Chi in presenza di malessere interiore
auspica prima di tutto l'eliminazione del malessere, di ciò che considera un
danno e una alterazione, vede con favore qualsiasi intervento curativo, sia
esso farmacologico o psicologico, che dichiari di voler combattere il
"disturbo", di metterlo a tacere o di rimpiazzare risposte interiori
considerate sfavorevoli e nocive, etichettate in gergo come disfunzionali, con
altre ritenute utili e normali. Il presupposto è che tutto interiormente debba
funzionare in modo "regolare" e secondo linee di svolgimento definite
senza ombra di dubbio come normali e sane. La vita interiore è considerata
null'altro che un accessorio, un'appendice subalterna rispetto alla testa del
pensare e del decidere razionali, come un insieme di reazioni, di risposte
emotive e di stati d'animo che dovrebbe declinarsi in una forma che sia
concorde con il modo di pensare e di intendere, con i propositi e le attese
della testa e comunque non tale da procurare intralci o aggravi. Che tutto
debba girare a discrezione e secondo i giudizi della testa, senza mettere in
mezzo difficoltà e ostacoli al procedere, che si considera normale, valido e
vantaggioso, trova conforto da un lato nella idea che “così pensano e fan
tutti" e dall'altro nel vasto apparato delle cure e delle teorie, che
fanno loro da supporto, che dicono di offrire rimedio, soluzione a ciò che
implicitamente e anche esplicitamente considerano una sofferenza anomala e
dannosa, un malessere interiore da mettere a tacere. Sembra evidente a chi ne fa
esperienza che in una condizione di disagio e di malessere interiore la miglior
cosa sia cercare di toglierlo di mezzo per non compromettere il corso abituale
e per rimettere in piedi un modo di procedere che non debba subire ostacoli.
L’idea che l’esperienza interiore sofferta e disagevole sia un danno, che lo
“stare bene” richieda liberarsene, sembra talmente ovvia da non richiedere
ulteriori ricerche e approfondimenti. Dentro questa direttrice di marcia,
quando ci si trovi in presenza di difficoltà e di disagi interiori, rispetto a
cui in partenza non si desidera altro che di porre loro fine, piuttosto che
porsi domande, sottoporre a verifica e mettere in discussione il proprio modo d’essere,
l’impianto del proprio procedere abituale, quel che, andando un po' al di là
dell’idea che sia in gioco una pura patologia da combattere con farmaci e
similari, ragionandoci sopra si è inclini a pensare è che ci siano problemi di
cattivo funzionamento, pecche, mali modi di rapportarsi all'esperienza,
che non gioverebbero al corretto e fisiologico (ritenuto tale) procedere,
che anzi creerebbero inciampi nel cammino, che malamente procurerebbero
frustrazione e sfiducia, eccessi di paura, fuga o debole supporto alla volontà
e alla capacità di sostenere e di persistere negli impegni presi, qualche malo
modo di affrontarli che li appesantirebbe, che produrrebbe insoddisfazione e
danno, che anziché giovare infilerebbe dentro trappole, incastri dolorosi e
sciagurati. A questo riguardo si pensa in genere che cause esterne, che cattive
influenze subite nel passato, che insegnamenti sbagliati, che affetti negati,
che contributi tossici di figure significative, che pressioni indebite e
nocive, che carenze dell'ambiente, che traumi patiti possano aver compromesso e
guastato il più fisiologico e sano sviluppo, che ancora stiano disturbando e
recando danno. Anche quando non si intenda limitarsi alla soppressione del
sintomo attraverso il ricorso a psicofarmaci o a interventi correttivi sul
comportamento, quando si ritenga valido, con l’intento di andare alla radice
del malessere, intervenire nella ricerca delle cosiddette cause e si fa propria
l'idea di indagare, casomai di essere aiutati a farlo, lo scopo è sempre,
andandone a scovare la causa, di liberarsi dalle insane conseguenze di ciò che
avrebbe fatto danno, dagli effetti che tuttora ci si porterebbe dentro, per
rimettere in sesto e in corsa un modo di procedere, casomai con qualche
correttivo e aggiustamento, nella sostanza dato per scontato come valido e a sè
favorevole. Un lavorio che vede comunque la parte interiore oggetto di
spiegazioni, di interpretazioni, più che soggetto che dice, che rivela, che
conduce alla conoscenza. Un lavorio che vorrebbe liberare da incastri e da invischiamenti,
da trappole interiori e da circuiti dannosi della mente, per rimettersi in
piedi, casomai con la promessa di avere più libertà e più capacità di esprimere
se stessi, di accedere a un modo più sano di vivere e più corrispondente ai
propri interessi e aspirazioni. L'officina di diagnosi e riparazione della
psiche sembra avere molte frecce al proprio arco, offrendo un ventaglio di
approcci e di tecniche psicoterapeutiche, dai nomi accattivanti e suggestivi,
in una situazione via via in fermento di nuove proposte, in cui di volta in
volta spunta qualche nuova teoria e tecnica pronta a farsi vanto di essere la
migliore e a più a pronto uso nel saper intervenire, spiegare, risolvere. Tutto
l'impianto teorico e pratico della diagnosi e cura del malessere interiore, che
mostra così varie offerte e che punta sulla risoluzione del malessere, si regge
su preconcetti. Prima di tutto, come immagine di se stessi, c'è, data per
scontata e preconcetta, la visione gerarchico piramidale che vede in posizione
inferiore e subalterna la componente interiore rispetto a quella conscia cui è
riconosciuta la funzione direttiva, il monopolio dell’esercizio del pensiero,
la prerogativa del possesso della capacità di condurre, nelle valutazioni e
nelle scelte, con affidabilità di guida. In secondo luogo, ma non seconda per
rilevanza, c'è l'idea preconcetta che i modi e gli strumenti della crescita e
della realizzazione personale siano già concepiti e ben presenti e tracciati
nella prassi comune e nel sistema organizzato e che per ognuno si tratti di
favorirne il valido e regolare impiego e svolgimento. Cosa sia e quanto valga
l'interiorità pare già definito, pare scontato che non possa svolgere funzione
guida, che non abbia capacità di generare pensiero e di dare contributo sostanziale
alla ricerca di verità e di orientamento e nutrimento della crescita personale,
che questo compito ricada sulla parte in posizione di testa. Che non ci sia
necessità per l’individuo di costruire da sè ciò che serve per la propria
autentica realizzazione, di portare a maturazione la conoscenza approfondita di
se stesso, la scoperta attenta e fondata, per non aderire al già pensato
comune o d’autore, dei significati, lavorando su ciò che la sua esperienza gli
rivela e gli rende possibile conoscere davvero, di dotarsi di scoperte proprie
per orientarsi da sé e per trovare ragioni e scopi della propria vita, è
persuasione diffusa e consolidata e diventa facilmente per ognuno un solido
preconcetto. Nel modo di pensare le proprie necessità e di procedere cui ci si
affida, non serve, non è richiesto un simile lavoro, semmai è richiesta a se
stessi capacità di intervento e di dare prova su un terreno già segnato, dove i
supporti e le guide, pure la lettura e la definizione dei significati sono già
presenti, dove è più accreditato il contributo esterno per la propria
formazione e crescita, che quello interno, cui, per preconcetto, non può essere
riconosciuta una simile capacità, che non può avere una simile pretesa. L’idea
è che quello che si può trarre da sè sia non più che l’indicazione di preferenze
e inclinazioni, in favore di scelte più mirate dentro un ventaglio di opzioni,
di soluzioni consolidate, che invece la propria crescita, lo sviluppo delle
proprie conoscenze ha necessità di avvalersi di supporti e di apporti esterni,
che non è pensabile che da sé si possa trarre di più e di sostanziale. Se, per
fare un esempio che chiarisca, la lettura di libri, l'apprendimento di teorie,
la fruizione di vari apporti culturali hanno credito come luogo e supporto
formativo per l'accrescimento di idee, di pensiero valido e
credibile, al lavoro su se stessi, a ciò che autonomamente può nascere e
crescere attingendo alla propria fonte, per preconcetto, è data una fiducia
assai limitata sia per la consistenza di ciò che può produrre sia per la sua
attendibilità. E' vero che se la produzione autonoma di pensiero è affidata
all'iniziativa isolata del pensiero conscio razionale presto questa si
chiuderebbe nel cerchio del già detto e concepito. Soltanto dando spazio alle
capacità del pensiero che origina dal profondo, soltanto attingendo a questa
fonte, si può scoprire di che cosa la creazione autonoma è capace. Se si apre
un confronto senza preconcetti e prevenzione, senza partito preso a riaffermare
ciò che non si vuole mettere in dubbio, senza predisposizione a far dire ciò
che si presuppone a ciò che si incontra interiormente, il quadro e l’orizzonte della
conoscenza e della scoperta di se stessi, il potenziale di ciò che può
scaturire dal dialogo interiore, cambia radicalmente. E' possibile allora
scoprire, come accade dentro un valido percorso analitico, che la vita
interiore, che ciò che si svolge al suo interno, è espressione e fonte di
un'intelligenza, che scaturisce dal profondo, ben mirata a trovare il vero e
non a ridurre il pensiero, come capita fatalmente lasciandone il monopolio al
pensiero razionale, alla ripetizione e al ricombinazione di idee prese in
prestito, di schemi assimilati e riprodotti, di attribuzioni di significato e
di risposte già formate. L’intelligenza di cui è portatore e anima il profondo
è quella di vedere con i propri occhi, di guardare riflessivamente dentro la
propria esperienza, di riportare a sé la funzione di comprensione e di
convalida e non di riprodurre e rimasticare, pur con qualche illusione di
originalità, ciò che è già concepito e assodato, facendosi dare da fuori
supporto e conferma. Non tutto sul terreno della conoscenza è già stato detto,
assodato e garantito da autorevoli fonti, residuando per se stessi solo la
possibilità di dire la propria, ma dentro un quadro già definito e dato. Viceversa
ciò che viene a dire il profondo, sia nel sentire e nei vissuti che anima sia e
in modo mirabile nei sogni, è che tutto è da farsi, se si vuole uscire dal
torpore dell'inconsapevolezza e se si vuole mettere assieme una visione
propria, una conoscenza approfondita e fondata di se stessi, per nulla
anticipata e fotocopia di ciò che la cultura e il sapere di “chi sa” ha
compreso e concepito, una scoperta di significati validi, verificabili da sé,
tratti da terreno vivo d’esperienza. Sono scoperte possibili e inattese, di
respiro e forza ben diverse delle costruzioni del pensiero razionale scisso e
ripiegato su di sè, capaci di rendere davvero autonomi, coinvolti e
appassionati finalmente a sviluppare visione e a aprire percorsi propri,
svincolati dalla dipendenza da altro e liberi dalla necessità, per ottenere
soddisfazione, di correre dietro a altro, per raccogliere la conferma e la
gratificazione del farsi riconoscere bravi e capaci, liberi perché in possesso di
una vera autonomia di scelta, di progetto, di realizzazione. Il malessere
interiore, quando si apra un attento, rispettoso e fedele ascolto
dell'interiorità in ciò che propone e dice dentro e attraverso vissuti non
certo facili, ma non per questo privi di senso, rivela di non essere il segno
di un guasto, della alterazione e compromissione di una normale
funzionalità, intaccata da qualche causa da scovare nel passato, nell'ambiente
o in cattive modalità di pensiero e di sentire, ma viceversa è il segno di una
forte iniziativa interiore volta a mettere al primo posto la ricerca del vero.
