martedì 28 maggio 2024

La cura e la meccanica del preconcetto

Chi in presenza di malessere interiore auspica prima di tutto l'eliminazione del malessere, di ciò che considera un danno e una alterazione, vede con favore qualsiasi intervento curativo, sia esso farmacologico o psicologico, che dichiari di voler combattere il "disturbo", di metterlo a tacere o di rimpiazzare risposte interiori considerate sfavorevoli e nocive, etichettate in gergo come disfunzionali, con altre ritenute utili e normali. Il presupposto è che tutto interiormente debba funzionare in modo "regolare" e secondo linee di svolgimento definite senza ombra di dubbio come normali e sane. La vita interiore è considerata null'altro che un accessorio, un'appendice subalterna rispetto alla testa del pensare e del decidere razionali, come un insieme di reazioni, di risposte emotive e di stati d'animo che dovrebbe declinarsi in una forma che sia concorde con il modo di pensare e di intendere, con i propositi e le attese della testa e comunque non tale da procurare intralci o aggravi. Che tutto debba girare a discrezione e secondo i giudizi della testa, senza mettere in mezzo difficoltà e ostacoli al procedere, che si considera normale, valido e vantaggioso, trova conforto da un lato nella idea che “così pensano e fan tutti" e dall'altro nel vasto apparato delle cure e delle teorie, che fanno loro da supporto, che dicono di offrire rimedio, soluzione a ciò che implicitamente e anche esplicitamente considerano una sofferenza anomala e dannosa, un malessere interiore da mettere a tacere. Sembra evidente a chi ne fa esperienza che in una condizione di disagio e di malessere interiore la miglior cosa sia cercare di toglierlo di mezzo per non compromettere il corso abituale e per rimettere in piedi un modo di procedere che non debba subire ostacoli. L’idea che l’esperienza interiore sofferta e disagevole sia un danno, che lo “stare bene” richieda liberarsene, sembra talmente ovvia da non richiedere ulteriori ricerche e approfondimenti. Dentro questa direttrice di marcia, quando ci si trovi in presenza di difficoltà e di disagi interiori, rispetto a cui in partenza non si desidera altro che di porre loro fine, piuttosto che porsi domande, sottoporre a verifica e mettere in discussione il proprio modo d’essere, l’impianto del proprio procedere abituale, quel che, andando un po' al di là dell’idea che sia in gioco una pura patologia da combattere con farmaci e similari, ragionandoci sopra si è inclini a pensare è che ci siano problemi di cattivo funzionamento,  pecche, mali modi di rapportarsi all'esperienza, che non gioverebbero al corretto e fisiologico (ritenuto tale)  procedere, che anzi creerebbero inciampi nel cammino, che malamente procurerebbero frustrazione e sfiducia, eccessi di paura, fuga o debole supporto alla volontà e alla capacità di sostenere e di persistere negli impegni presi, qualche malo modo di affrontarli che li appesantirebbe, che produrrebbe insoddisfazione e danno, che anziché giovare infilerebbe dentro trappole, incastri dolorosi e sciagurati. A questo riguardo si pensa in genere che cause esterne, che cattive influenze subite nel passato, che insegnamenti sbagliati, che affetti negati, che contributi tossici di figure significative, che pressioni indebite e nocive, che carenze dell'ambiente, che traumi patiti possano aver compromesso e guastato il più fisiologico e sano sviluppo, che ancora stiano disturbando e recando danno. Anche quando non si intenda limitarsi alla soppressione del sintomo attraverso il ricorso a psicofarmaci o a interventi correttivi sul comportamento, quando si ritenga valido, con l’intento di andare alla radice del malessere, intervenire nella ricerca delle cosiddette cause e si fa propria l'idea di indagare, casomai di essere aiutati a farlo, lo scopo è sempre, andandone a scovare la causa, di liberarsi dalle insane conseguenze di ciò che avrebbe fatto danno, dagli effetti che tuttora ci si porterebbe dentro, per rimettere in sesto e in corsa un modo di procedere, casomai con qualche correttivo e aggiustamento, nella sostanza dato per scontato come valido e a sè favorevole. Un lavorio che vede comunque la parte interiore oggetto di spiegazioni, di