogo comune, che non ha nulla a che vedere con ciò che davvero è l'inconscio e con ciò che sa e che ha capacità di dire e di dare, con ciò che attraverso il malessere attuale intende proporre e sollevare, rendere riconoscibile. Intendiamoci, a proposito del rimosso, l'inconscio è la parte profonda di se stessi, che non ha trascurato di riconoscere, che non ha eclissato e lasciato cadere, che tuttora non ignora, il significato intimo e vero degli accadimenti e dei passaggi intervenuti nella propria vita. Passo dopo passo l'inconscio ha saputo porre al centro dello sguardo se stessi e non altro, l'intimo e non la superficie dell'esperienza, i propri modi, le soluzioni scelte, non di rado di fuga e compromesso, di oscuramento, per comodo e per imbarazzo, dei significati e delle implicazioni vere, di preferenza per scorciatoie o per soluzioni pronte, offerte e promosse da altri e da modelli imperanti, piuttosto che conquistate autonomamente e fondate su verifiche proprie, su trasparenza con se stessi e su pieno convincimento. Analogamente l'inconscio ha riconosciuto dentro l'esperienza vissuta momenti, cui ha contribuito in modo sostanziale, in cui si è stati diretti protagonisti di scoperte o di intuizioni, che, seppur nel tempo passati in secondo piano, possono, se recuperati nel loro originale significato, essere importanti per la rilettura della propria storia, per la riscoperta di se stessi, del proprio autentico potenziale. Questo "rimosso", con tutte le sue ombre e luci,  l'inconscio certamente lo vuole restituire tutto, come base utile, preziosa e necessaria di nuova consapevolezza e crescita, fondate su di sè, su propria esperienza. Tutt'altra cosa è pensare a un rimosso, è questo il luogo comune tanto amato, che vede se stessi come vittime e non come artefici, quale motivo perdurante di afflizione e di pena interiore. Insomma con spiegazioni come queste su guasti e patimenti oscuri, che chiamano in causa altro e non se stessi, ci si convince di sapere e di aver capito tutto, spesso solo supponendo e deducendo, senza vedere, senza lasciar dire al proprio sentire attuale, senza conoscere. La cosa triste è che c'è coralità in questi modi di concepire la vita interiore e il significato del malessere interiore, una coralità assordante, tanti libri, tante teorie correnti, tanti terapeuti compresi. Se in tanti ripetono la stessa cosa, teoremi spacciati per riscontri e verità scientifiche, finisce che ci si crede. Tanti preconcetti condivisi e ripetuti da molti o da moltissimi possono però non fare un grammo di verità, il criterio maggioritario non vale per stabilire cosa sia vero e fondato, la storia è ricca di esempi di chi, affermando visione diversa e nuova, fuori da luoghi comuni e da principi condivisi, ha spesso subito scomunica, ostracismo e condanna, pagando anche con la vita, anche se più tardi...Vale la pena considerare che l'interiorità dice, propone e attraverso il sentire dà tracce vive da seguire per capire. Il proprio profondo non chiude gli occhi sul vero, non ignora che il proprio stato è di individui spesso così lontani da se stessi, così avvezzi a stare nell'orbita del già pensato, nella dipendenza dall'altrui giudizio e considerazione, così poveri di pensiero proprio, di intesa con se stessi, di conoscenza conquistata con le proprie forze, che c'è tutt'altro che da stare sereni e da essere soddisfatti di ciò che si sta facendo di