Nel malessere interiore c’è il forte richiamo di un profondo che spinge
per costruire ciò che non c'è, mettendo in crisi, non dando manforte a un
procedere che cerca solo continuità di esercizio, che presuppone che non ci sia
necessità d’altro che di proseguire. Nel vivo delle espressioni di malessere
l’inconscio, oltre che mettere in primo piano all’attenzione il dentro del
sentire rispetto al fuori dell’agire e del fare, dà tracce e segnali
validissimi per vedere prima di tutto la verità della propria condizione e
del proprio modo di procedere in ciò che è realmente e di cui manca, che visto
da dentro e non con la lente deformante del preconcetto si rivela
insostenibile, inautentico e affatto affidabile e favorevole. Così, inautentico
e per nulla corrispondente e all’altezza di ciò che da sé potrebbe nascere, il
proprio profondo lo ha riconosciuto e cerca di renderlo riconoscibile,
svelandone i modi e la natura vera, un modo di procedere affidato e plasmato
più su altro che ha dettato e che ancora suggerisce modi e contenuti, altro già
concepito e di comune uso che conduce, anche se offrendo l'illusione di essere
artefici dei propri pensieri e delle proprie scelte, che in consonanza con
il potenziale e l’originale di se stessi, più frutto di intesa e di
connessione con l’esterno che col proprio intimo, tenuto ancora lontano, non
valorizzato, incompreso e a priori sottovalutato. Lo stravolgimento che
consegue all’adesione acritica e tenace a un simile modo di procedere e
di pensarsi, l'incapacità, proseguendo inconsapevoli, di riconoscere la verità
della propria condizione, la mancanza di un lavoro di ricerca su di sé e di
maturazione di scoperte proprie, non riconosciute come necessarie da sviluppare
e coltivare, visto che tutto pare già definito e in normale compimento, per
dotarsi dei punti di riferimento, delle conoscenze di sé, della conquista
dei punti chiave di comprensione di ciò che è importante, che ha
valore per se stessi per poter dirigere autonomamente e
consapevolmente e in pieno accordo con se stessi le proprie scelte, per
sfuggire al rischio, altrimenti fatale, di farsi portare, affidandosi a altre
guide che non siano quella interiore, su percorsi e con traguardi non
corrispondenti a se stessi, confermati da fuori, ma non da dentro se stessi,
tutto questo, che non è certamente poco e di poco conto, fa sì che il profondo
intervenga per sollevare il problema. L’inconscio aprendo la crisi, animando e
agitando il quadro interiore, dando all’interno sempre segnali appropriati e
ben mirati, mai agendo in modo convulso e confuso come si è portati a giudicare
confrontandosi con il malessere interiore, vuole richiamare l'attenzione su ciò
che si sta facendo di stessi, per sollecitare una attenta verifica e un serio
lavoro di ricerca, prioritari su tutto. Pensare il malessere come guasto e
segno della compromissione di un regolare e efficace procedere, che fa
desiderare la messa in opera di interventi di cura nel segno del ripristino e
correzione, senza verifica attenta e lucida messa in luce dell'intero impianto
del proprio procedere, conduce solo a mantenere la distanza e l'incomprensione
di ciò che il proprio intimo vuole dire e spingere a cercare e a costruire per
il proprio bene. Uscire dall'inconsapevolezza, prendere visione di un procedere
passivo dipendente dove altro segna i passi da seguire e dà le chiavi di
lettura, l'illusione lì dentro di dire e di portare a compimento qualcosa di
proprio, pur senza essersi mai avvicinati a sè e alla conoscenza di se stessi e
di quanto di proprio vorrebbe e potrebbe vivere e realizzarsi, tutto questo è
nello sguardo del profondo, tutto questo sta all'origine dell'iniziativa messa
in atto dall'inconscio, che attraverso il malessere interiore vuole aprire una
fase importante di riflessione e di ricerca. Se si sta nel preconcetto, nella
definizione aprioristica della propria realtà come semplicemente normale e di
conseguenza di ciò che va inteso come il proprio bene, fatto coincidere
inequivocabilmente col fare salvo il procedere solito dall'insidia del
malessere, che tutt'altro è che un segno di guasto e di anomalia, ecco che
nulla del significato vero della crisi si rischia di comprendere. Ci si riserva
solo l'intento di scrollarsi di dosso il malessere e semmai di fare qualche
operazione di restauro e di rinnovo, ma sempre nel solco di un procedere e di
una ignoranza di se stessi, mai prese sul serio come questioni da affrontare,
da indagare, su cui riflettere e lavorare. Nulla del significato della crisi e
del malessere interiore si finisce per capire, ci si tiene all'oscuro di
scoperte importanti e decisive, che sono l’intento del profondo, che proprio a
questo scopo ha aperto la crisi e mosso il malessere interiore, conquiste
capaci di restituire a sè la guida della propria vita, la sua realizzazione
autentica. Non ci si dà l'opportunità, procurandosi l'aiuto valido a questo
scopo, di imparare a intendere e a capire fedelmente ciò che la propria
interiorità vuole dire e favorire, non se ne scopre l'affidabilità anche nelle
sue espressioni più sofferte e difficili, non si recupera un rapporto di unità
piena col proprio intimo e profondo, ci si rende viceversa ancora estranei alla
propria vita interiore, persino ostili a questa parte così importante di se
stessi, si fraintende e si squalifica il suo apporto, che, se compreso senza
preconcetto, se valorizzato e fatto proprio, tanto di favorevole saprebbe dare
per una vera e profonda rinascita. La rinascita da se stessi, in unità col
proprio autentico, col proprio intimo profondo. Prendersi cura di sé, decidere
come farlo, mette in gioco fatalmente la propria intelligenza, oltre che la
propria responsabilità verso se stessi. Se si impiega e si dà seguito alla
meccanica del preconcetto si rischia di chiudere a se stessi, di permanere
nella lontananza da sè, di perseguire un bene presunto, all’insegna del
tentativo di liquidare e comunque di superare e passare oltre il malessere
interiore, che se pare ovvio, secondo il preconcetto proprio e comune, essere
un obiettivo benefico e vantaggioso, si fonda però sul mantenimento di una
condizione di spaccatura del proprio essere, di sostanziale incomprensione e
disaccordo col proprio intimo, su cui si va a agire, vuoi con l’intento di
metterlo a tacere o di correggerne le espressioni, vuoi con la pretesa di
spiegare e con l’illusione di capire, senza dargli in realtà spazio di parola e
ascolto, intimo che comunque di questo mancato incontro e ascolto non cesserà
di dare segno. E’ un presunto bene che implica il mancato sviluppo di una
conoscenza fondata e vera di se stessi, di una capacità di realizzazione
autenticamente propria, che sono ragione, scopo e intento della crisi e del
malessere interiore, che soltanto un rapporto aperto e dialogico con la propria
interiorità, che soltanto attingendo al contributo e affidandosi alla guida del
proprio profondo si potrebbe realizzare. Sono conseguenze tutt’altro che
irrilevanti. Vale dunque la pena in situazioni di malessere e di crisi porsi
domande, cercare di capire con apertura di sguardo, senza preconcetti, senza
dare nulla per scontato, senza delega a opinioni altrui, neppure a quelle dei
cosiddetti esperti, cosa stia realmente accadendo dentro se stessi, vale la
pena cominciare a ascoltarsi per comprendere quale risposta, quale modo di
prendersi cura di sé offrire a se stessi, quale scopo perseguire.
martedì 28 maggio 2024
La cura e la meccanica del preconcetto
domenica 19 maggio 2024
La riscoperta di ciò che siamo
La
lontananza da se stessi, l'estraneità alla propria vita interiore, relegata in
uno spazio marginale, trattata come appendice affatto essenziale e degna di
considerazione, vigilata e temuta quando non corrispondente alle proprie
istanze di riuscita e di quieto vivere, disegnano il quadro triste di una
condizione umana, immiserita del suo potenziale e della sua risorsa più valida,
quella interiore e profonda. E' una condizione, non certo rara, questa in cui l'individuo
è fondamentalmente affidato e appiattito sul binomio volontà e ragione, che,
senza vincolo e rapporto col sentire e con la vicenda interiore, pretende di
strafare e di tenere il resto in soggezione. E’ una condizione che, malgrado le
velleità e le illusioni, comporta rimanere più al di qua e al di sotto che al
livello di una realizzazione compiutamente umana. Tutto l'impegno e
l'aspettativa dell'individuo si concentrano sulla pretesa della riuscita, del
dare prova, del farsi valere, del trovare soluzioni e capacità di rendimento
dentro le guide e le regole della cosiddetta normalità, assecondando e traendo conferma
dal giudizio altrui e dall'essere in linea con l'insieme, senza cura
dell'ascolto delle proprie risposte intime e del confronto con la propria interiorità.
