sabato 10 agosto 2024

Basta un poco di zucchero e...

Basta il contentino della promessa di essere sollevati dal disagio interiore, che è voce della propria interiorità, mica una infezione da virus o un disordine da causa nociva o una patologia da insana predisposizione, per essere ben disposti a mandare giù uno o più farmaci, a sottoporsi a una cura psicologica che, analogamente al farmaco, cerchi di trattare e di "aggiustare" lo stato interiore, di indagare le presunte cause di un presunto guasto, con l'auspicio di liberarsi di una condizione interiore difficile e sofferta, vissuta come anomala e ostile, che comunque si vuole  mettere a tacere, mettendo in realtà a tacere parte intima di sè che non si vuole e non si sa ascoltare. Tutto brillerà di più?  In realtà  la promessa di liberarsi del malessere interiore, è destinata assai spesso a rivelarsi fragile e illusoria, perchè la parte di sè intima e profonda, che ha mosso la crisi, che ha alimentato il disagio con uno scopo tutt'altro che insano o ostile, non è affatto docile e disposta, se inascoltata, se non compresa e condivisa nelle sue proposte, a farsi da parte, a rinunciare a farsi ancora avanti, pur rischiando nella sua iniziativa di essere ancora fraintesa e diagnosticata come una ricaduta di malattia. Va comunque precisato che ciò che ho definito come il contentino della promessa di liberarsi del disagio interiore non è certo considerato tale, gode viceversa di ampio e incondizionato credito, è considerato come il meglio desiderabile, dunque non come una banale gratificazione, ma come il bene massimo da procurare a se stessi, come lo scopo prioritario da perseguire, su cui non possono esserci dubbi. Questo è il frutto di una abituale lontananza dal proprio intimo, di un modo di condursi in cui la relazione con gli altri e con ciò che è presente al di fuori di sè è stata e è il fulcro dell'esistenza, da salvaguardare, in cui la relazione con se stessi, con la propria interiorità, è ipotesi più che remota, neanche concepita e di fatto sconosciuta, di scarso se non di nullo interesse. Il rapporto con se stessi, se così vogliamo chiamarlo, è inteso nell'unica accezione di trovare dentro di sè la leva della capacità di riuscita, di trarre da sè l'espressione da portare fuori capace di ottenere la migliore considerazione degli altri. Più cresce e è abituale il vincolo e il riferimento alla cosiddetta realtà, a quell'assoluto, "la realtà", cui rimanere ben adesi, con cui pare sempre fondamentale e necessario non perdere i contatti, che di fatto è l'insieme di abitudini e di pratiche comuni, di eventi e di temi messi all'ordine del giorno e da seguire, a cui rimanere intenti, di modelli, di risposte e di soluzioni predisposte, di canali messi a disposizione dal sistema organizzato per fare, per conoscere, per gioire e per svagarsi, per impegnarsi in cause nobili più o meno, per riceverne, se si dimostra su quelle basi di essere validi e prestanti, senso di conquista e fondamento di autostima, più si consolida questo vincolo dipendente e più contemporaneamente diventa ai propri occhi  naturale, "normale" la propria condizione di gregari, che tengono il passo, che, illusi di dire la propria, di prendere iniziativa, assecondano e si accordano con altro che dirige, che regola e istruisce, facendo consumo di temi, di risorse, di opportunità, di guide e di pensieri messi a disposizione, gentilmente messi nel piatto da masticare bene e da mandare giù. L'effetto è di ignorare la possibilità, la necessità, la passione di essere individui veri e singolari e non esseri addomesticati e replicanti. L'effetto è di considerare assurda la pretesa, tutt'altro che assurda, ma profondamente umana, di alimentare da sè la conoscenza, di trarre da sè la scoperta autonoma di significati, lavorando su di sè, sulla propria esperienza, di non avere necessità vitale per conoscere di prendere istruzioni e supporti da fuori, ma di poter scoprire con i propri occhi, di poter generare conoscenza, in unità con la propria interiorità, raccogliendone i suggerimenti e le guide, di poter aprire percorsi e dare corso a  sviluppi di realtà che non siano quello spettacolo messo in scena e quella pappa comune messa di continuo a disposizione. Generare è ben più impegnativo che consumare, che fare il verso a altro, che ragionare in accordo con altro già definito, che limitare le proprie aspirazioni a dare buona prova e prestazione in ciò che è ben considerato per ricevere plauso e apprezzamento. Generare, che è possibilità aperta a ognuno e non certo un'esclusiva dei  cosiddetti "creativi" di professione, che non di rado, a parte l'etichetta e la fama, di creativo vero non hanno proprio nulla, è ben più appassionante che consumare, cambia il volto della propria vita e dona vera libertà. E' la libertà di seguire se stessi, che si fonda sulla capacità di veder le cose a modo proprio e di non farsi dettare e dire da qualche presunta o pretesa autorità cosa sia o non sia la cosa vera, l'idea giusta, il pensiero corretto, è la libertà di difendere e di far vivere ciò che da sè, in unità piena con se stessi,  fino in fondo si è compreso, in cui davvero si crede e che si ama, senza il bisogno e l'interesse di chiedere a altri di concordare, di applaudire. Per tutto questo è fondamentale e irrinunciabile  l'accordo e l'unità col proprio profondo, che è anima e guida validissima di questa ricerca di autonomia e libertà di pensiero, sia fornendo le guide della ricerca del vero attraverso il sentire, sia  fornendo lumi di conoscenza in modo sublime con i sogni, profondo che, non per caso, col malessere e la crisi muove e agita le acque interiormente, proprio per spingere a un percorso di cambiamento radicale, da passivi e inconsapevoli a soggetti creatori e consapevoli. Senza legame con la propria interiorità non c'è  possibilità di pensiero che non sia di adeguamento, di  docile accordo e fruizione d'altro, anche se questo non lo si sa e soprattutto non lo si vuole vedere. Dove niente sia scaturito da sè, niente di visione riflessiva che prima di tutto faccia vedere cosa si sta facendo di se stessi, mossi e vincolati a quali imperativi, regole e modalità, si è solo al traino d'altro, anche se illusi di dire la propria. Senza scambio e raccolta di spunti e di guide provenienti dal proprio profondo, capaci di rendere liberi e autonomi nel pensiero, non si può che rimanere vincolati a una forma di pensiero che segue e asseconda, che ripete e riproduce il pensato comune (non importa se facendo gli oppositori, sempre però trovando sponda in qualcosa di già concepito), che allontana dalla conoscenza di se stessi e dalla scoperta di significati altri da quelli presi da fuori, introiettati e ripetuti. Se dunque l'interiorità col malessere punge e pungola a prendere contatto con sè, a aprire gli occhi, a avviare un percorso di presa di coscienza, di recupero di unità piena con se stessi, di scoperta del significato della propria vita interiore, di recupero delle ragioni e delle potenzialità proprie e originali da sviluppare, ecco che la reazione è di scacciare il richiamo che pur difficile è portato dal disagio interiore, di rimettere prontamente in moto la fuga da sè per salvaguardare la capacità di stare in unità e al passo con gli altri. Ecco che basta quel pò di zucchero, di dolce e gradevole gusto della promessa di una possibile ripresa del vivere senza intralci interiori in attaccamento a altro, per mandare giù la pillola della cura che spacca il vincolo a sè, che il malessere interiore stava cercando di far recuperare, per rinsaldare e non compromettere la simbiosi con altro, come se quella, presa in prestito, pilotata e impartita da fuori, fosse vita propria e bene da non perdere.

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