interpretazioni, più che soggetto che dice, che rivela, che conduce alla conoscenza. Un lavorio che vorrebbe liberare da incastri e da invischiamenti, da trappole interiori e da circuiti dannosi della mente, per rimettersi in piedi, casomai con la promessa di avere più libertà e più capacità di esprimere se stessi, di accedere a un modo più sano di vivere e più corrispondente ai propri interessi e aspirazioni. L'officina di diagnosi e riparazione della psiche sembra avere molte frecce al proprio arco, offrendo un ventaglio di approcci e di tecniche psicoterapeutiche, dai nomi accattivanti e suggestivi, in una situazione via via in fermento di nuove proposte, in cui di volta in volta spunta qualche nuova teoria e tecnica pronta a farsi vanto di essere la migliore e a più a pronto uso nel saper intervenire, spiegare, risolvere. Tutto l'impianto teorico e pratico della diagnosi e cura del malessere interiore, che mostra così varie offerte e che punta sulla risoluzione del malessere, si regge su preconcetti. Prima di tutto, come immagine di se stessi, c'è, data per scontata e preconcetta, la visione gerarchico piramidale che vede in posizione inferiore e subalterna la componente interiore rispetto a quella conscia cui è riconosciuta la funzione direttiva, il monopolio dell’esercizio del pensiero, la prerogativa del possesso della capacità di condurre, nelle valutazioni e nelle scelte, con affidabilità di guida. In secondo luogo, ma non seconda per rilevanza, c'è l'idea preconcetta che i modi e gli strumenti della crescita e della realizzazione personale siano già concepiti e ben presenti e tracciati nella prassi comune e nel sistema organizzato e che per ognuno si tratti di favorirne il valido e regolare impiego e svolgimento. Cosa sia e quanto valga l'interiorità pare già definito, pare scontato che non possa svolgere funzione guida, che non abbia capacità di generare pensiero e di dare contributo sostanziale alla ricerca di verità e di orientamento e nutrimento della crescita personale, che questo compito ricada sulla parte in posizione di testa. Che non ci sia necessità per l’individuo di costruire da sè ciò che serve per la propria autentica realizzazione, di portare a maturazione la conoscenza approfondita di se stesso,  la scoperta attenta e fondata, per non aderire al già pensato comune o d’autore, dei significati, lavorando su ciò che la sua esperienza gli rivela e gli rende possibile conoscere davvero, di dotarsi di scoperte proprie per orientarsi da sé e per trovare ragioni e scopi della propria vita, è persuasione diffusa e consolidata e diventa facilmente per ognuno un solido preconcetto. Nel modo di pensare le proprie necessità e di procedere cui ci si affida, non serve, non è richiesto un simile lavoro, semmai è richiesta a se stessi capacità di intervento e di dare prova su un terreno già segnato, dove i supporti e le guide, pure la lettura e la definizione dei significati sono già presenti, dove è più accreditato il contributo esterno per la propria formazione e crescita, che quello interno, cui, per preconcetto, non può essere riconosciuta una simile capacità, che non può avere una simile pretesa. L’idea è che quello che si può trarre da sè sia non più che l’indicazione di preferenze e inclinazioni, in favore di scelte più mirate dentro un ventaglio di opzioni, di soluzioni consolidate, che invece la propria crescita, lo sviluppo delle proprie conoscenze ha necessità di avvalersi di supporti e di apporti esterni, che non è pensabile che da sé si possa trarre di più e di sostanziale. Se, per fare un esempio che chiarisca, la lettura di libri, l'apprendimento di teorie, la fruizione di vari apporti culturali hanno credito come luogo e supporto formativo  per  l'accrescimento di idee, di pensiero valido e credibile, al lavoro su se stessi, a ciò che autonomamente può nascere e crescere attingendo alla propria fonte, per preconcetto, è data una fiducia assai limitata sia per la consistenza di ciò che può produrre sia per la sua attendibilità. E' vero che se la produzione autonoma di pensiero è affidata all'iniziativa isolata del pensiero conscio razionale presto questa si chiuderebbe nel cerchio del già detto e concepito. Soltanto