La visione di se stessi insita in un simile modo di stare al mondo e di
procedere concepisce il proprio essere come un meccanismo da tenere efficiente
e regolare, da mettere in manutenzione quando dà segnali di crisi e di
sofferenza. La vita interiore è però tutt'altro che una meccanica da tenere a
bada e in “regolare” esercizio. Nella vita interiore c'è il meglio di se stessi,
del proprio patrimonio e potenziale di intelligenza, della capacità di
rimettere in piedi la consapevolezza e la visione attenta, veritiera e critica
del proprio stato e dello stato delle cose, altrimenti totalmente appiattita,
falsata, distorta. Quando non fondati su di sè, non alimentati dalla propria
interiorità, quando non generati da riflessione e da ricerca personali in
stretta unità e scambio col proprio profondo, il pensiero e la visione delle
cose sono fatalmente forgiati da altro, regolati e istruiti da mentalità, da
cultura e senso comune, da idee correnti e prevalenti. Di questa condizione di dipendenza
e di omologazione del proprio pensiero, che sbarra la strada a scoperte più
autentiche e a sviluppi di crescita personale più fedeli a se stessi, permane
inconsapevolezza, a parte che nella parte profonda del proprio essere, che non
per caso agita interiormente le acque, dà nel sentire segnali e richiami
insistiti per guardare con attenzione dentro un modo di procedere tutt’altro
che saldamente fondato, che felice e promettente. L’attaccamento però a un modo
di procedere cui si sono legate le proprie fortune e persino il proprio amor
proprio, perché rivestito, malgrado al traino d’altro, da illusorio senso di
padronanza e di esercizio di iniziativa propria, perché inteso, malgrado
nell’ignoranza del proprio intimo vero, come terreno e veicolo di espressione
di sé e di (presunte) valide capacità realizzative, rende quasi necessario, per
tutelare ciò a cui ci si è così fortemente legati, il controllo su ciò che vive interiormente,
trattato come un meccanismo, come una parte che si presuppone sia regolare solo
quando asseconda le attese e i propositi in atto e non crea problemi. Diventa
necessario tenere a bada ciò che si svolge interiormente, provando a
disciplinarlo e correggerlo, quando discorde dalle attese, esercitando
impunemente, come fosse necessità ovvia e normale, la pretesa che marci
concorde con le aspettative e i risultati che si vogliono perseguire, che
paiono proficui, addirittura irrinunciabili, pena il rischio, questo il
convincimento, altrimenti, di fallire miseramente, di cadere in disgrazia. Qui
c’è la distorsione più forte. La parte più intima di se stessi, che, tirata per
i capelli, si vorrebbe docile e al passo con un procedere tutt’altro che
felicemente fondato su di sè, in realtà
sa bene quanto c’è di mancata consapevolezza, di lontananza da una conoscenza
di se stessi e di scoperta di ciò che potrebbe realizzarsi di autenticamente
proprio, perciò dà stimoli, offre negli stati d’animo, nelle sensazioni meno
facili lo spunto e il pungolo per aprire gli occhi, per coinvolgersi in una
ricerca di verità circa il procedere cui si è legati e ciò che si sta
perseguendo. La spinta dell’interiorità, del profondo è a aprire gli occhi,
togliendo ogni velo, su ciò che sinora si è fatto della propria vita, in che
modo, vincolati a che cosa. La spinta interiore è a lavorare con attenzione sulla
conoscenza di sé, non banalmente e non superficialmente, per arrivare, passo
dopo passo, con la guida del profondo, che con i sogni e con ciò che fa vivere
nel sentire sa indirizzare la ricerca mirabilmente, alla scoperta di ciò che, autenticamente
proprio, risalti ai propri occhi come valore vero, che, in unità con tutto il
proprio essere, si senta profondo desiderio e passione di far vivere, di
realizzare. Non siamo nella parte più viva, intima e profonda di noi stessi dei
meccanismi pressoché automatici, all’occorrenza da regolare, portiamo dentro di
noi, sia a livello fisico biologico che psichico, intelligenza e capacità di
tenere conto di complesse esigenze, di tradurle nel modo più sensato e valido,
di rendere riconoscibili e di segnalare acutamente condizioni di crisi e
di sofferenza, che tendono comunque a uno scopo di salvaguardia e di ricerca di
equilibri più vitali e corrispondenti alle necessità personali. Tutto questo in
un modo accorto e intelligente, attraverso risposte interiori e processi vitali
che vogliono far capire e che, se ben compresi e corrisposti, sono capaci di
indirizzare e promuovere trasformazioni utili e necessarie. La medicina
nei suoi orientamenti prevalenti, vincolati e frutto di una visione
meccanicistica dell'uomo e della pretesa di dirigere, manipolare,
strumentalizzare, regolare e dominare i processi biologici, spesso poco attenta
e curante delle potenzialità, delle regole interne della vita biologica e delle
sue capacità di porre e segnalare problemi e di dare risposte a esigenze
complesse, interviene purtroppo non di rado con l'arbitrio e la supponenza di una
presunta scienza che vuole mettere le cose in ordine e a posto, introducendo
correttivi, che, ignorando e non rispettando gli equilibri e le risposte
interne, rischiano di produrre più forzature, rotture di equilibri interni che
vero aiuto. Sul terreno psicologico accade la stessa cosa quando si pretende di
normalizzare, di correggere e di sanare situazioni e esperienze interiori, che
nello schema di rendimento e presunta normalità, sono giudicate anomale e
disfunzionali, misconoscendone il valore e il senso, ignorandone la finalità
cui tendono. Si vede debolezza, disturbo, anomalia e cattivo funzionamento dove
c'è ben altro, dove c'è viceversa tutt'altra storia in ballo, tutt'altra
sapienza e progettualità. L'intelligenza dei processi interni all'individuo, i
confini del cui essere sono ben più ampi di volontà e ragione e di meccanica
efficienza, rischia di essere completamente misconosciuta. Si interviene con
psicofarmaci, con tecniche psicologiche manipolative e correttive per rimettere
le cose in riga dove invece c'è ben altro, lo si fa dando per scontato che così
facendo si faccia il proprio bene, si operi avendo cura di se stessi. Come la
medicina che, in non poche sue espressioni, in nome della cura, vuole dominare
e risolvere con interventi volti a spazzare via, a mettere a norma, a
introdurre rimedi che vorrebbero sistemare il disturbo, come se non ci fosse
altro da comprendere e da favorire, da assecondare in modo più rispettoso delle
capacità e dell'intelligenza biologica insite nell'organismo di ognuno, così
sul terreno psicologico, sempre in nome della cura, si compiono, non raramente,
analoghe manipolazioni, che finiscono per stravolgere tutto, per trattare come
crisi da domare e da riportare al dritto del consueto e del normale corso
conforme ciò che invece interiormente vuole portare in tutt'altra direzione e
che ha tutt'altro scopo, niente affatto insani, infelici o sfavorevoli o
malati. L'ottusità della pretesa di rimettere le cose a norma di funzionamento,
che, al di là delle buone intenzioni dichiarate, anzichè fare bene come
propugnato, in realtà scombina e reca danno, limita e compromette le
possibilità di crescita personale e di salute autentica, risalta agli occhi e
diventa ben consapevole in chi, procurandosi l’aiuto valido e finalizzato a perseguire
questo scopo, ha fatto la scelta di rispettare, di capire senza preconcetti, di
conoscere e di valorizzare le espressioni del proprio essere, della propria
vita interiore, di chi si è messo in guardia dal pericolo e non ha accettato di
rendersi oggetto di manipolazioni fatte in proprio o suggerite e sobillate da
fuori, da idee comuni, così come da pareri e da proposte di aiuto di presunti
esperti. E' tempo di recuperare una visione di se stessi più ampia, più
rispettosa delle qualità e delle potenzialità del proprio essere, non
riducibile a un meccanismo da regolare e da tenere sotto controllo.
