In presenza di malessere interiore, di espressioni di disagio e di sofferenza che non danno tregua, che intralciano, che compromettono e sconvolgono il quieto vivere e il procedere abituale, la prima e spesso l'unica risposta che si mantiene nel tempo è di dare contro uno stato interiore vissuto come nemico e nocivo, come segno di una abnormità che va liquidata, spazzata via, perchè giudicata, senza se e senza ma, lesiva dei propri interessi. In gran parte la cosiddetta cura asseconda questo modo di giudicare l'esperienza interiore così sofferta e fonte di allarme e di preoccupazione. Sia che metta a disposizione psicofarmaci o che offra tecniche di gestione e controllo dell'ansia e di quant'altro vissuto come una mina da disinnescare, sia che con la psicoterapia cerchi di condurre alla ricerca e alla scoperta di presunte cause del malessere in atto, sia che voglia individuare e correggere presunte risposte disfunzionali, sostituendole con altre ritenute valide e proficue, il presupposto di questo ampio ventaglio di cure è che si sia alle prese con un danno e con una alterazione dello stato psichico cui porre rimedio, da sanare. Tutto questo modo di trattare l'esperienza interiore sofferta pare scontato, la cosiddetta cura pare sapiente e ben fondata, opportuna, benevola, provvidenziale. Il senso comune, la scienza, quella che si autoproclama tale e che come tale è riconosciuta dai più, pronta a soddisfare la richiesta di rimedio e di soluzione, non fanno che confermare le posizioni di autodifesa, di respingimento, di scelta di contrastare, eliminare il presunto nemico interno, lo stato variamente designato come anomalo o patologico, per perseguire il ripristino del modo di condursi abituale malauguratamente minato e compromesso. Rimettere le cose a posto, correggere le storture e le male disposizioni, scovare in traumi pregressi o in cattivi condizionamenti, in mancati sostegni ricevuti, sanare, ridare benessere sgombro da mine interne, sono le dolci parole d'ordine cui prestare fede, cui affidare il compito di provvedere al proprio presunto bene e interesse. Il presupposto di tutto questo modo di giudicare e di intervenire sul malessere interiore è l'ignoranza del significato della vita interiore, di quanto si svolge sul terreno dell'intimo, del sentire, nelle vicende interiori. La visione dell'individuo, che l'individuo ha di se stesso, che il senso comune e la cosiddetta scienza condividono e supportano, fa da base e premessa a tutta questa pratica del trattamento del malessere considerato segno di alterazione da correggere, conseguenza di cause che avrebbero minato e compromesso un presunto sano equilibrio e di una cattiva gestione del proprio benessere. La visione comune dell'essere umano lo concepisce come a un'unica dimensione. E' una concezione in cui è considerata egemone la parte conscia e in cui il resto dell'individuo, fatto di emozioni, di vissuti, di spinte e di corsi interiori, è visto come parte in subordine da gestire con la volontà e da spiegare col ragionamento. Quando non ci si chiude in questa concezione e si sa aprire alla conoscenza dell'individuo fondata su verifica attenta e su analisi dell'esperienza, su ascolto senza preconcetti dell'interiorità, si scopre ben altro circa la vera natura dell'essere umano, non appiattito in un'unica dimensione. Si scopre che nell'individuo, fatto di parte conscia e di parte intima e profonda, quest'ultima, se la si sa ascoltare, è parte viva del proprio essere tutt'altro che inferiore e di peso marginale. Solitamente la si considera capace solo di risposte automatiche e, in quanto "irrazionale", la si giudica sostanzialmente inaffidabile sul piano del pensiero e della capacità propositiva. Si scopre, conoscendo l'essere umano senza filtri di preconcetti, non per principio, ma per verifica onesta e attenta, quanto le due parti, cosiddette l'una conscia e l'altra inconscia, siano diverse per intelligenza e per progettualità. Posso parlarne perchè da oltre quarant'anni mi dedico alla ricerca interiore, sono con l'altro aiutandolo nell'ascolto del suo profondo nei