dando spazio alle capacità del pensiero che origina dal profondo, soltanto attingendo a questa fonte, si può scoprire di che cosa la creazione autonoma è capace. Se si apre un confronto senza preconcetti e prevenzione, senza partito preso a riaffermare ciò che non si vuole mettere in dubbio, senza predisposizione a far dire ciò che si presuppone a ciò che si incontra interiormente, il quadro e l’orizzonte della conoscenza e della scoperta di se stessi, il potenziale di ciò che può scaturire dal dialogo interiore, cambia radicalmente. E' possibile allora scoprire, come accade dentro un valido percorso analitico, che la vita interiore, che ciò che si svolge al suo interno, è espressione e fonte di un'intelligenza, che scaturisce dal profondo, ben mirata a trovare il vero e non a ridurre il pensiero, come capita fatalmente lasciandone il monopolio al pensiero razionale, alla ripetizione e al ricombinazione di idee prese in prestito, di schemi assimilati e riprodotti, di attribuzioni di significato e di risposte già formate. L’intelligenza di cui è portatore e anima il profondo è quella di vedere con i propri occhi, di guardare riflessivamente dentro la propria esperienza, di riportare a sé la funzione di comprensione e di convalida e non di riprodurre e rimasticare, pur con qualche illusione di originalità, ciò che è già concepito e assodato, facendosi dare da fuori supporto e conferma. Non tutto sul terreno della conoscenza è già stato detto, assodato e garantito da autorevoli fonti, residuando per se stessi solo la possibilità di dire la propria, ma dentro un quadro già definito e dato. Viceversa ciò che viene a dire il profondo, sia nel sentire e nei vissuti che anima sia e in modo mirabile nei sogni, è che tutto è da farsi, se si vuole uscire dal torpore dell'inconsapevolezza e se si vuole mettere assieme una visione propria, una conoscenza approfondita e fondata di se stessi, per nulla anticipata e fotocopia di ciò che la cultura e il sapere di “chi sa” ha compreso e concepito, una scoperta di significati validi, verificabili da sé, tratti da terreno vivo d’esperienza. Sono scoperte possibili e inattese, di respiro e forza ben diverse delle costruzioni del pensiero razionale scisso e ripiegato su di sè, capaci di rendere davvero autonomi, coinvolti e appassionati finalmente a sviluppare visione e a aprire percorsi propri, svincolati dalla dipendenza da altro e liberi dalla necessità, per ottenere soddisfazione, di correre dietro a altro, per raccogliere la conferma e la gratificazione del farsi riconoscere bravi e capaci, liberi perché in possesso di una vera autonomia di scelta, di progetto, di realizzazione. Il malessere interiore, quando si apra un attento, rispettoso e fedele ascolto dell'interiorità in ciò che propone e dice dentro e attraverso vissuti non certo facili, ma non per questo privi di senso, rivela di non essere il segno di un guasto, della alterazione e compromissione di  una normale funzionalità, intaccata da qualche causa da scovare nel passato, nell'ambiente o in cattive modalità di pensiero e di sentire, ma viceversa è il segno di una forte iniziativa interiore volta a mettere al primo posto la ricerca del vero. Nel malessere interiore c’è il forte richiamo di un profondo che spinge per costruire ciò che non c'è, mettendo in crisi, non dando manforte a un procedere che cerca solo continuità di esercizio, che presuppone che non ci sia necessità d’altro che di proseguire. Nel vivo delle espressioni di malessere l’inconscio, oltre che mettere in primo piano all’attenzione il dentro del sentire rispetto al fuori dell’agire e del fare, dà tracce e segnali validissimi per vedere prima di tutto la verità della propria condizione e del proprio modo di procedere in ciò che è realmente e di cui manca, che visto da dentro e non con la lente deformante del preconcetto si rivela insostenibile, inautentico e affatto affidabile e favorevole. Così, inautentico e per nulla corrispondente e all’altezza di ciò che da sé potrebbe nascere, il proprio profondo lo ha riconosciuto e cerca di renderlo riconoscibile, svelandone i modi e la natura vera, un modo di procedere affidato e plasmato più su altro che ha dettato e che ancora suggerisce modi e