sabato 18 maggio 2024
La guida interiore
La parte conscia dell'individuo si fa vanto
di superiorità rispetto alla componente interiore e profonda nel garantirgli
capacità di guida affidabile, la suppone. E' comprensibile che lo faccia, visto
che nell’esperienza di molti, questa parte di se stessi, che fa leva su volontà
e pensiero ragionato, da sola e volendo fare da sola, ha tirato e tira la
carretta. La parte inconscia però non è, come ritiene spesso il pensiero
comune, un magma di paure, un serbatoio di brutte esperienze, uno strepitio di
pretese infantili e di convincimenti irragionevoli e assurdi, dunque una parte
inaffidabile, da tenere comunque in subordine. L'inconscio è la parte di noi
stessi che sa vedere le cose che ci riguardano da vicino con trasparenza e
fedeltà di sguardo, sapendo, ben diversamente dalla parte
conscia, contemporaneamente allargare e estendere la prospettiva per
cogliere l'insieme e ciò che nel tempo ne sarebbe di noi stessi procedendo
nella modalità consueta. La parte conscia vuole la continuità, concepisce e dice
cose che confermano solo ciò che è solita credere, sostanzialmente non sa
staccare da ciò che le è abituale e che dà per scontato, per vedere
riflessivamente e senza pregiudizio cosa sta sostenendo e in che modo. La parte
conscia si illude di essere lucida, obiettiva, capace di riconoscere e di
garantire a se stessi il meglio della conoscenza e le più favorevoli delle
risposte e delle soluzioni, in realtà è spesso cieca e passiva, ripete più di
quanto non creda luoghi comuni, si avvale nel pensare, nel ragionare
sull'esperienza di attribuzioni di significato prese in prestito e assunte
passivamente, dando per scontato di sapere cosa sta dicendo, cerca e si fa dare
dall'esterno convalide rassicuranti e si fa persuadere dall'approvazione
altrui, ne dipende, perciò si chiude e si rigira su se stessa. Non sa vedere la
passività che la costringe a far suo ciò che è già definito come significato,
non sa vedere la propria inconsistenza di pensiero. Ciò che si pensa indirizza
e sostiene le proprie scelte, è decisivo per la propria sorte. Se è un
pensiero, quello di cui ci si avvale, che, per come viene articolato e
composto, per le attribuzioni di significato che impiega e variamente combina,
è coerente e conforme a una visione della vita e delle sue possibili realizzazioni
già concepita e sistemata, il peso di una incapacità di conoscersi davvero e di
conoscere autonomamente e fedelmente a sé è rilevante, decisivo per la propria
sorte. Solo la capacità di formare pensiero autonomo e fondato sulla
comprensione dei significati tratti dalla propria esperienza può rendere
indipendenti e capaci di prendere in mano la propria sorte. Perché il proprio
pensiero sia fondato, davvero valido e affidabile, capace di garantire a se
stessi capacità di orientamento e di giudizio, libertà di scelta, tutto
andrebbe capito partendo da se stessi, da scoperta di significati dentro e
attraverso la propria esperienza, i propri vissuti. Le proprie vere ragioni di
vita e potenzialità, che rischiano di essere oscurate o malamente confuse con le
aspirazioni e le mete prese in copia e in aderenza a ciò che fuori di sé è
comunemente promosso e organicamente concepito e organizzato, sono in realtà
tutte ancora da scoprire, da riconoscere. L'inconscio non ignora queste lacune,
ha ben presenti tutte queste questioni e necessità vitali, l'inconscio è la
parte di noi stessi portatrice di ciò che autenticamente e profondamente siamo,
con cui e per cui siamo venuti al mondo e che potremmo far vivere e realizzare,
è la parte che non chiude gli occhi, che non riconosce come priorità stare al
passo con altri e proseguire, che ha ben altra preoccupazione e cura di noi
stessi, è la parte che sa riconoscere il niente camuffato da tutto, il vuoto,
l'inconsistente dove la parte conscia crede ci sia chissà quale sostanza.
L'inconscio è il nostro saper vedere senza illusioni e trucchi, è il nostro
porre in primo piano il vero, rispetto alla tendenza a far funzionare comunque
le cose, cercando a testa bassa di non perdere punti, di non rimanere indietro
rispetto agli altri, provando con ogni mezzo a far girare il meccanismo, a
proseguire comunque. L'inconscio contrasta la tendenza dominante nell'individuo
a salvaguardare un modo di procedere e un equilibrio mal fondato e per nulla
rispondente alle proprie necessità e possibilità, cerca di fargli sentire lo
scricchiolio dell'insieme dell'assetto di un modo di essere e di procedere, che
pretenderebbe di essere solido, quando in realtà è spiantato, fragile,
sconnesso. L'inconscio al mantenimento di questo insieme non dà manforte. Ansia
e quant'altro trovi espressione nel disagio interiore, spinti e messi in campo
dall'inconscio, servono a far sentire l'intimo profondo disaccordo, il pericolo
e il senso di inaffidabilità di un modo d'essere e di procedere tutt'altro che
validi e promettenti, a far sentire la necessità di un cambiamento di sguardo e
di rotta, a consegnare il compito non di tirare avanti dritto incuranti, ma di
cominciare davvero a guardare senza veli, a capire come si sta procedendo, di
cosa si è sostanzialmente privi. Nel disagio interiore e nelle sue punte di
malessere ci sono apporti e stimoli accorti e intelligenti, carichi di
significato e con ben valido fondamento, anche se scioccamente trattati e
considerati come segni di anomalia, come ansia immotivata ad esempio. Il vizio
di fondo di tanto pensiero psicologico e psicopatologico è di considerare
l'uomo come un meccanismo che deve stare dentro, funzionare regolarmente e
realizzarsi nel cosiddetto "reale", il che altro non significa se non
lo stare sui binari e nell'adesione a ciò che, pur con tante varianti e opzioni
alternative, nella sostanza è già modellato e dato, già pensato e detto, che
nulla ha a che vedere con la formazione di pensiero proprio, con la scoperta di
se stessi e del proprio progetto, che l'inconscio stimola con insistenza, che
vuole con forza, perchè condizione per essere artefici del proprio destino e
liberi, non gregari. Dove la parte conscia tira dritto e consolida solo il
pregiudizio, l'inconscio "pensa" e cerca di far sentire la sua presenza,
di esercitare la sua influenza, tutt'altro che negativa, anche se vissuta come
disturbante, anche se bollata come disturbo e patologia da trattare e
eliminare. L'inconscio non è lontano o destinato per sua natura a rimanere
tale. Anzi il nostro inconscio vuole esserci nella nostra vita, stimolarci e
sostenerci nell'impegno di crescita, consegnandoci (attraverso i sogni
principalmente, ma anche plasmando tutto il corso interiore dei nostri vissuti,
del nostro sentire) nuova linfa e pensiero, vuole che sia condiviso dalla
nostra parte conscia, cui chiede coinvolgimento, impegno e serietà, sacrificio
della pretesa di capire tutto in un attimo o, peggio, di sapere già.
L'inconscio non è uno strano accessorio o una presenza aliena, non è un'entità
oscura, destinata a sfuggirci, di cui solo gli esperti possono dire, con quale
cognizione di causa è tutto da vedere. L’inconscio siamo noi in una parte ed
espressione del nostro essere, che ahimè spesso teniamo lontana, sminuiamo, sul
cui conto abbiamo pregiudizi, verso cui, per definirla, impieghiamo stereotipi,
che in definitiva molto spesso non conosciamo nel suo vero volto, significato e
valore. L’inconscio è la parte di noi stessi che raccoglie e documenta ogni
passo del nostro procedere, che evidenzia continuamente nelle nostre emozioni e
stati d'animo il vivo e la complessità di cui è fatta la nostra esperienza, il
vero e l'intero, senza omissioni o aggiustamenti di significato o riduzioni di
comodo, come, pensando col ragionamento, tendiamo spesso a fare. Capita che già
giovani o giovanissimi si veda il proprio corso d'esistenza, che si vorrebbe
quietamente e piacevolmente sereno, turbato da malesseri o da crisi interiori,
non per caso, non per cedimenti o per insufficienze banali, non per difetti di
buon funzionamento, ma per ragioni più profonde, di mancanza di basi salde di
unità con se stessi, di conoscenza di se stessi, senza le quali è compromessa
la capacità di farsi buoni interpreti di se stessi e di guidarsi autonomamente,
di sventare il rischio di farsi sostituire, di affidare la proprio vita e il
proprio futuro a guida esterna piuttosto che interna. Già pare infatti
modellato, spiegato e detto ciò che va inteso per realizzazione personale, per
crescita, per ricerca del bene della propria vita. Le tappe, le occasioni, i
modi di intendere la maturità sembrano già definiti e scolpiti nell'esempio
comune, nel pensiero vigente, prima di ogni possibilità e impegno di scoperta e
di ricerca personali. Il rischio di saltare la propria ricerca e di imboccare strade
già segnate, tradendo, deludendo le proprie ragioni e aspirazioni profonde,
nemmeno indagate, coltivate e conosciute, è fortissimo. L’inconscio non per
caso intralcia il cammino, fa sentire con ansia, attacchi di panico o
quant’altro cosa vacilla e manca, forza l'individuo col malessere ad andare più
verso se stesso che verso l‘esterno e verso altri, gli fa toccare con mano la
sua non familiarità e lo smarrimento nel contatto con il proprio mondo
interiore, gli fa sentire l'urgenza di porvi rimedio, di non procedere
incurante di questo stato di incomprensione con se stesso. Non è distruttiva la
pressione che l’inconscio esercita sull'individuo, è provvidenziale e saggia,
gli vuole togliere illusioni, vuole spingerlo a delle verifiche attente e approfondite
da farsi con i propri occhi, con trasparenza e coraggio di verità finalmente.
