domenica 12 aprile 2015
Patire e agire, due espressioni umane inscindibili
Si fa spesso equivalere l’esperienza interiore dolorosa e spiacevole a un danno subito, a un guasto, a una situazione nociva di cui liberarsi. E' questo un motivo di riflessione, che ricorre nei miei scritti. Patire non è in sé esperienza infausta, è, quando interiormente si propone o impone, un percorso da fare per non astrarsi dal vero. E’ la nostra stessa interiorità che non tace, che non vuol tacere, che è attiva nel calarci nel vero, per conoscere, per favorire la nostra presa di coscienza, per alimentare lo sviluppo della nostra autonomia. Non c’è nulla di maledetto o di superfluo nel patire, nel sentire spiacevole, tutto il sentire, anche nelle sue espressioni più dolorose o intricate, imprevedibili o "strane", evidenzia e conduce a riconoscere il vero. Se si impara a entrare in rapporto col sentire, se ci si dispone non al rifiuto e al giudizio, ma all'ascolto, se ci si dota di vera capacità riflessiva, di guardare e cogliere, di riconoscere, non in modo vago e approssimativo, ma attento e fedele, l'intimo disegno e proposta del sentire (capacità riflessiva che non ha nulla a che vedere col modo corrente di intendere la riflessione, come esercizio di ragionamento sull'esperienza), tutto il proprio sentire diventa occasione di avvicinamento a se stessi, terreno fecondo di presa di coscienza utile, anzi necessaria. Aggiungo che non intendo parlare del patire in chiave rassegnata, fatalistica o strumentale, del patire come mezzo per espiare o per trarre da lì qualche beneficio morale o altro. La modalità del patire, nel senso del lasciarsi prendere e segnare dal corso interiore dell‘esperienza, dell'entrare in intimo rapporto e scambio con ciò che si sta avvicinando per conoscerlo, è essenziale, è espressione umana intelligente, è complemento indispensabile della modalità, dell'espressione umana, altrettanto fondamentale, dell'agire, che cerca di cogliere il senso e di tradurlo in volontà di realizzazione. Nel sentire arduo, difficile c’è l’esperienza intima che fa entrare in rapporto, che fa toccare con mano, che fa riconoscere e comprendere. Non si conosce freddamente e dall’esterno, si conosce davvero e efficacemente, facendo intima esperienza, si conosce vivendo interiormente ciò che in questo modo, sentendo con vivacità di percezione e con precisione di particolari, può essere attentamente e validamente compreso. Accompagnando l’esperienza del patire con la capacità riflessiva di cui parlavo, assolutamente necessaria, che fa vedere cosa nelle pieghe e nell’intimo del proprio sentire accade, è possibile conoscere, prendere consapevolezza, in modo vivo e fondato, efficace, indelebile. Porto spesso l’esempio del camminare a piedi nudi, esperienza sensibile che permette di “capire” il terreno e di decifrare con precisione di dettagli il cammino che si sta facendo, per far intendere per analogia la funzione intelligente del sentire, anche quando doloroso, spiacevole, difficoltoso. Si pretende in genere di riservare al pensiero razionale, libero da interferenze e da "contaminazioni" emotive, la facoltà di conoscere al meglio, in modo lucido e affidabile. Il pensiero razionale in realtà, se scisso dal sentire, se non indirizzato dall’esperienza interiore, non fa, nella conoscenza di se stessi, che combinare schemi astratti, che impiegare definizioni di cui ignora l’origine e il significato, non fa che assecondare, senza ammetterlo e riconoscerlo, interessi di autoconferma, non fa che rigirare il già noto, anche quando appare innovativo o geniale. Senza guida interiore, senza il supporto del sentire, che dà base e fondamento vero alla ricerca, il pensiero vaga insensatamente tra congetture e spiegazioni spiantate, compie acrobazie utili solo a darsi vanagloria e illusione di capire. L’esperienza interiore non va selezionata e filtrata, cercando di eliminare, come fossero scorie o esperienze negative, le parti spiacevoli o di difficile comprensione immediata. Il dolore interiore non è parte negativa, è via e tramite necessario di conoscenza, a meno di voler rendere artificioso tutto, a meno di voler contraffare, per comodo, la conoscenza di se stessi. La propria interiorità non tace nulla, anzi spinge verso la consapevolezza che più serve per non rimanere ignari e disarmati, incapaci di capire e di dirigere la propria vita. Se il dolore è considerato come il subire lo sfavore di questo o quello, se è inteso come la “malattia” da cui essere salvati, davvero si finisce per non essere all’altezza delle intenzioni e dell'intelligenza della propria parte profonda.
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