contenuti, altro già concepito e di comune uso che conduce, anche se offrendo l'illusione di essere artefici dei propri pensieri e delle proprie scelte, che in consonanza con  il potenziale e l’originale di se stessi, più frutto di intesa e di connessione con l’esterno che col proprio intimo, tenuto ancora lontano, non valorizzato,  incompreso e a priori sottovalutato. Lo stravolgimento che consegue all’adesione acritica e tenace  a un simile modo di procedere e di pensarsi, l'incapacità, proseguendo inconsapevoli, di riconoscere la verità della propria condizione, la mancanza di un lavoro di ricerca su di sé e di maturazione di scoperte proprie, non riconosciute come necessarie da sviluppare e coltivare, visto che tutto pare già definito e in normale compimento, per dotarsi dei punti di riferimento, delle conoscenze di sé, della conquista dei punti chiave di comprensione di ciò che è importante, che ha valore  per se stessi per poter dirigere autonomamente e consapevolmente e in pieno accordo con se stessi le proprie scelte, per sfuggire al rischio, altrimenti fatale, di farsi portare, affidandosi a altre guide che non siano quella interiore, su percorsi e con traguardi non corrispondenti a se stessi, confermati da fuori, ma non da dentro se stessi, tutto questo, che non è certamente poco e di poco conto, fa sì che il profondo intervenga per sollevare il problema. L’inconscio aprendo la crisi, animando e agitando il quadro interiore, dando all’interno sempre segnali appropriati e ben mirati, mai agendo in modo convulso e confuso come si è portati a giudicare confrontandosi con il malessere interiore, vuole richiamare l'attenzione su ciò che si sta facendo di stessi, per sollecitare una attenta verifica e un serio lavoro di ricerca, prioritari su tutto. Pensare il malessere come guasto e segno della compromissione di un regolare e efficace procedere, che fa desiderare la messa in opera di interventi di cura nel segno del ripristino e correzione, senza verifica attenta e lucida messa in luce dell'intero impianto del proprio procedere, conduce solo a mantenere la distanza e l'incomprensione di ciò che il proprio intimo vuole dire e spingere a cercare e a costruire per il proprio bene. Uscire dall'inconsapevolezza, prendere visione di un procedere passivo dipendente dove altro segna i passi da seguire e dà le chiavi di lettura, l'illusione lì dentro di dire e di portare a compimento qualcosa di proprio, pur senza essersi mai avvicinati a sè e alla conoscenza di se stessi e di quanto di proprio vorrebbe e potrebbe vivere e realizzarsi, tutto questo è nello sguardo del profondo, tutto questo sta all'origine dell'iniziativa messa in atto dall'inconscio, che attraverso il malessere interiore vuole aprire una fase importante di riflessione e di ricerca. Se si sta nel preconcetto, nella definizione aprioristica della propria realtà come semplicemente normale e di conseguenza di ciò che va inteso come il proprio bene, fatto coincidere inequivocabilmente col fare salvo il procedere solito dall'insidia del malessere, che tutt'altro è che un segno di guasto e di anomalia, ecco che nulla del significato vero della crisi si rischia di comprendere. Ci si riserva solo l'intento di scrollarsi di dosso il malessere e semmai di fare qualche operazione di restauro e di rinnovo, ma sempre nel solco di un procedere e di una ignoranza di se stessi, mai prese sul serio come questioni da affrontare, da indagare, su cui riflettere e lavorare. Nulla del significato della crisi e del malessere interiore si finisce per capire, ci si tiene all'oscuro di scoperte importanti e decisive, che sono l’intento del profondo, che proprio a questo scopo ha aperto la crisi e mosso il malessere interiore, conquiste capaci di restituire a sè la guida della propria vita, la sua realizzazione autentica. Non ci si dà l'opportunità, procurandosi l'aiuto valido a questo scopo, di imparare a intendere e a capire fedelmente ciò che la propria interiorità vuole dire e favorire, non se ne scopre l'affidabilità anche nelle sue espressioni più sofferte e difficili, non si recupera un rapporto di unità piena col proprio intimo e profondo, ci si rende viceversa ancora estranei alla propria vita