vissuti, nelle espressioni del suo sentire, che il suo inconscio anima e plasma e particolarmente nei sogni, che danno guide di riflessione, di pensiero uniche e straordinarie per lucida profondità e affidabilità. Contrariamente a ciò che si pensa dell'inconscio, che sia la parte primitiva e la meno evoluta rispetto alla capacità e a quanto di valido e di evoluto garantirebbe la parte conscia avvalendosi dello strumento di pensiero razionale, quando lo si sa avvicinare e comprendere in tutte le sue originali espressioni e qualità, l'inconscio si rivela essere la più progredita, affidabile e valida fonte di pensiero e la guida irrinunciabile per recuperare autonomia di sguardo e di progetto. Ebbene cosa può accadere quando la parte profonda dell'individuo cerca di coinvolgere l'individuo in un serio ripensamento e verifica circa il proprio stato e modo di procedere, di intendere e di perseguire i suoi scopi? All'individuo può sembrare valido e soddisfacente, può apparire scontato tutto del proprio modo di pensare la sua condizione, in realtà può ignorare il vero significato e le più importanti implicazioni in ciò che sta facendo di se stesso. La parte profonda del suo essere non chiude gli occhi, non è ignara, non per caso interviene, interferisce, pone freni, acuisce e rende tangibili i punti dolenti di un modo di essere e di procedere non consono a se stessi, lacunoso di scoperte originali e proprie, di crescita autonoma, un modo dipendente da altro, da modelli in auge, da esempio e da pensato comune e prevalente, che forma e istruisce e che detta la linea e i pensieri, un modo che certamente vale per essere adeguati e in linea con la cosiddetta normalità, in conformità con altro che dà sostegno e convalida, ma carente di tutto per fondare la propria autonomia e libertà di pensiero e di azione. Il primo passo è entrare in una attenta verifica di come ci si sta conducendo e i passi successivi da compiere sono trovare le proprie ragioni e risposte, i fondamenti del proprio modo di intendere la propria vita e i suoi scopi. La parte profonda se la vede con una parte conscia che esercita il comando delle operazioni indurita nel voler proseguire come al solito, persuasa che non ci sia nulla da capire e da trasformare, da mettere in discussione, da porre in cantiere come costruzione nuova e mancante, come sviluppo di crescita vera. Il malessere non è nemico, il malessere è il continuo scuotimento esercitato da una parte profonda portatrice e foriera di ben altro che di una patologia. Imparare a ascoltarla, a intenderne il linguaggio e la proposta, condividere con questa parte viva di sè una ricerca di verità su stessi e il proprio stato e modo di procedere, condividere il proposito di una crescita vera, di una conquista di autonomia che non ha nulla a che fare con quella da messa in scena ben voluta e convalidata da fuori, da mentalità e da senso comune e prevalente, è questo il lavoro necessario da fare, la risposta congrua al malessere interiore, che diversamente non cesserà di intervenire per tirare, per strattonare, per dare segnali di crisi da affrontare nel proprio vero interesse. Ci si può imbottire di farmaci, ci si può inventare tesi di più o meno remote cause che avrebbero intaccato l'equilibrio e il buono stato, ma tutta questa pratica che suppone un nemico, una minaccia interna, una patologia da sanare, una trappola da cui uscire, non farà che prolungare uno stato di incomprensione con se stessi, con la propria interiorità, col proprio intimo e profondo, tutt'altro che invalido e incapace, remissivo e disposto a farsi da parte, tutt'altro che docile, complice, gregario e assuefabile al modo di procedere solito, che non cesserà di reclamare ascolto, di tenere viva la tensione finchè non gli si dia finalmente retta. In presenza di malessere interiore non c'è nemico interno, non c'è minaccia da cui tutelarsi, il vero nemico sono l'ignoranza del significato di ciò che vive di sè dentro se stessi, sono il pregiudizio e la chiusura nell'idea che tutto debba andare per il verso solito considerato sano e giusto, così duri a morire.