se stessi e a cui ci si sta destinando. La parte profonda, in presenza di un simile stato, questo sì (e non lo stato di inquietudine interiore che l'inconscio  alimenta) fortemente preoccupante e infelice, non sa e non vuole rimanere inerte, agita le acque, dà segnali anche vigorosi di discontinuità, di necessità imperiosa di fermare tutto per capire, per mettere al primo posto la presa di coscienza, il lavoro di crescita rispetto all'inseguimento della normalità e del funzionamento come tutti. Nulla dal punto di vista del proprio profondo è scontato, nulla deve solo stare assieme, perdurare intatto e continuare a funzionare, la propria interiorità apre, divide, spacca l'abitudine e l'inerzia per cercare il senso, per spingere a vedere e a costruire quel che non c'è, quel che ancora manca di sostanziale. Non c'entra tanto il passato che avrebbe recato danni o messo ostacoli, quanto il vuoto da colmare, vuoto di maturità e di scoperte proprie, di conoscenza di sè che non ci sono. Non basta indossare la maschera della normalità, il vestitino dell'avere ad esempio una qualche sistemazione, una buona o decente reputazione, un titolo, quattro letture, qualche viaggio da raccontare, qualche legame affettivo, così come hanno e fan tutti. Il nostro  inconscio non si lascia nè incantare, nè illudere, il nostro inconscio è il motore della vita, il custode delle nostre ragioni più profonde e vere e delle nostre potenzialità, della nostra voglia e aspirazione di essere individui pensanti e autonomi, consapevoli e svezzati dalla dipendenza  dal comune pensiero, dall'approvazione e dal giudizio altrui. Il nostro inconscio è fautore della scoperta della nostra vera strada, del compimento del nostro originale cammino, di pensiero prima di tutto e di libertà. Altro che inconscio serbatoio di brutti ricordi!!  Se, come accade in una valida esperienza analitica, si apre dialogo rispettoso e attento con l'interiorità, se si impara a comunicare con lei, ad ascoltarla, anzichè parlarle sopra e confezionare sul suo conto qualche spiegazione ragionata, si può scoprire quanto sia, così nel sentire che ispira e muove, anche il più sofferto, come nei sogni, propositiva, intelligente, appassionatamente creativa, non certo insidiosa e ostile, come l'idea del guasto e del disturbo sottintende. Insidioso è viceversa ogni tentativo di spiegazione, di elucubrazione razionale volto a convincersi che tutto nella propria realizzazione e crescita è sostanzialmente fatto, che esiste solo il fastidio interno di non stare bene, di non essere felici, come si pretende di aver diritto, senza onere di conquistare e di cambiare nulla. Quando si fa parlare l'inconscio come nei sogni e si impara ad ascoltarlo e a comprenderlo, si scopre quanto di nuovo invece ci sia da capire e da costruire, da trasformare di se stessi per passare dalla condizione di individui portati dall'esterno, da logica corrente e da preconcetti a individui autonomi, veri e pensanti. Nulla degli accadimenti interiori è privo di senso e di scopo, nulla nel proprio sentire, anche sofferto o in apparenza strano, è espressione di cattivo funzionamento o effetto meccanico e ripetitivo di una causa che sta prima o altrove, tutto invece spinge, pungola e suggerisce, dà nel presente base viva, intelligente e sensata di ricerca e  occasione di lavorare prima di tutto su di sè (non su manchevolezze altrui), di conoscersi senza veli.