interiore, persino ostili a questa parte così importante di se stessi, si fraintende e si squalifica il suo apporto, che, se compreso senza preconcetto, se valorizzato e fatto proprio, tanto di favorevole saprebbe dare per una vera e profonda rinascita. La rinascita da se stessi, in unità col proprio autentico, col proprio intimo profondo. Prendersi cura di sé, decidere come farlo, mette in gioco fatalmente la propria intelligenza, oltre che la propria responsabilità verso se stessi. Se si impiega e si dà seguito alla meccanica del preconcetto si rischia di chiudere a se stessi, di permanere nella lontananza da sè, di perseguire un bene presunto, all’insegna del tentativo di liquidare e comunque di superare e passare oltre il malessere interiore, che se pare ovvio, secondo il preconcetto proprio e comune, essere un obiettivo benefico e vantaggioso, si fonda però sul mantenimento di una condizione di spaccatura del proprio essere, di sostanziale incomprensione e disaccordo col proprio intimo, su cui si va a agire, vuoi con l’intento di metterlo a tacere o di correggerne le espressioni, vuoi con la pretesa di spiegare e con l’illusione di capire, senza dargli in realtà spazio di parola e ascolto, intimo che comunque di questo mancato incontro e ascolto non cesserà di dare segno. E’ un presunto bene che implica il mancato sviluppo di una conoscenza fondata e vera di se stessi, di una capacità di realizzazione autenticamente propria, che sono ragione, scopo e intento della crisi e del malessere interiore, che soltanto un rapporto aperto e dialogico con la propria interiorità, che soltanto attingendo al contributo e affidandosi alla guida del proprio profondo si potrebbe realizzare. Sono conseguenze tutt’altro che irrilevanti. Vale dunque la pena in situazioni di malessere e di crisi porsi domande, cercare di capire con apertura di sguardo, senza preconcetti, senza dare nulla per scontato, senza delega a opinioni altrui, neppure a quelle dei cosiddetti esperti, cosa stia realmente accadendo dentro se stessi, vale la pena cominciare a ascoltarsi per comprendere quale risposta, quale modo di prendersi cura di sé offrire a se stessi, quale scopo perseguire.

domenica 19 maggio 2024

La riscoperta di ciò che siamo

La lontananza da se stessi, l'estraneità alla propria vita interiore, relegata in uno spazio marginale, trattata come appendice affatto essenziale e degna di considerazione, vigilata e temuta quando non corrispondente alle proprie istanze di riuscita e di quieto vivere, disegnano il quadro triste di una condizione umana, immiserita del suo potenziale e della sua risorsa più valida, quella interiore e profonda. E' una condizione, non certo rara, questa in cui l'individuo è fondamentalmente affidato e appiattito sul binomio volontà e ragione, che, senza vincolo e rapporto col sentire e con la vicenda interiore, pretende di strafare e di tenere il resto in soggezione. E’ una condizione che, malgrado le velleità e le illusioni, comporta rimanere più al di qua e al di sotto che al livello di una realizzazione compiutamente umana. Tutto l'impegno e l'aspettativa dell'individuo si concentrano sulla pretesa della riuscita, del dare prova, del farsi valere, del trovare soluzioni e capacità di rendimento dentro le guide e le regole della cosiddetta normalità, assecondando e traendo conferma dal giudizio altrui e dall'essere in linea con l'insieme, senza cura dell'ascolto delle proprie risposte intime e del confronto con la propria interiorità. La visione di se stessi insita in un simile modo di stare al mondo e di procedere concepisce il proprio essere come un meccanismo da tenere efficiente e regolare, da mettere in manutenzione quando dà segnali di crisi e di sofferenza. La vita interiore è però tutt'altro che una meccanica da tenere a bada e in “regolare” esercizio. Nella vita interiore c'è il meglio di se stessi, del proprio patrimonio e potenziale di intelligenza, della capacità di rimettere in piedi la consapevolezza e la visione attenta, veritiera e critica del proprio stato e dello stato delle cose, altrimenti totalmente appiattita, falsata, distorta. Quando non fondati su di sè, non alimentati dalla propria interiorità, quando non generati da riflessione