mercoledì 20 novembre 2024
domenica 10 novembre 2024
La ricerca di aiuto
In difficoltà nel rapporto con se stessi, con l’esperienza interiore di cui si è portatori, si è tentati spesso di applicare a ciò che si vive una lettura tutta coerente con i modelli e col sistema di valori e di giudizi dominanti. Ogni espressione di disagio diventa allora segno di ritardo, di insufficienza, di incapacità di stare nel dritto e nel "normale", diventa guasto, eccesso, vergogna, complicazione assurda rispetto all’idea di un fluido, lineare, sicuro e fiducioso, oltre che efficace, procedere. Insomma si fa propria l’idea che esista indiscutibilmente una specie di fisiologia dell’essere, del modo di sentire e di condursi, considerato appunto sano, regolare, normale e con questo riferimento e metro si giudica il proprio sentire e ciò che interiormente si prova, ciò che si sperimenta. Non c'è alternativa, in situazioni di malessere interiore solo la normalizzazione sembra concepibile come buon esito e dovuto, come risposta desiderabile e giusta. Ci si convince dunque di essere in stato di insufficienza e di difetto e l’aiuto che si può cercare già si inserisce in questa concezione stretta, dev’essere aiuto che consenta di recuperare, di rimettersi in sella, di guadagnare finalmente normalità e fisiologico modo di funzionare, togliendo, vincendo quanto interiormente fa da freno, da ostacolo. Su questa strada si può essere tanto comprensivi e concessivi verso se stessi, quanto diffidenti e un po’ riottosi nel cercare aiuto, perché si teme di dover dipendere da quel chi o da quel qualcosa che andrebbe, in vece e in sostituzione di se stessi e dei propri sforzi, a consentire o a favorire la ripresa, la normalizzazione, il superamento di quello scarto tra deficit e normalità. In realtà nel proprio stato di difficoltà interiore c’è ben di più e ben altro che una caduta dalla normalità. C'è una incomprensione con se stessi, c’è la presenza della propria interiorità che preme e richiama, pur ancora incompresa, a guardare ben dentro se stessi, a capire, senza veli, i propri modi e il proprio stato, a comprendere non tanto l’insufficienza o il ritardo rispetto alla normalità, ma lo stato debole e gregario dell’andare dietro alla normalità come riferimento, regola e supporto, lo stato di passività e di povertà di se stessi. La propria interiorità vuole rendere acutamente riconoscibile la condizione di non radicamento dentro se stessi, di non vicinanza e intesa col proprio intimo, il senso di fragilità, non per poca normalità coltivata e raggiunta, ma per mancanza di unità con se stessi, per conseguente mancanza di consistenza propria. E’ tutta un’altra storia costruire il rapporto con se stessi, ritrovare la vita in senso vero, cioè visione, idee e convincimenti, capacità di orientamento a partire da se stessi, imparare a capire ciò che si è davvero, ciò che vive dentro se stessi e non ciò che si muove fuori. Sintonizzarsi con l'esterno (la cosiddetta realtà), seguire i corsi d'esperienza già tracciati, le idee comuni e convenzionali, gli svolgimenti esterni è una cosa, sintonizzarsi col proprio sentire, con il proprio mondo interiore e esperienza interna, per cominciare a vedere tutto con i propri occhi, a capire da sè e in unità con se stessi è un’altra cosa, tutt’altra cosa. Questa di trarre da sè conoscenza e capacità di visione che non sia ingenua, che sia fondata, credibile, valida e affidabile è ipotesi remota, anzi del tutto ignota e neppure concepibile per la maggior parte delle persone. Ai più sembra necessario attingere e avvalersi d'altro per sostenere, formare la propria crescita, lo sviluppo dei propri mezzi per orientarsi, per capire, per realizzarsi, per conoscere ogni cosa, anche se stessi. Dunque che da dentro se stessi arrivi l'invito a entrare in sintonia con sè, a raccogliere dentro