L'inconscio vuole aprire all'individuo una stagione di profonda trasformazione
per sostituire il posticcio di una identità e di un senso della propria vita
prese in prestito, fragili, non verificate e comprese davvero (fondate più
sull’imitazione e sulla ricerca dell’intesa con l’esterno e con gli altri che
sul confronto con se stesso) con la presa di coscienza, con la formazione di
proprie idee fondate e verificate, con la formazione di propria visione, in
stretta unità e accordo col proprio intimo e profondo. Il rischio per
l'individuo di sprecare la propria vita diventando copia d’altro e dipendente
da altro, che, nel pensato e nell'esempio comune, nel già organizzato e strutturato,
nel cosiddetto "reale", è pronto a suggerire, a convalidare, a
sostenere, a dare le dritte, non è sottovalutato dalla parte profonda di se
stesso. Non è un caso se l’inconscio fa il guastafeste, se fa ad esempio
sentire senso di fragilità, di sfiducia, senso di vuoto e di inutilità. Simili
vissuti sono facilmente giudicati patologici, sbagliati, espressione di
qualcosa che non funziona come dovrebbe. In realtà l’inconscio turba il quieto
vivere per dare indicazioni impegnative quanto fondate e vere, non ci può
essere ad esempio fiducia in se stessi se di proprio non si è ancora compreso e
messo assieme nulla. L'inconscio può diventare la guida più affidabile e
sicura, se si impara a comprenderlo e a rispettarlo in ciò che è, se se ne
condivide lo spirito e l'intento, se, dando risposta appropriata al malessere
interiore, si decide, procurandosi l'aiuto valido e necessario, di cominciare
un serio lavoro su se stessi, di aprire una stagione di crescita e di
cambiamento. L'inconscio non difende il quieto vivere, perchè non ha a cuore il
persistere in ciò dentro cui si è solo pallida immagine e inautentica di se
stessi. L'inconscio è impegnativo, perchè non appoggia passività e rinuncia,
illusioni e comodo, ma è un potente alleato nell'impegno di far vivere se
stessi, di mettere al mondo con la propria vita qualcosa che abbia un contenuto
originale e un senso.
mercoledì 15 maggio 2024
Umanizzare il rapporto con se stessi, con la propria interiorità
Non sono l'ansia o altre espressioni di
sofferenza e di disagio interiori a fare danno a chi le vive, ma il modo di
trattarle, di non riconoscerle come voce di una parte intima di se stessi, che
in modo vivo coinvolge e che vuole dire, comunicare, che vuole portare vicino a
verità, rendere visibile qualcosa di fondamentale di se stessi. E’
comprensibile che ci si ritrovi disorientati e impreparati a confrontarsi con
esperienze interiori difficili, quando il malessere interiore prende carattere
insistito e più forte intensità. Si paga il prezzo di un mancato sviluppo di
capacità di rapporto con la propria vita interiore, tutti rivolti nel corso
della propria crescita a stabilire relazione e a sviluppare capacità di scambio
col mondo esterno, stabilendo una distanza crescente dal proprio mondo interno,
riservando a sé, al rapporto con se stessi, solo qualche commento ragionato sui
propri comportamenti, nulla di più. In ogni caso colpisce che, entrando
in rapporto con parte viva di sé, pur se in circostanze e con note d’esperienza
interiore così sofferte e insolitamente difficili, la si tratti come un meccanismo
rotto, estraniandola da sé, come un che di cui sbarazzarsi e da tenere a bada,
negando in partenza apertura e disponibilità di incontro umano al proprio
intimo. Ecco entrare in opera, invece di una ricerca di incontro con la propria
interiorità e di ascolto del proprio sentire, pur se doloroso e insolito, la
risposta volta a tenere a bada, a estromettere possibilmente ciò che sembra
solo una anomalia e un disturbo indesiderato di cui liberarsi quanto prima.
Pensata come sintomo, come meccanismo patologico da classificare e controllare,
l'esperienza interiore sofferta è resa sempre più anonima, inespressiva e
nemica, come un disturbo cui attribuire una dicitura, una etichetta
diagnostica, come se questo fosse un modo per capire. In realtà nulla in questo
modo si comprende di questa parte viva di se stessi, di ciò che vuole dire, si
rischia solo, con l’etichetta di una qualche sindrome o patologia, di applicarle
il marchio dell’indesiderato. E' questa del classificare e dell'incasellare in
quadri e in formule psicopatologiche, mossi fin dall'inizio dall'intento di
contrastare e di debellare l'esperienza interiore disagevole, una pessima
abitudine, ahimè assai diffusa, fatta propria sovente anche da chi vive in
prima persona l'esperienza della sofferenza interiore. Accade così che si parli
di sè, della propria esperienza interiore, come fosse la copia di una pagina di
un manuale di psichiatria, che non è certo il massimo, visto che la psichiatria
spesso e volentieri descrive la superficie, incasella ogni momento ed
espressione dell'umano e della sofferenza interiore come fossero quadri abnormi
tipici, facendo di ogni erba un fascio, rinunciando a capire, rivelando
sostanziale non volontà e incapacità di avvicinare e di comprendere
l'esperienza interiore. Che tristezza la rinuncia a cercare significato nella
propria esperienza, originale, unica, a avvicinare il proprio sentire come
traccia viva per capirsi, per conoscersi! Si usano, si applicano a se stessi
con disinvoltura espressioni orribili come fobia sociale, sigle del cavolo come
dap, doc e simili, che disumanizzazione! Sarebbe importantissimo e
profondamente umano avvicinarsi a sè, riconoscere in ogni esperienza interiore
un'espressione del proprio essere, un percorso, sì difficile e accidentato, ma
un percorso interiore, non una meccanica abnorme da aggiustare e da regolare,
pronti a impasticcarsi, a farsi ammaestrare da qualche
"psicoriparatore" su come rimettersi a norma. Che disastro questo
modo di maltrattare se stessi, il proprio sentire, le proprie esperienze
interiori, sì tormentate, dolorose, strane, imbarazzanti e persino
sconcertanti, ma non per questo assurde o malate, non per questo estranee e
lontane, non per questo insulse e prive di capacità di far vedere puntualmente
e sensibilmente aspetti e verità di se stessi! L'esperienza interiore, anche
quando sembra contorta e assurda, fallimentare, dà occasione viceversa se
ascoltata, se avvicinata non con spiegazioni o interpretazioni ragionate, ma
riflessivamente (come guardandosi allo specchio, guardando negli occhi il
proprio sentire) di riconoscere tracce vive di significato, di capire, di
cogliere nodi importanti. Momenti interiori aspri, ripetuti, logoranti, tormenti,
esperienze e prove che paiono "disastrose", non sono mai
casuali, incapaci di offrire lezione viva e vera di conoscenza di se stessi.