e da ricerca personali in stretta unità e scambio col proprio profondo, il pensiero e la visione delle cose sono fatalmente forgiati da altro, regolati e istruiti da mentalità, da cultura e senso comune, da idee correnti e prevalenti. Di questa condizione di dipendenza e di omologazione del proprio pensiero, che sbarra la strada a scoperte più autentiche e a sviluppi di crescita personale più fedeli a se stessi, permane inconsapevolezza, a parte che nella parte profonda del proprio essere, che non per caso agita interiormente le acque, dà nel sentire segnali e richiami insistiti per guardare con attenzione dentro un modo di procedere tutt’altro che saldamente fondato, che felice e promettente. L’attaccamento però a un modo di procedere cui si sono legate le proprie fortune e persino il proprio amor proprio, perché rivestito, malgrado al traino d’altro, da illusorio senso di padronanza e di esercizio di iniziativa propria, perché inteso, malgrado nell’ignoranza del proprio intimo vero, come terreno e veicolo di espressione di sé e di (presunte) valide capacità realizzative, rende quasi necessario, per tutelare ciò a cui ci si è così fortemente legati,  il controllo su ciò che vive interiormente, trattato come un meccanismo, come una parte che si presuppone sia regolare solo quando asseconda le attese e i propositi in atto e non crea problemi. Diventa necessario tenere a bada ciò che si svolge interiormente, provando a disciplinarlo e correggerlo, quando discorde dalle attese, esercitando impunemente, come fosse necessità ovvia e normale, la pretesa che marci concorde con le aspettative e i risultati che si vogliono perseguire, che paiono proficui, addirittura irrinunciabili, pena il rischio, questo il convincimento, altrimenti, di fallire miseramente, di cadere in disgrazia. Qui c’è la distorsione più forte. La parte più intima di se stessi, che, tirata per i capelli, si vorrebbe docile e al passo con un procedere tutt’altro che felicemente  fondato su di sè, in realtà sa bene quanto c’è di mancata consapevolezza, di lontananza da una conoscenza di se stessi e di scoperta di ciò che potrebbe realizzarsi di autenticamente proprio, perciò dà stimoli, offre negli stati d’animo, nelle sensazioni meno facili lo spunto e il pungolo per aprire gli occhi, per coinvolgersi in una ricerca di verità circa il procedere cui si è legati e ciò che si sta perseguendo. La spinta dell’interiorità, del profondo è a aprire gli occhi, togliendo ogni velo, su ciò che sinora si è fatto della propria vita, in che modo, vincolati a che cosa. La spinta interiore è a lavorare con attenzione sulla conoscenza di sé, non banalmente e non superficialmente, per arrivare, passo dopo passo, con la guida del profondo, che con i sogni e con ciò che fa vivere nel sentire sa indirizzare la ricerca mirabilmente, alla scoperta di ciò che, autenticamente proprio, risalti ai propri occhi come valore vero, che, in unità con tutto il proprio essere, si senta profondo desiderio e passione di far vivere, di realizzare. Non siamo nella parte più viva, intima e profonda di noi stessi dei meccanismi pressoché automatici, all’occorrenza da regolare, portiamo dentro di noi, sia a livello fisico biologico che psichico, intelligenza e capacità di tenere conto di complesse esigenze, di tradurle nel modo più sensato e valido, di rendere riconoscibili e di segnalare acutamente condizioni di crisi e di sofferenza, che tendono comunque a uno scopo di salvaguardia e di ricerca di equilibri più vitali e corrispondenti alle necessità personali. Tutto questo in un modo accorto e intelligente, attraverso risposte interiori e processi vitali che vogliono far capire e che, se ben compresi e corrisposti, sono capaci di indirizzare e promuovere trasformazioni utili e necessarie. La medicina nei suoi orientamenti prevalenti, vincolati e frutto di una visione meccanicistica dell'uomo e della pretesa di dirigere, manipolare, strumentalizzare, regolare e dominare i processi biologici, spesso poco attenta e curante delle potenzialità, delle regole interne della vita biologica e delle sue capacità di porre e segnalare problemi e di dare risposte a esigenze complesse, interviene purtroppo non di rado con l'arbitrio e la