Estrema sintesi

Se si tratta la propria interiorità da incapace o da malata, finirà per affermarsi, fatte salve le illusioni,  solo la propria ottusità.

mercoledì 25 febbraio 2015

Rimedio e conservazione o cambiamento e crescita

Capita non di rado che s’incontrino con favore reciproco la richiesta di contrastare e di superare in fretta situazioni di sofferenza interiore di chi ne è portatore e l’offerta di chi, tecnico, esperto o in varia forma curante, si proponga di sanare, di dare risposte rassicuranti e che vorrebbero essere risolutive. I due, "paziente" e curante, convergono, senza esitazione, nella lettura del malessere interiore come disturbo, come anomalia da correggere, come non ci fosse da ascoltare e da capire con attenzione e scrupolo quella complessa esperienza interiore, come se il segnale intimo di sofferenza fosse solo la traduzione in sintomi tipici di un guasto, di una malattia. La sovrapposizione di un'etichetta diagnostica conclude rapidamente il discorso, come se l'etichetta chiarisse qualcosa, limitandosi invece a rendere la singolare esperienza di ognuno sbrigativamente uguale ad altre e omogenea, ripetitiva di uno schema. Esperienza interiore dunque catalogata e rapidamente messa da parte incompresa, al più qualche domanda del curante per indagare su un eventuale periodo stressante e sulla presenza di eventuali fattori e circostanze avversi come spiegazione del presunto logorio interiore, del danno. Sguardi complici tra cosiddetto paziente e curante, nel cercare pronta spiegazione e soprattutto pronto rimedio, nel confermare la sostanziale validità e ovvietà dell’insieme e dei fondamenti  del modo di essere e di procedere abituali, nel cercare il rapido superamento del malessere, visto come ostacolo e fonte di danno, come disfunzione e corpo estraneo, da sanare, eliminare o correggere, casomai con l'invito a introdurre qualche diversivo o ritocco nelle proprie abitudini, combinato, perchè no, agli immancabili psicofarmaci. Questo modo di pensare e di trattare la crisi e il malessere interiore, tutt'altro che raro, ignora che ciò che accade interiormente non è affatto un accadere qualsiasi, ma è prodotto di intelligenza profonda, non è puro effetto di cause condizionanti o stressanti, ma è espressione di iniziativa profonda, di intenzione dell'inconscio di rendere riconoscibile qualcosa di se stessi di fondamentale e di importante, di innescare un processo di avvicinamento a sé e di presa di coscienza attenta, da qui di una trasformazione e non di poco conto, assolutamente necessaria e propizia. Se saputo intendere e comprendere il malessere interiore non è affatto anomalo modo di reagire o di porsi, non è patologia, ma è spina nel fianco e richiamo, sollecitazione che viene dal profondo per portare finalmente lo sguardo su di sè, è indicazione e traccia precisa per capirsi e per capire, a condizione che si sappia reggere la tensione dell'esperienza interiore dolorosa e che si impari a  riflettere (a vedere dentro il prorio sentire), desistendo dal fuggire e dal sentenziare. L'esperienza interiore così difficile e dolorosa vuole mettere terreno sotto i piedi per ritrovarsi non nell'illusione ma nella consapevolezza, vuole spingere per avviare qualcosa di assolutamente favorevole a se stessi. La rassicurazione, il rimedio pronto banalizzano, allontanano chi vive una impegnativa, sofferta e complessa esperienza interiore dal compito e dall'opportunità di ascoltarsi e di capirsi, creano spesso o rafforzano la diffidenza verso ciò che accade interiormente, emarginato e squalificato come accidente sgradevole e negativo, da mettere a tacere e controllare, alimentano la pretesa di subordinarlo a regole decise dall’alto del proprio controllo razionale, che vorrebbe stabilire, farsi arbitro indiscusso di  ciò che sarebbe sano, auspicabile e conveniente per se stessi. La parte razionale dell'individuo (anche del curante) però è spesso vittima di visione convenzionale, inchiodata a criteri che non concepiscono se non il già concepito, dunque più che essere una guida affidabile, si rivela essere una gabbia che chiude e esclude, che autoesclude da ogni movimento vitale di pensiero riflessivo e critico, onesto e leale, permeabile e aperto al proprio sentire, che già nel malessere dice, che non risparmia di far vedere ciò cui non basta un ritocco e un incoraggiamento, ma una  impegnativa conquista di consapevolezza, una crescita nuova, mai raggiunta sin lì. Banalizzare e non vedere nell’intimo disagio la richiesta che viene dal proprio profondo di un cambiamento vero, non d’ambiente e di situazioni, ma di se stessi, prima di tutto del proprio modo di vedere, di pensare e di pensarsi, che da astratto, da conforme e vincolato al comunemente pensato e concepito, diventi aderente a sè e fondato su sentire, su intima esperienza, su riflessione che vi attinga, è farsi danno. Cambiare non è facile, costa, richiede all’inizio vedere come si è, non tacersi ciò che può essere imbarazzante, scomodo e doloroso riconoscersi, richiede trasformare la propria iniziale angustia di visione e di mezzi, spesso tesi più a dare prova e a conformarsi ai giudizi e alle attese degli altri, a star dietro all'andazzo di modelli e di aspirazioni generali, che a fondarsi su propria ricerca e scoperta di significato e di valore, su proprie profonde originali aspirazioni, mai avvicinate e comprese. Attingendo a nuova capacità che il profondo sa offrire e favorire, attraverso i suggerimenti e i percorsi di ricerca e di presa di coscienza aperti dal sentire e particolarmente attraverso l'impulso al pensiero riflessivo dato dai sogni, sarebbe certo possibile, come accade in una buona esperienza analitica, generare il nuovo, fedele a se stessi, che finalmente sostituisca l‘insieme fragile e qualunque su cui si faceva leva e che, col proposito di "curare", di liquidare il malessere come anomalia, si voleva far persistere, prolungare. Se si assume questo compito, se si corrisponde alla richiesta che il malessere interiore pone con forza, si può fare lavoro utile, davvero favorevole a se stessi, si può, pur gradualmente, recuperare piena intesa e accordo con la propria interiorità, che non chiede certo rassicurazioni banali e pronti inutili rimedi. Non è facile capire il linguaggio interiore, ma se si è aiutati a farlo, ci si può guadagnare in consapevolezza, in crescita vera e in nuova progettualità. Diversamente ci si ferma al palo, con messa in conto della non solidarietà del proprio intimo e profondo, che dei rimedi, delle risposte fasulle e disattente non sa che farsene, espedienti che prima o poi tornerà a far saltare con intransigenza e con vigore, per battere ancora cassa, per chiedere, con la forza del malessere, risposte serie, appropriate e intelligenti. 