il proprio sentire, attingendo alla ricchezza e alla straordinaria capacità propositiva dei sogni, le guide e i percorsi per conoscersi, per trovare risposte e punti base e poi sviluppi di conoscenza essenziali per orientarsi da sè, per non farsi dire ciò che di sè e per sè è valido e possibile, ciò che è ad esempio normale sano e ciò che non lo è, tutto questo pare inconcepibile, tanta forza ha lo stare ormai al traino di idee e persuasioni prese da istruzione e apprendimento, da mentalità comune e da comuni usi e esempi, da fonti altre, da autorità presunte, rese ormai imprescindibili, indiscutibili. Malgrado questo e proprio per rendere questo modo passivo e acquiescente di intendere e di procedere dentro guide e limiti dati, consapevole, per mettere sotto il proprio sguardo ciò che illusoriamente pare pensiero proprio e che in realtà è eco e replica d'altro, la parte intima e profonda interviene e non cessa di interferire, anche con mano decisa. Necessario allora, nel proprio interesse, per non privarsi di un apporto prezioso che viene da dentro, per non opporre rifiuto e pregiudizio negativo sul conto di ciò che può essere valido e prezioso, capace di restituire libertà e autonomia vere, aprire un confronto con questa parte intima di sè, evitando di bollarla subito come espressione di guasto e di anomalia se non di patologia. Per formare unità e dialogo con se stessi, di cui si è spesso totalmente privi, per questo scopo e non per contrastare o per normalizzare il quadro interiore, serve sì un aiuto, che sappia condurre prima di tutto a non fuggire ma ad avvicinarsi a se stessi, alla propria esperienza interiore, al proprio sentire, ai propri sogni, per imparare ad ascoltarli, a comprenderli, a raccoglierne l'originalità e la ricchezza di proposta. E' questo un aiuto non per uniformarsi alla normalità, ma per congiungersi a se stessi, per arricchirsi di se stessi, per formare un nuovo modo di stare al mondo, il proprio autentico e originale, che poggi su proprie scoperte, conoscenze e verifiche, su proprio metro e non su quello comune della normalità, della fisiologia dell’essere. La sofferenza interiore non evidenzia e non testimonia difetto e insufficienza verso la normalità, ma rischio, presente nel proprio modo di essere e di procedere abituali, di distorsione e di mancanza di fedeltà e di unità con se stessi, rischio di fallimento dei propri scopi che, ancora ignorati, potrebbero rimanere sepolti. Cosa serve fare? Si può fare da soli? E' frequente che chi vive difficoltà interiore dica a se stesso e si senta dire che dovrebbe fare da sè, non dipendere, sforzarsi di "reagire", non farsi dare o sostituire in ciò, volontà e impegno, che potrebbe ben chiedere a se stesso. Se si trattasse di applicarsi a seguire ancora il modello comune e a rientrare nella fisiologia dell’essere, il ragionamento non farebbe una piega. Il problema però è formare e coltivare quel che ancora non c’è. E' uno sviluppo del tutto nuovo quello di cercare e di trovare unità con se stessi, di formare capacità di ascoltare e di capire la propria interiorità, capacità di assecondarla nel proposito di esistere, di trovare il proprio pensiero e visione, il proprio progetto. Per essere normali basta farsi portare e sintonizzarsi col programma comune, condizione provata e riprovata, ben conosciuta nel tempo, basta sforzarsi di rimettersi in pista, mentre per esistere secondo se stessi e per conquistare autonomia vera nel governo della propria vita serve unirsi a se stessi, al proprio profondo, imparare a capirlo, per vedere, col suo supporto e guida, le cose da sé, per trovare la propria consistenza. C’è un aiuto che si può cercare e che non toglie, che non sostituisce quanto si può trarre da sè, ma che favorisce viceversa il proprio andare verso se stessi, l'attingere e il rinascere da se stessi.