Non si tratta di spiegare, di trovare da qualche parte, possibilmente fuori di sé,
in accidenti o traumi subiti nel passato o in cattivi condizionamenti passati o
presenti o in manchevoli apporti, di cui si sarebbe stati vittime, in
responsabilità di questo o di quello, le presunte cause di un presunto guasto,
questo lavorio del capire è mal speso. Si tratta invece di imparare a intendere
il linguaggio del sentire, di raccogliere ciò che l'esperienza intima attuale e
viva, pur dolorosa, sa e vuole dire. Il primo proposito, che facilmente diventa
definitivo, di fronte al malessere interiore è assai spesso quello di
liberarsene, di superarlo o con le brevi di un rimedio farmacologico o di una
tecnica psicologia che produca un effetto simile, a volte combinati assieme, o
per una strada più lunga di una indagine conoscitiva sul passato che comunque
produca, casomai con l’idea di intervenire in modo più efficace andando alla
radice del problema o guasto, analogo effetto liberatorio, pensando che questa
del liberarsi e del mettere o rimettere in corsa un procedere ritenuto valido, promettente e normale,
non compromesso da ostacoli interiori, sia la miglior cosa da offrire a se
stessi. In realtà la soluzione invocata del liberarsi della difficile e
sofferta esperienza interiore, pensata, con l’appoggio di mentalità comune e di
tanti apporti di tecniche curative, come di ovvia massima utilità e beneficio
per se stessi, coincide col mandare al diavolo parte intima e viva di se
stessi, senza riconoscerla come tale e senza concederle di avere capacità di
dire e di dare qualcosa di utile, di intelligente. Prima di correre ai ripari,
auspicando di spazzare via tutto, bisognerebbe riflettere sulla grande utilità
e positività, per non mettersi da subito in guardia e in armi contro se stessi,
che avrebbe trarre frutto da ciò che si vive interiormente, non importa se
ingrato, se insolito, se tumultuoso, se doloroso. Purtroppo delle esperienze
interiori, di come si esprime l'interiorità, di quello che vale e sa dare la
parte intima e profonda del proprio essere c'è diffusa ignoranza. Dentro di noi
c'è una parte appunto, intima e profonda, che interviene nella nostra
esperienza, che capace di guardare in profondità dentro di noi e nelle nostre
scelte e modi di procedere, capace di non farsi abbagliare dalle apparenze, non
rinuncia a dire la propria, a stimolare la scoperta del vero, nel nostro
interesse, a coinvolgerci, parlando attraverso le nostre emozioni e tutto ciò
che muove nel nostro sentire. Nulla di ciò che sentiamo è casuale, leggere
tutto in termini di normalità o meno segnala solo l'incapacità di comprendere
significato e valore dell'esperienza interiore. E' una parte di noi stessi, quella
profonda, che detta tutto il nostro sentire, che non crede importante che tutto
scorra liscio, che considera viceversa prioritario conoscerci e prendere
coscienza, crescere in intelligenza vera e in autonomia di sguardo e di
pensiero, fondamento della nostra libertà di prendere in mano la nostra vita e
di interpretarla in modo felicemente fedele a noi stessi, che non rinuncia a
farlo, anche se, per conquistare consapevolezza, per crescere, ciò dovesse
implicare fatica, costi dolorosi. Accade che si sia coinvolti da questa nostra
parte profonda, che ci colora delle nostre emozioni, che ci spiazza, che ci
cala a volte con forza in esperienze interiori sì disagevoli, difficili, ma
eloquenti, significative, capaci di aprirci gli occhi, se sapute intendere, se
impariamo ovviamente a trattarle con rispetto e a leggerle come esperienze e
non come sintomi, come segni tipici di anormalità o di patologie. Nulla ci
succede per caso, tutto ciò che ci accade interiormente ci parla di noi, ci
porta verso di noi. Intendiamoci, non è facile e immediato trovare il senso
dove in genere si applica il giudizio pronto, dove prevale la squalifica, dove
il senso comune di fronte a malessere interiore pare concorde nel parlare
subito, come fosse cosa scontata e evidente, di anomalie, di risposte interiori
assurde e inspiegabili, di risposte difettose, di insufficienze, facendo subito
riferimento a ciò che invece sarebbe normale e positivo sentire, provare, dove
gli stessi "esperti" in non piccola parte sono pronti a confermare
simili giudizi, pur mettendo in campo termini tecnici più sofisticati. Per
entrare in rapporto e in dialogo con ciò che vissuto interiormente invece più
spesso si giudica e si cestina perchè si considera semplicemente anomalo,
è necessario imparare a fare ciò che non si è abituati a fare, a cercare il
filo interno di senso in ciò che si sente, è fondamentale scoprire che il
sentire, tutto il sentire in tutte le sue espressioni, dice e rivela, che
concordemente e intelligentemente parlano i sogni, che la parte cosiddetta
emotiva e irrazionale di se stessi non è affatto inaffidabile e avventata,
capricciosa o poco lucida. Poco lucido e accecante è viceversa il pregiudizio,
è il ragionare che mette ordine, ma che non comprende, che riallinea e combina
i significati preconcetti, ma che non si cura di vedere, di aprire davvero gli
occhi sull'intimo dell'esperienza vissuta. E' una vera rivoluzione quella che
conduce a conoscere non per selezione ed esclusione, ma per comprensione e per
ascolto di tutta l'esperienza interiore, di tutto il sentire proprio. Imparare
a andare incontro, a reggere la tensione dell'esperienza interiore disagevole,
che solitamente si tende a contrastare, a rifuggire e a scaricare, imparare a
rapportarsi fiduciosamente, a riflettere, cioè a cogliere l'intimo volto di ciò
che si sente, anzichè commentare e spiegare razionalmente, è ciò che
servirebbe. Non lo si sa fare, non si è cresciuti mai in questo, ci si è
abituati a assorbire idee, non a generarle, facendo leva sul proprio intimo,
sul proprio sentire come guida, ci si è addestrati a applicarsi ad altro per
conoscere, a prendere in prestito spiegazioni, a delegare a autorità esterna,
vuoi di libri e di autori, vuoi di concetti già predisposti e rimasticati, il
compito, la capacità di spiegare, di formare ed informare il proprio pensiero.
Se ripartire da sè è la grande occasione per accorgersi che si può accendere il
proprio sguardo fondandosi su esperienza intima e su possibilità di vedere con
i propri occhi, questa è un'occasione enorme che il profondo, che l'inconscio
ha ben presente, che con forza incoraggia o pretende, ma che la parte conscia
spesso non comprende e rifiuta in malo modo, senza nemmeno capire cosa sta
facendo con giudizi di disturbo e di anomalia applicati a propria intima esperienza,
senza capire le gravi implicazioni di questo modo di trattare
l'esperienza interiore. E' possibile aprire dove spesso con diagnosi e terapie
si chiude, è possibile umanizzare dove in non pochi casi la cura, pur sembrando
buona e soccorrevole, deruba di umanità per far vincere la normalizzazione, che
allontana da se stessi. E' necessario un lavoro nuovo, importante, serio,
graduale, con l'aiuto di chi lo sappia incoraggiare e indirizzare, di chi non
abbia in testa manuali e teorie preconfezionate, ma capacità di intendere
l'esperienza interiore come matrice di conoscenza, come occasione unica di
ritrovata sintonia con se stessi. Fondamentale è il desiderio di trovare
accordo e unità con se stessi, di conoscersi davvero in tutto ciò che si è, interiorità
compresa.
domenica 5 maggio 2024
La psicologia del rattoppo e del rilancio
Va a senso unico, non concepisce se non il già concepito, perciò non è in grado di capire cosa davvero avviene sulla scena interiore. Questa è la psicologia corrente, pronta, pur nelle sue diverse declinazioni, a intervenire in emergenza per fronteggiare malesseri e crisi interiori come psicologia del rattoppo e del rilancio. Quando si riconosce solo ciò che si è soliti e predisposti a intendere, per dare a se stessi, per il proprio quieto vivere, conferma nei propri giudizi e nel proprio modo di procedere, quando si assume come normale e indiscutibile ciò che, per idea e mentalità comune e prevalente, è considerato tale, quando, seguendo l'onda comune, si pensa se stessi, in realtà attori di un copione già scritto, come artefici e capaci, assumendo ruoli già ben disegnati, di dire in quei panni la propria, anche se dietro suggeritore e muovendosi su percorsi, tanto in apparenza affidabili e congeniali, quanto già segnati, ecco che la psicologia, che dà manforte alla credibilità della (finta) autorealizzazione messa in scena, è pronta, in caso di difficoltà, a intervenire per fare azione di rattoppo e rilancio. La si fa intervenire a fare rattoppo quando, mentre l'interiorità, con segnali, per nulla casuali e insignificanti, di malessere e di crisi, produce strappi, apre crepe affinché il vero emerga e tutto possa finalmente prendere una via nuova, quella della presa di coscienza, del recupero a sè del compito e della occasione di fondare su di sè la propria vita, si cerca invece, casomai facendosi aiutare in questo, di adoprarsi per trovare rimedio a presunti guasti, per ripristinare la corsa solita, a senso unico, per ridarle lancio e respiro. Non conduce alla presa di coscienza, la psicologia che la dà per naturale e la traveste, che non persegue lo scopo di aprire lo sguardo, di vedere cosa è realmente e cosa implica la modalità di procedere in cui ci si affida a altra guida, cercata fuori di sè, che già ha concepito e predisposto, casomai con ampia gamma di soluzioni e binari, ciò che si può e che va realizzato e perseguito, illudendo che quello messo in atto sia movimento autonomo e fondato su basi proprie ben comprese e evolute, cosa che solo un serio lavoro su se stessi potrebbe formare e costruire. Un lavoro necessario per fondare la propria autonomia su presa di visione propria, su scoperta di ciò che vale, di aspirazioni che si riconoscono originali, di cui si è portatori, lavoro che solo in unità col proprio profondo può svilupparsi senza inglobare significati e risposte e soluzioni preconcette e già pronte, prese da fuori. I binari, il copione già scritto esonerano però dal compiere questo lavoro, anzi lo rendono oltre che inutile inaffidabile, offrono e sanciscono come via maestra e necessaria per la propria realizzazione soluzioni, vie da percorrere già segnate, da seguire, da assecondare. Non serve allora cercare dentro di sè se non la predilezione, l'interesse per questo o per quell'altro già configurato che sta là fuori come opzione, come mezzo e come itinerario da seguire e traguardo da raggiungere per realizzare e per realizzarsi. Così assuefatti a cercare pronta soluzione, a prenderla da fuori, ben poco si è disponibili e interessati a fermarsi a lavorare con cura su di sè. Serve solo ai propri occhi afferrare le soluzioni già prefigurate e pronte, serve non perdere il treno, salire di volta in volta e tempestivamente sul treno che pare confacente a sè, per non rimanere a piedi, per darsi la persuasione e la rassicurazione di mettere la propria vita in corso d'opera e in corsa di riuscita. Capita nei sogni di essere in procinto di salire su un treno, a volte di correre il rischio di perderlo, di affannarsi per non perderlo, di non arrivare in tempo. L'inconscio ci mette l'intelligenza di cui dispone, non conforme e non al guinzaglio della psicologia del rattoppo e del rilancio, per segnalare l'impossibilità ormai di acciuffare quella falsa grande opportunità del treno in partenza, impossibilità da intendersi come condizione valida e necessaria. La perdita del treno in partenza non è sciagurata, ma viceversa è favorevole per riportare a sè la scoperta del cammino, dell'orientamento da trovare, della meta da scoprire, del modo di raggiungerla da affidare alla propria intelligenza, facendo conto sulla sensibilità dei propri piedi sul proprio terreno, sulla loro capacità di sostegno e di movimento e non sul farsi portare da veicolo a pronto uso, che, se offre agio di muoversi, ha però le sue regole e destinazioni segnate, i suoi andamenti cui aderire, cui affidarsi passivamente. Quando non si comprende quanta necessità c'è di aprire gli occhi sul modo di condursi e sugli autoinganni, sulle illusioni che alimenta e di cui si alimenta per sussistere, ecco che la visione di sè, che la psicologia del rattoppo e del rilancio di ciò che ormai è consacrato come regola e come unica prospettiva possibile, prende il sopravvento, risulta funzionale e quasi indispensabile per tenere su l'intero costrutto. La psicologia del rattoppo interviene per accomodare tutto, mettendo le mani su situazioni di crisi e di malessere interiore, fraintendendo e dirigendo tutto nella ricostituzione e nel rilancio, casomai con qualche apparente novità e aggiustamento, della solita storia e direzione. La psicologia del rattoppo cerca cause di presunti disturbi da rimuovere e da correggere, offre spiegazioni e soluzioni, salvando e riconfermando nella sostanza l'impianto solito, tentando di renderlo più scorrevole, se intralciato da dentro. Ma gli intralci, i segnali di crisi e di malessere, sono richiami e spunti di verifica, spinte e guide di ricerca di verità e di consapevolezza su se stessi, che la parte profonda mette in campo, che, se non intesi come tali e non ascoltati, se fatti invece oggetto e pretesto di rattoppo, portano solo a fraintendere e a chiudere la possibilità di conoscenza di se stessi e di profondo cambiamento, indispensabile per uscire da una condizione impropria, di dipendenza e di allineamento a altro, pur con l'illusione di decidere, di dire e di metterci del proprio. La psicologia del rattoppo e del rilancio, che sembra nella crisi e rispetto al malessere interiore dare risposta utile e benefica, di fatto vanifica la spinta che nelle intenzioni del profondo, che anima e solleva la crisi, vuole portare a verifiche attente, a aprire gli occhi sulla natura del proprio modo di procedere, a invertire la rotta, a passare da finti artefici e realizzatori della propria vita, a veri artefici, accettando non di consumare soluzioni pronte e di salire su treni da non perdere, ma di costruire con impegno e pazienza e gettare le fondamenta della propria autonomia, di trovare dentro di sè le guide e le risposte, di tesserle con cura, in unità con un'interiorità che, se da un lato apre crisi, dall'altro ha capacità di dare sostegno e di guidare la ricerca per diventare davvero protagonisti della propria vita. Quando l'intento del profondo è compreso e condiviso, accade che la psicologia, non del cieco aderire e della conferma del corso abituale, non del rattoppo e del rilancio del solito, ma la psicologia della riscoperta e del riscatto dell'umano vero e della sua realizzazione autentica riesca finalmente a prendere il sopravvento. L'inconscio questo vuole e di questo sa essere maestro e guida.