supponenza di una presunta scienza che vuole mettere le cose in ordine e a posto, introducendo correttivi, che, ignorando e non rispettando gli equilibri e le risposte interne, rischiano di produrre più forzature, rotture di equilibri interni che vero aiuto. Sul terreno psicologico accade la stessa cosa quando si pretende di normalizzare, di correggere e di sanare situazioni e esperienze interiori, che nello schema di rendimento e presunta normalità, sono giudicate anomale e disfunzionali, misconoscendone il valore e il senso, ignorandone la finalità cui tendono. Si vede debolezza, disturbo, anomalia e cattivo funzionamento dove c'è ben altro, dove c'è viceversa tutt'altra storia in ballo, tutt'altra sapienza e progettualità. L'intelligenza dei processi interni all'individuo, i confini del cui essere sono ben più ampi di volontà e ragione e di meccanica efficienza, rischia di essere completamente misconosciuta. Si interviene con psicofarmaci, con tecniche psicologiche manipolative e correttive per rimettere le cose in riga dove invece c'è ben altro, lo si fa dando per scontato che così facendo si faccia il proprio bene, si operi avendo cura di se stessi. Come la medicina che, in non poche sue espressioni, in nome della cura, vuole dominare e risolvere con interventi volti a spazzare via, a mettere a norma, a introdurre rimedi che vorrebbero sistemare il disturbo, come se non ci fosse altro da comprendere e da favorire, da assecondare in modo più rispettoso delle capacità e dell'intelligenza biologica insite nell'organismo di ognuno, così sul terreno psicologico, sempre in nome della cura, si compiono, non raramente, analoghe manipolazioni, che finiscono per stravolgere tutto, per trattare come crisi da domare e da riportare al dritto del consueto e del normale corso conforme ciò che invece interiormente vuole portare in tutt'altra direzione e che ha tutt'altro scopo, niente affatto insani, infelici o sfavorevoli o malati. L'ottusità della pretesa di rimettere le cose a norma di funzionamento, che, al di là delle buone intenzioni dichiarate, anzichè fare bene come propugnato, in realtà scombina e reca danno, limita e compromette le possibilità di crescita personale e di salute autentica, risalta agli occhi e diventa ben consapevole in chi, procurandosi l’aiuto valido e finalizzato a perseguire questo scopo, ha fatto la scelta di rispettare, di capire senza preconcetti, di conoscere e di valorizzare le espressioni del proprio essere, della propria vita interiore, di chi si è messo in guardia dal pericolo e non ha accettato di rendersi oggetto di manipolazioni fatte in proprio o suggerite e sobillate da fuori, da idee comuni, così come da pareri e da proposte di aiuto di presunti esperti. E' tempo di recuperare una visione di se stessi più ampia, più rispettosa delle qualità e delle potenzialità del proprio essere, non riducibile a un meccanismo da regolare e da tenere sotto controllo.  

sabato 18 maggio 2024

La guida interiore

La parte conscia dell'individuo si fa vanto di superiorità rispetto alla componente interiore e profonda nel garantirgli capacità di guida affidabile, la suppone. E' comprensibile che lo faccia, visto che nell’esperienza di molti, questa parte di se stessi, che fa leva su volontà e pensiero ragionato, da sola e volendo fare da sola, ha tirato e tira la carretta. La parte inconscia però non è, come ritiene spesso il pensiero comune, un magma di paure, un serbatoio di brutte esperienze, uno strepitio di pretese infantili e di convincimenti irragionevoli e assurdi, dunque una parte inaffidabile, da tenere comunque in subordine. L'inconscio è la parte di noi stessi che sa vedere le cose che ci riguardano da vicino con trasparenza e fedeltà di sguardo, sapendo, ben diversamente dalla parte conscia, contemporaneamente allargare e estendere la prospettiva per cogliere l'insieme e ciò che nel tempo ne sarebbe di noi stessi procedendo nella modalità consueta. La parte conscia vuole la continuità, concepisce e dice cose che confermano solo ciò che è solita credere, sostanzialmente non sa staccare da ciò che le è abituale e che dà per scontato, per vedere riflessivamente e senza pregiudizio cosa sta sostenendo e in che modo. La parte