domenica 3 novembre 2024
Il dispetto
E' convinzione molto diffusa che ciò che interiormente è in contrasto e non omogeneo con le aspettative di quieto vivere e che procura disagio, che implica sofferenza, che interpone nel cammino stati d'animo, sensazioni che paiono del tutto inopportune e strane, diverse da ciò che si considera, in saldo accordo col senso comune, come ovvio e normale, procuri solo danno e faccia dispetto alle esigenze di buono stato e di favorevole corso. Non si tratta di una opinione più o meno dubbia e da verificare, ma di una persuasione ferma, che diventa presto vessillo e arma di combattimento per contrastare, per debellare il nemico, il presunto nemico interno. La squalifica di ciò che interiormente non asseconda, che pare minacciare il bene proprio, è così ferma e senza discussione, che non resta che affilare le armi dell'intervento, che bonariamente si chiamano cura, terapia. Può trattarsi della cura con mezzi chimici, in modo suadente chiamati medicine, che non tollera, che vuole zittire il sentire non in riga, che vuole rimettere le cose a posto e nel corso di ciò che l'ingegneria del provvedimento considera normale e favorevole. C'è poi il trattamento più morbido e in apparenza accogliente, come in svariate psicoterapie, che, anzichè zittire e manipolare con la chimica, paiono voler dare retta al disagio come spia di un guasto, di un che di anomalo, che avrebbe prodotto quello stato infelice e compromesso il regolare corso interiore, caricandolo di asperità. L'idea di ciò che interiormente dovrebbe esserci e che coincide con la stabilità, non perturbata da disagi e da segni di sofferenza, del procedere consueto, casomai con una sua corsa più fluida e una resa più efficiente, fa da principio guida e sottende la ricerca delle cause. Si indaga preferibilmente il passato, si cercano fattori di condizionamento, anomalie nell'educazione e nei rapporti con figure significative, si cercano traumi pregressi, esperienze fortemente dolorose e perturbanti, cui fare risalire l'origine di un presunto stato di instabilità, di precarietà interiore, di tendenza a difendersi e a reagire malamente, per condizionata reattività, anomala e disfunzionale, giudicata cioè non utile e non sensata, non funzionale a interessi di buon equilibrio e di buona resa. Tutto appare come bene in questo modo di prendersi cura di sè agli occhi di chi è favorevole a intervenire il modo riparatorio sulla presunta azione molesta e dannosa di una condizione interiore vista dal principio come a sè sfavorevole e deleteria, come un disturbo che minaccia e che fa dispetto ai propri interessi di benessere e di buono stato. Cominciamo però, interrompendo il corso fatale del ragionamento, che pare non fare una grinza, a aprire domande. Dove sta realmente il danno e cosa fa dispetto ai propri interessi di crescita e di realizzazione? Quali sono i propri veri interessi? Quanto è affidabile e fondata la posizione, che si autoproclama così certa e sicura, che sostiene l'idea del danno, della necessità, della bontà e del favore ai propri interessi del lavoro di ripristino di normalità, che sorregge l'impianto della cosiddetta cura nelle sue espressioni più diffuse? In una condizione di lontananza abituale dalla propria vita interiore, di attaccamento a ben altre guide e fonti di pensiero rispetto a una visione che scaturisca da sè e alimentata da un lavoro attento sulla propria esperienza, in una condizione di estraneità e di ignoranza di ciò che vive dentro se stessi, di incapacità di intendere ciò che dice e propone la propria interiorità attraverso il sentire, di cui ancora si ignora il linguaggio e di cui facilmente si fraintende l'intenzione, far scattare subito l'idea che la difficoltà che il proprio corso interiore genera equivalga a un disturbo e a un anomalo stato, che ciò che l'interiorità mette in campo sia anomalo, sbagliato, alterato, nocivo, malato è tutt'altro che una reazione da prendere automaticamente per buona, di cui farsi scudo come certezza. La vita interiore è tutt'altro che un corteo di segnali più o meno in accordo con la testa, con quella parte di sè che