giovedì 19 febbraio 2015

L'interiorità, questa sconosciuta

Quante volte capita di trovarsi in difficoltà nel rapporto con la propria interiorità, quando la propria esperienza interiore, con stati d’animo e con sensazioni non piacevoli, con pensieri spontanei inaspettati, con tormenti e morse interiori, con pressioni e pretese interiori insopprimibili, con paure che sembrano azzoppare, che non danno tregua, che paiono assurde quanto soverchiani, sembra solo affliggere e umiliare la propria volontà e intelligenza! In simili casi la propria interiorità pare una vera calamità, sembra uscita di senno e ha buon gioco la reazione di chi, diretto interessato o altri, la vorrebbe in qualche modo rimettere subito in riga, raddrizzare. Un dubbio, una domanda potrebbero affacciarsi. Perché da dentro se stessi tutti questi segnali discordanti rispetto all’attesa del quieto e ordinato  procedere? C’è una parte di noi stessi, intima, che è più debole e stupida, depositaria solo di paure infantili, di sciocchi o superstiziosi credi, che non sa affrontare e sostenere compiti e mentalità adulti? E' una parte vulnerabile, assai fragile, esposta a patire i colpi, le pressioni di un ambiente poco favorevole o nocivo? E’ lo stress che la mette a dura prova, che la logora, che la manda in tilt?  Abituati a far leva solo su volontà e pensiero ragionato, si è pronti a guardare con sospetto e con sufficienza la parte interiore e a giudicarla. E' davvero raro che l’interiorità ottenga un diverso credito, una diversa disponibilità perlomeno al confronto, col rinvio di qualsiasi giudizio al momento della comprensione più attenta e completa. La scoperta più interessante  per chi si apra a un confronto e a un dialogo aperto, libero da preconcetti, approfondito con se stesso, come accade in una valida esperienza analitica, scoperta che rovescia l’idea comune e corrente, è che l’interiorità viceversa in tutte le sue espressioni e proposte è saggia, intelligente e creativa. Non è in sè inerte, incapace o vuota, non necessita di stimoli o di sostegni, di programmi cui aderire, è autonomamente capace e generante, è laboratorio di ricerca, incessante. Non è allo sbando o alla deriva, non sta andando in pezzi anche quando pare dire o fare interiormente cose "strane". L’esperienza interiore, gli svolgimenti spontanei, anche quando spigolosi, sofferti, in apparenza contorti o sbilenchi, sono infatti tracce, guide sensate, indicatori mirati, capaci di indirizzare, di dare forma e di far evolvere la ricerca di verità in consonanza e in unità con se stessi. Se accolti, se intimamente condivisi e compresi,  come solo acquisendo capacità riflessiva si può ottenere, questi svolgimenti si rivelano essere lievito e luogo ideale di ricerca, di incontro con se stessi, di  presa di coscienza. L’interiorità, ciò che offre, se assecondato, se trattato, non come meccanismo regolato o sregolato, ma come esperienza che fa entrare in più stretto legame con  questioni e nodi importanti che possono così essere avvicinati compresi e sciolti, svela tutta la capacità che ha di favorire la  presa di coscienza, la conquista della capacità di capirsi e di capire e, su queste basi, di sapersi guidare, di scegliere consapevolmente, di interpretare a modo proprio e libero la propria vita. L’interiorità è un affidabile e forte alleato. Si teme che tolga, che mini la propria forza, soprattutto la propria tranquillità, in realtà è fautrice di risveglio e di impegno di costruire, senza omissioni e senza fare salti, facendo tutto il lavoro necessario, la propria autonomia e capacità di conoscere e di pensare, di dire e di realizzare liberamente, senza soggezione ad altri, senza dipendenza  dall’altrui consenso o approvazione. La nostra interiorità è la nostra risorsa più preziosa e la nostra forza. Imparare ad accettare le proposte interiori, anche se difficili e scomode, imparare a reggere la tensione dell’esperienza interiormente dolorosa, spiacevole, per entrare nel vivo di ciò che vuole svelare e consentire di capire, per fare riflessivamente il lavoro necessario e utile di ricerca e di scoperta, coraggiosa e onesta, di significati veri, è ciò che è indispensabile formare per non buttare via tutto. E' necessario evitare di trarre conclusioni rapide, di scaricare giudizi facili, di rovesciare definizioni e attribuzioni di significato automatiche e preconcette sul conto di ciò che si sta provando, di ciò che la propria esperienza interiore sta proponendo. Reggere la tensione dell'intimo corso d'esperienza, pur difficile, per capire, accoglierlo e riflettere per vedere all'interno cosa rivela, pazientare e rispettare l'intima esperienza per conoscere e non per giudicare, è fondamentale per arricchirsi e crescere, per rafforzarsi di consapevolezza e di pensiero proprio. E' rischio non da poco quello di buttare via, col lamento e con lo sfogo, con rapidi giudizi e definitivi o con la richiesta ostile (anche sotto forma di terapia) di mettere a tacere la voce interiore, tutto ciò che può dare e contribuire a costruire. Contrastare la propria interiorità, pretendendo di saperla più lunga circa ciò che è sano, importante e desiderabile per se stessi, metterla sotto tiro perché taccia o si rieduchi, è il meno saggio o il più stupido dispetto che ci si possa fare.