mercoledì 1 maggio 2024
La timidezza: difetto e limite da superare ?
La timidezza è vissuta spesso come un carico ingrato, come un intralcio, come una cattiva disposizione di natura, che ostacolerebbe, che metterebbe a rischio la possibilità di esprimersi al meglio e di cogliere pienamente le opportunità del vivere. Un fattore di svantaggio dunque in una lettura a senso unico, tant'è che l'auspicio più diffuso è di superarla, come se il superamento della timidezza segnasse un passaggio di crescita, una conquista. La timidezza è infatti spesso motivo di autosvalutazione, come se equivalesse a un non pieno e adeguato sviluppo, maturazione. C'è la convinzione che ci sia meno forza, una indesiderata insicurezza, e per questo meno ragione di autostima in chi porta dentro se stesso questa impronta del sentire. In realtà, dove non ci si lasci dettare legge e chiudere lo sguardo da una concezione che premia come qualità ideali estroversione, sicurezza e disinvoltura, facilità di contatto e scioltezza di parola, simpatia e solarità e altra pappa simile (pronta da mandare giù, senza necessità di capire), concezione che implicitamente e che anche manifestamente svaluta e boccia come inadeguate tutte le espressioni diverse, come la timidezza, che non vanno in quella direzione ritenuta ideale, concezione tutta a rimorchio dei luoghi comuni, dei gusti e delle stime di valore più diffuse e prevalenti, che se fanno statistica non fanno per questo scienza e verità, si può riconoscere nel proprio sentire con impronta di timidezza ben altro da ciò che dettano i pregiudizi comuni e personali. La timidezza ha l'intento e la capacità di segnalare, il segnale arriva da dentro se stessi forte e chiaro, che c'è soggezione al giudizio e alla valutazione dell'autorità esterna, allo sguardo altrui, che c'è dipendenza, l'inclinazione cioè a farsi dire ciò che vale e che va manifestato di sè, a assecondarlo per portare a sè conferma e sostegno di approvazione, a rincorrere come validi i modelli esterni, a temere di incorrere nella cattiva resa e figura. La timidezza vuole dunque dare indicazione calda e cocente, stimolo forte e insistito a tenere conto di questa presa e vincolo dipendente, di questa consegna di se stessi così forte all'autorità esterna, per prenderne visione, per lavorarci sopra. Il vissuto di timidezza dà segnali mirati, sapientemente mette all'ordine del giorno, indirizza la ricerca su qualcosa di centrale, su un nodo decisivo. Nello stesso tempo il vissuto di timidezza rende l'esperienza del timore reverenziale, del piegarsi a quell'autorità del giudizio e dello sguardo altrui come sofferta, dolorosa, sempre incalzante in presenza di altri. Lo sottolinea mostrando quanto è forte la necessità di proteggersi, di darsi riparo. Vale la pena di aprire qui una riflessione sul rapporto col sentire, riflessione che più volte è rilanciata nei miei scritti. Nella attenta riscoperta di ciò che la timidezza sa dire e suggerire come base e terreno vivo di scoperta, di presa di coscienza, emerge il valore del rapporto col proprio sentire in tutte le sue espressioni naturali, spontanee, anche le meno gradite. Il sentire è risorsa essenziale da non trascurare e da valorizzare, sentire che invece, anzichè essere attentamente e fedelmente ascoltato, abitualmente, soprattutto se ha parvenza di non essere conforme a ciò che è più atteso e gradito, è tirato per i capelli, giudicato sbrigativamente, tenuto sotto custodia e controllo, reso oggetto di commento, di manipolazioni e di pretese. Il nostro sentire è la nostra interiorità che intelligentemente ci interroga, ci dice, non comprendere questo significa ridurre in modo netto, compromettere le nostre possibilità di presa di visione e di pensiero, rimanendo in balia della iniziativa del pensiero razionale, che, da solo e dissociato dal sentire, offre solo illusorie spiegazioni valide e chiarimenti, in realtà già incanalati nel pensato consueto, nel preso in prestito da fuori, da idee comuni e prevalenti, quelle che appunto, come dicevo prima, fanno rapida giustizia sommaria della timidezza, che, trattata come ostacolo e insufficienza, è radicalmente travisata e bistrattata, quando in verità ha ben altro valore e capacità di dire. Ma torniamo a guardare con attenzione e senza preconcetti dentro l'esperienza del sentire timido, per farci mostrare cosa rivela. E' un sentire, quello della timidezza, cui si accompagna spesso senso di inadeguatezza, di infelice realizzazione, che rischia di essere predominante, anche se a ben vedere non è univoco ciò che dice l'esperienza viva della timidezza. Se infatti l'aspirazione a non essere come naturalmente e spontaneamente si è e si sente nel proprio della timidezza, pare di indiscutibile validità, vedendo in altri, a differenza e paragone con se stessi, i campioni da imitare, invidiati quando appaiono liberi da freni e da ritrosie, quando sciolti e disinvolti, con l'apparenza di chi sa vivere e prendersi il meglio delle occasioni di ben figurare, emergere e afferrare gioie e soddisfazioni, nello stesso tempo assieme a una simile aspirazione c'è la sensazione, adottando quel metro e premendo su di sè per ottenere quelle stesse espressioni e prestazioni, di imporre a se stessi un che di coercitivo, che obbliga a andare contro il corso e la corrente naturale, a assumere altro, a dover indossare altri panni, a camuffarsi, a nascondere l'originale, a averne vergogna oltre che ripudio. La timidezza, assieme a soggezione e a timore dell'altrui giudizio, preso a regola e a arbitro della propria vita, è forza di legame con se stessi, anche se in contemporanea a marcata spinta a dissociarsi, a prendere le distanze da sè, a assumere altro come nuova e diversa uniforme da indossare, addirittura come diverso stampo del proprio essere, cui aderire e dentro cui riplasmarsi fino nell'intimo. La spinta a inseguire e a farsi dettare come essere e nello stesso tempo la sensazione di forzare, di plagiare se stessi, la percezione che c'è un vincolo di natura che, per quanto lo si voglia superare, non mostra certo di cedere e svanire facilmente, è la consegna della timidezza. Insomma nella timidezza c'è il segnale della soggezione dipendente, della spinta a dare prova e a superarsi per assecondare le pretese dell'autorità esterna per averne in cambio convalida e per far proprie le sue promesse e contemporaneamente c'è la percezione acuta del suo essere una pretesa in contrasto e in strappo da sè. Anche se oscurate e stravolte le ragioni del vincolo a se stessi, perchè la chiave di lettura è quella che, in adesione al pensato più comune, vede deficit e mancanza di espressioni ritenute valide e garanti del proprio buon rendimento, del proprio saper vivere e del possesso di capacità e qualità adeguate, in realtà, a starci attenti nelle mosse del sentire timido c'è tutt'altro che insipienza, inettitudine e incapacità. Se la timidezza ad esempio non consente pronta espressione di parola, tanto cercata pur di riuscire a dire, per paura di apparire altrimenti vuoti, è perchè la parola, se vuole essere portatrice di senso, deve fondarsi su qualcosa che intimamente avvicinato e compreso (questo ha i suoi tempi e i suoi perchè, non può avvenire a comando), consente di dire, può dare motivo e persuasione di dire qualcosa che ha un senso e che ha senso comunicare, per non parlare a vanvera o inventare discorsi modellando il dire in accordo, per i contenuti e per la forma, con ciò che l'interlocutore può apprezzare. La timidezza non consente espansività e quant'altro è considerato espressione di buona disposizione d'animo, di cordialità, di sentimenti o presunti tali ben impostati e modellati su tutto ciò che è considerato valido, gradito e ottimale, perchè i sentimenti non si inventano, non si recitano, non si vendono e non si mercanteggiano, devono pur avere una radice vera, un fondamento e essere legati a qualcosa che è maturato dentro e in concordanza piena con se stessi, che ha ragion d'essere valida e sincera. La timidezza fa valere le ragioni dell'autentico, di ciò che ha fondamento vero, che non è un artefatto. Ho scritto di recente sull'argomento dell'originale e dell'artefatto. La timidezza è terreno di incontro, di scontro tra le ragioni dell'autentico, di ciò che originalmente, traendo linfa e origine dentro sè, vuole