dirige e che fissa cosa è razionalmente valido e sensato, vero e giusto. La testa, che pure si illude di capire le personali esigenze e interessi, sa pensare prendendo da fuori le guide, tutta quanta la grammatica del vivere, i significati già pronti, che coniuga e combina, che declina senza avere altra capacità se non di stare nel programma già configurato e nella visione già delineata. Interiormente c'è ben altro che l'ossequio a questa testa pensante, capace in apparenza di concepire in proprio e validamente, in realtà muovendosi al seguito e facendo il verso a altro che istruisce il suo pensiero e che lo conduce. Interiormente c'è uno sguardo attento a vedere le implicazioni e il significato vero di ciò che la testa non sa e non vuole vedere e prima di tutto di se stessa e del suo modo di operare. Dunque capita che l'intimo sentire non sia concorde con le attese della testa, che cerchi non già di fare capricci e di sparare risposte anomale e deficienti, conseguenze di un presunto danno o trauma subito, di una irrazionalità che la rende parziale e cieca, ma che viceversa dia segnali intelligenti e ben mirati per aprire lo sguardo, per vedere cosa si sta facendo di se stessi, con quali esiti veri tutt'altro che scontatamente validi. Insomma c'è una parte intima e profonda che non segue docilmente l'andazzo abituale e che cerca di promuovere un risveglio di consapevolezza, di porre le basi di una verifica e di un ripensamento, attento e puntuale, onesto e preciso, che porti a scoprire il vero della propria condizione e modo di procedere, perchè da lì nasca qualcosa di proprio e autentico, di originale che non sia il movimento e l'iniziativa abituale della testa a rimorchio d'altro e di comuni preconcetti. E' in gioco la propria sorte e realizzazione, mica robetta. A fare dispetto a sè e ai propri interessi rischia di essere proprio la testa che sentenzia che è l'interiorità e il suo corso a fare dispetto.
venerdì 1 novembre 2024
Non è spento
Sempre a cercare luce fuori, occasioni e stimoli, come se altrimenti ci fosse un intimo spento, un vuoto interno da colmare. L'intimo di sè appare sempre mancante e oscuro, illuminabile solo da luce riflessa presa da fuori. Quest'idea di se stessi circa la parte che non sta in adesione, in aggancio e debitrice d'altro, è talmente radicata da poter segnare il corso intero d'esistenza, di una vita presa in affitto e appresa, tenuta su da rifornimenti continui di contributi e supporti esterni, da iniziativa incessante volta a non rimanere in stato di abbandono, a luce spenta. E' verità o pregiudizio quello che considera l'intimo di sè e la realtà dell'esserci senza sostegni e rifornimenti esterni come inconsistenti e vuoti? La persuasione che il bisogno d'altro caratterizzi fatalmente, quasi naturalmente, l'esistenza, ha fatto sì che il rapporto con se stessi sia stato presto, nel corso del cammino di vita, segnato da necessità di disinvestimento e di sostanziale fuga dalla presenza a sè e con se stessi, dal rapporto, dall'ascolto e dal dialogo col proprio intimo, caricati invece della necessità di approvvigionamento di risorse prese da fuori, necessità vissuta come bisogno naturale di dipendenza. Seppure spesso camuffata da legge umana, da legge di natura, c'è chi ha detto che siamo animali sociali, dunque capaci di crescere e di realizzarci solo in unità e in relazione a altri, è a tutto tondo una regola di dipendenza. Le dosi vanno di volta in volta procurate e assunte, diversamente c'è rischio di caduta in disgrazia, di pena e di tormento da astinenza, c'è l'incubo di un isolamento segnato da penuria e da vuoto, da gelo e da senso di mancanza, di esclusione, da timore di involuzione e persino di caduta nell'anomalo e malato. Impossibilitati, per pregiudizio recidivo e ben condiviso dai più, a generare e a trarre da sè risposta a necessità vitali di formazione di uno sguardo e di un pensiero, di scoperta di un calore non artefatto, di un senso di vicinanza da contatto vero e rigenerante con la vita, tutto in via sostitutiva è cercato fuori, senza nemmeno avvedersi che è in gioco il ricorso a sostituti, a succedanei, tutto