venerdì 6 febbraio 2015

Paure stupide?

Quante volte capita che di fronte a paure, che possono essere di fortissima intensità (come, per fare qualche esempio, la paura di uscir di casa, di sentirsi male in luoghi affollati, la paura di spazi aperti e ampi o viceversa stretti e chiusi ) in situazioni nelle quali la cosiddetta  normalità prevede e invoca sicurezza, agio e facile padronanza, il commento di chi le vive e di chi gli sta attorno sia che queste paure sono ingiustificate e assurde, irrazionali (intendendo senza senno e senso), anzi "stupide"! Non sembrerebbe fare una grinza. Stupido a un’attenta osservazione è però il giudizio sulle paure "stupide". Solo la conoscenza interiore limitata o assente e l’applicazione agli eventi intimi di una logica concreta e convenzionale, impropria, che nulla comprende del linguaggio e degli svolgimenti interiori, del loro significato e scopo, fanno sì in realtà che ogni dubbio venga spazzato via, che circa l’infondatezza e stupidità delle paure si instauri la certezza. Se non si capisce l'intenzione, profonda, che le muove, il loro senso e le si giudica nell'apparenza, applicando loro logica comune, se le si tratta con fastidio perché intese e temute subito come assurdi intralci, se le si squalifica perché si è  soggiogati dalla pretesa e dall'obbligo di essere superiori a quelle paure "stupide", finisce che ci si  condanna a non capire nulla. L'iniziativa interiore che muove quelle paure è volta a rendere chi le vive consapevole di cose, di verità e implicazioni fondamentali e profonde, riguardanti se stesso, che superano la capacità mentale del pregiudizio, che come tale è piatto, limitato e stupido, perché vuole solo coerenza con ciò che ha in testa e che ripete ogni volta uguale, baldanzoso e reso sicuro dal fatto che per molti o per tutti quel giudicare è ovvio e sacrosanto. Il risultato è che se una parte di sé, tutt'altro che stupida, vuole mettere dinnanzi a una questione, non marginale (altrimenti non insisterebbe in quel modo) da capire, usando un mezzo solo in apparenza privo di senso e di utilità, un'altra parte di sé, che presume di sapere cosa sia intelligente o stupido, giustificato o assurdo, le spara subito contro, facendo trionfare solo la sua ignoranza e limitatezza, la sua incapacità di comprendere ciò che va oltre il giudicare solito e comune.