formarsi e vivere e le ragioni dell'artefatto. Una cosa è spendersi per dare buona prova, per simulare ciò che piace, una cosa è apparecchiare, mettere in tavola, riprodurre ciò che è concepito come buono e di valore e degno di buona considerazione, altra cosa è cercare dentro sè le ragioni, le basi, le radici di espressioni umane non messe su artificialmente, ma cariche di vero, di autentico, di consapevole. Tutt'altro che un'espressione deficitaria, c'è un principio di salute e di saggezza nel corpo vivo della timidezza, anche se mescolata e in tensione con la pretesa di dare buona prova, che cerca di spargere diffidenza e discredito su ciò che nella timidezza segna un vincolo tutt'altro che insano e sgangherato con le ragioni dell'autentico e del rispetto per ciò che è intimo, che intimamente si fa valere. Se si impara a rispettare per ciò che racchiude e a valorizzare la timidezza, che non è certo lì per caso, che non si fa valere per caso, si può trovare dentro questa esperienza interiore così complessa e ricca, che rischia di essere liquidata solo come un difetto e una palla al piede, tanto su cui lavorare per conoscersi e per conoscere, per comprendere questioni di natura rilevante inerenti il modo di intendere la propria crescita e la realizzazione della propria vita. Una cosa è spingere se stessi verso la prestazione e la corsa regolata da altro da sè senza discernimento, per averne premio e convalida, altra cosa è riservare a sè il compito e la facoltà di comprendere e di assecondare lo sviluppo di ciò che vale, che richiede anche frenarsi, la timidezza come abbiamo visto frena, trattiene non per caso, ma con lo scopo intelligente di ascoltarsi di darsi occasione di scoperta, per cercare e trovare con base e fondamento di accordo con se stessi chiarimenti e risposte necessarie per procedere con autonoma capacità di vedere, di comprendere e di guidarsi. Una cosa è farsi portare e farsi dire (scorciatoia, soluzione facile e immediata da afferrare e consumare), una cosa è affidarsi e ossequiare l'autorità esterna dei giudizi e delle regole condivise, per indirizzare non solo le scelte, il destino, le mete da raggiungere, ma persino per farsi regolare e dettare le espressioni di sè più intime inerenti sentire e sentimenti, per ricevere da questa autorità apprezzamento e conferma, altra cosa, ben altra cosa, è mettere al centro come condizione imprescindibile il vincolo a se stessi come natura da rispettare, come fondamento vivo e essenziale per trovare da sè autonomamente, per cercare dentro di sè le proprie risposte e ragioni d'esistenza comunque non prescindendo, non rinnegando, ma viceversa valorizzando il proprio sentire nelle sue declinazioni vere, sentire che, come la timidezza, con intelligenza dice, saggiamente coinvolge, indirizza lo sguardo e conduce a capire. Consegnarsi ad altro per farsi dettare e riconoscere presunta maturità e capacità di vivere e di crescere o tenere stretta a sè la facoltà e la capacità di capire e di capirsi, di comprendere da sè, di riconoscere con i propri occhi, fedelmente a se stessi, in unità col proprio intimo vero, cosa ha senso e valore, cosa, in consonanza con se stessi e coerentemente con le proprie originali risorse e qualità, vuole vivere, tradursi e realizzarsi, questa è la posta in gioco. La timidezza è ben altro che un difetto di funzionamento.
L'ansia: l'allarme per ritrovarti
Alle prese con un'esperienza interiore sempre
più ardua e sofferta, con un'ansietà che non ti dà tregua, che non ti permette
di procedere se non con questo peso interno, sei tentato prima di tutto di
costruire un argine, pensandoti come assediato da una forza nemica e deleteria,
di rincorrere da qualche parte un rimedio. Forte è la spinta a cercare opinioni
e risposte fuori, casomai per scoprire per tuo sollievo e rassicurazione che
anche altri ha provato o sperimenta qualcosa di simile, augurandoti che
qualcuno o qualcosa possa darti una via e un mezzo di uscita (di uscita e non
di entrata in ciò che di intimo stai vivendo, che richiede non capacità di fuga,
ma sviluppo di capacità di incontro e di ascolto). Raccogliere opinioni e
suggerimenti di altri può non essere una gran soluzione, ognuno nel trattare la
tua esperienza ci metterebbe del proprio di preconcetti, di modi pari pari a
quelli che è abituato a impiegare nel trattare la propria esperienza, tipo
cercare spiegazioni di cause esterne, suggerire modi per provare a metterla sotto
controllo, tipo rifarsi e delegare subito la comprensione dei propri stati
d'animo, delle ardue esperienze vissute alle teorie e alle tecniche sostenute
dall’esperto di turno o, già prima di ascoltare e di provare a capirsi, avere
cura di appiccicare sull’esperienza sofferta un’etichetta diagnostica, tanto
arbitraria quando si avvicina un'esperienza interiore, complessa e unica,
quanto sterile, perchè etichettare non significa conoscere. Decisamente più
utile e appropriato ai tuoi interessi e alle tue necessità cominciare a
riflettere, concentrando l'attenzione sul tuo singolare, sullo specifico della
tua esperienza, su ciò che ti appartiene e su cui puoi meglio lavorare e
comprendere. Se oggi sei entrato in questa spirale dell'allarme per le tue
condizioni di salute, se mille dubbi si aprono in te sul tuo reale stato, in
tutto questo un senso e uno scopo c'è di certo. Se ti sei ignorato sinora, se
nel tuo procedere solito hai cercato tutto fuori di te, sia le opportunità che
le strade da seguire, diventando estraneo o semplice ospite abitudinario e
disattento in casa tua, per casa intendo il tuo spazio intimo, se di te più
profondamente non frequenti e non conosci nulla, se non rifletti e ignori il
vero stato della tua vita, del tuo modo di condurla, se da una parte fai,
agisci, ragioni e dall'altra senti e non ti curi di entrare in sintonia e di
ascoltare e comprendere ciò che senti, se tiri avanti nella tua modalità di
vita senza apertura e confronto con te stesso, non credi che, seppur nella
forma dell'allarme e del temere le più disparate incognite e sorprese sul tuo
stato, qualcosa ti stia costringendo a occuparti di te, che ti stia segnalando
con forza e con insistenza la tua lontananza da te stesso, la mancanza da parte
tua di attenzione per la conoscenza, non superficiale e distratta, ma vera e
approfondita, di te stesso, di cura del rapporto con te stesso? Nulla sulla
scena interiore accade mai per caso e senza un senso, senza uno scopo. Se la
tua risposta all'assillo e al disagio interiore che insistono dentro di te è di
superarli, di spiegarli come conseguenza di qualche causa di sovraccarico e di
oppressione esterna, come segno di qualche tuo deficit o ritardo di prestazione
e di capacità di adattamento e di resa, il fraintendimento di questa tua intima
preziosa voce interiore potrebbe farti più che un danno. Ciò che senti ti dice
l'insostenibilità di un modo di procedere in cui sei persuaso che quella
che ti è abituale sia la strada da seguire e nello stesso tempo sei ignaro di
cosa sia ciò che ti ci lega e soprattutto senza verifica se davvero tenga conto
di te e di ciò che di autentico ti appartiene. Il richiamo a provvedere in
termini di avvicinamento a te, di verifica attenta, di ascolto del tuo intimo,
di scoperte essenziali di cui manchi, non per rincorrere i traguardi già
segnati, ma per capire qual'è il vero traguardo che concordemente con tutto te
stesso potresti scoprire e riconoscere senza farti portare da altro, oggi ti
vede per nulla incline a recepirlo, persuaso come sei che tutto ormai ti è
chiaro e scontato come marcia da seguire, come legami e altro di conosciuto e
solito, che prima di tutto sei preoccupato di salvaguardare. Sei alle
prese con un confronto, che non riconosci come tale, della cui presenza non
ti capaciti, tra parte di te profonda che vuole richiamarti a cercare il vero e
a trovare unità di intesa con tutto te stesso e te che vuoi spingere avanti le
cose nel modo solito senza dubbi e senza intralci. Il dubbio e il senso di incerto
e di pericolo la tua ansia te lo agita dentro, ma tu ne dai lettura come fosse
una anomalia da tenere a bada, un disturbo da sanare e da togliere di mezzo.
Cauto e saggio è il tuo profondo a esercitare il forte richiamo a preoccuparti
di te e a procurarti ciò di cui manchi, incauto è fraintenderne la voce e
bistrattarla.