cercato e preso da altro, da altri che soddisfi queste necessità fondamentali. Se questa non è dipendenza cos'altro è? Se l'intimo significato della propria vita non è visto con i propri occhi, compreso da sè e attraverso il proprio sguardo e la propria specifica dotazione umana, se l'essenziale della capacità di pensiero e di orientamento, di scoperta di ciò che vale e del suo perchè, non prende forma e non si genera dentro se stessi e su fondamento e guida del proprio sentire, l'incontro e il rapporto con gli altri cos'altro può diventare se non mutuo soccorso e sostegno nella forma d'esistenza presa a modello e copiata da fuori? E' una forma d'esistenza, senza forza e alimento di radice propria, dove ciò che conta, disciplinandosi a soddisfare le aspettative altrui, casomai mettendo in campo qualche tocco di estro o di originalità teatrale, è ben figurare per ottenere apporto di convalida e di stima da sguardo e da autorità esterna, privi come si è di autonoma comprensione e stima di ciò che merita e vale, di ciò che appassiona e che si ama convintamente, senza secondo fine. Privi della scoperta della propria identità vera, che solo nell'unità con tutto il proprio essere può essere scoperta e compresa, ci si infila nel ruolo, nella figura riconosciuta e riconoscibile dagli altri per darsi volto, il volto di un figurante. Che l'individuo sia, sulla scena sociale e dentro la cosiddetta realtà, figurante comparsa o primattore poco cambia, si tratta comunque di affidarsi a una identità presa e appresa e non di far conto su una identità e su una presenza viva e vera, che solo dal rapporto intimo con se stesso potrebbe generarsi e vivere, in ogni caso l'intimo finisce per essere circoscritto e solo sottomesso alle esigenza di scena. L'intimo, che non ha spazio di esistere davvero, è concepito e accettato solo come luogo di rilancio nella corsa abituale, di preparazione e trucco per nuove prove, come il camerino dell'attore che si prepara e si predispone all'uscita in palcoscenico, diversamente non è certo considerato e vissuto come incontro con parte viva e profonda di se stessi, come intimo in cui sostare, in cui ascoltarsi, in cui comunicare col profondo di sè, con la scoperta di una intimità tutt'altro che fredda e inospitale, dentro cui sentire contatto vivo, dentro cui il vero dell'esperienza vissuta può prendere volto, rompendo il muro dell'inconsapevolezza. L'intimo, l'intimo di sè e con la propria interiorità, non l'intimità con altri, che può esserne il sostituto e che spesso è l'unica forma riconosciuta di intimità, nella idea e nella pratica più comune non esiste se non come luogo di transito fugare, come luogo che altrimenti, se ci si dovesse trattenere oltre, è temuto come arido e vuoto, con cui e dentro cui pare prudente, necessario non stare, non indugiare, pena il rischio di sentirsi in stato di sofferenza da privazione, da abbandono, dentro una solitudine vista come maldetta sorte, infelicemente vuota, a meno di "ravvivarla" riempiendola di faccende, di iniziative che includano altro. C'è chi dice di saper stare da solo, da solo sì, ma sempre affaccendato e in attaccamento a altro, che sia, per fare qualche esempio, un fare concreto, che sia leggere o ascoltare musica, poco cambia, sempre e comunque in difesa e a porre rimedio al disagio e alla paura dello stare non fugace, senza supporti e stimolazioni esterne, a tu per tu e in contatto con la propria interiorità, in una intimità con se stesso temuta come vuota e spenta, senza calore e senza luce. L'intimo è spento solo per pregiudizio e per devianza, per quel movimento ripetuto, incessante a deviare da se stessi, come se non ci fosse origine di vita e di crescita se non in relazione, dipendente, con altro. Relazione con gli altri che non va di certo nè negata, nè sottovalutata, perchè l'incontro e il rapporto tra individui ricchi di autonomo pensiero, di identità vera e non da figurante e di capacità di ascolto può essere fecondo, fecondo se i due hanno relazione viva e feconda con se stessi, con la propria interiorità. L'intimo di sè non è nè vuoto, nè spento, a patto che non lo si rifugga.