conscia si illude di essere lucida, obiettiva, capace di riconoscere e di garantire a se stessi il meglio della conoscenza e le più favorevoli delle risposte e delle soluzioni, in realtà è spesso cieca e passiva, ripete più di quanto non creda luoghi comuni, si avvale nel pensare, nel ragionare sull'esperienza di attribuzioni di significato prese in prestito e assunte passivamente, dando per scontato di sapere cosa sta dicendo, cerca e si fa dare dall'esterno convalide rassicuranti e si fa persuadere dall'approvazione altrui, ne dipende, perciò si chiude e si rigira su se stessa. Non sa vedere la passività che la costringe a far suo ciò che è già definito come significato, non sa vedere la propria inconsistenza di pensiero. Ciò che si pensa indirizza e sostiene le proprie scelte, è decisivo per la propria sorte. Se è un pensiero, quello di cui ci si avvale, che, per come viene articolato e composto, per le attribuzioni di significato che impiega e variamente combina, è coerente e conforme a una visione della vita e delle sue possibili realizzazioni già concepita e sistemata, il peso di una incapacità di conoscersi davvero e di conoscere autonomamente e fedelmente a sé è rilevante, decisivo per la propria sorte. Solo la capacità di formare pensiero autonomo e fondato sulla comprensione dei significati tratti dalla propria esperienza può rendere indipendenti e capaci di prendere in mano la propria sorte. Perché il proprio pensiero sia fondato, davvero valido e affidabile, capace di garantire a se stessi capacità di orientamento e di giudizio, libertà di scelta, tutto andrebbe capito partendo da se stessi, da scoperta di significati dentro e attraverso la propria esperienza, i propri vissuti. Le proprie vere ragioni di vita e potenzialità, che rischiano di essere oscurate o malamente confuse con le aspirazioni e le mete prese in copia e in aderenza a ciò che fuori di sé è comunemente promosso e organicamente concepito e organizzato, sono in realtà tutte ancora da scoprire, da riconoscere. L'inconscio non ignora queste lacune, ha ben presenti tutte queste questioni e necessità vitali, l'inconscio è la parte di noi stessi portatrice di ciò che autenticamente e profondamente siamo, con cui e per cui siamo venuti al mondo e che potremmo far vivere e realizzare, è la parte che non chiude gli occhi, che non riconosce come priorità stare al passo con altri e proseguire, che ha ben altra preoccupazione e cura di noi stessi, è la parte che sa riconoscere il niente camuffato da tutto, il vuoto, l'inconsistente dove la parte conscia crede ci sia chissà quale sostanza. L'inconscio è il nostro saper vedere senza illusioni e trucchi, è il nostro porre in primo piano il vero, rispetto alla tendenza a far funzionare comunque le cose, cercando a testa bassa di non perdere punti, di non rimanere indietro rispetto agli altri, provando con ogni mezzo a far girare il meccanismo, a proseguire comunque. L'inconscio contrasta la tendenza dominante nell'individuo a salvaguardare un modo di procedere e un equilibrio mal fondato e per nulla rispondente alle proprie necessità e possibilità, cerca di fargli sentire lo scricchiolio dell'insieme dell'assetto di un modo di essere e di procedere, che pretenderebbe di essere solido, quando in realtà è spiantato, fragile, sconnesso. L'inconscio al mantenimento di questo insieme non dà manforte. Ansia e quant'altro trovi espressione nel disagio interiore, spinti e messi in campo dall'inconscio, servono a far sentire l'intimo profondo disaccordo, il pericolo e il senso di inaffidabilità di un modo d'essere e di procedere tutt'altro che validi e promettenti, a far sentire la necessità di un cambiamento di sguardo e di rotta, a consegnare il compito non di tirare avanti dritto incuranti, ma di cominciare davvero a guardare senza veli, a capire come si sta procedendo, di cosa si è sostanzialmente privi. Nel disagio interiore e nelle sue punte di malessere ci sono apporti e stimoli accorti e intelligenti, carichi di significato e con ben valido fondamento, anche se scioccamente trattati e considerati come segni di anomalia, come ansia immotivata ad esempio. Il vizio di fondo di tanto pensiero psicologico e psicopatologico è di considerare l'uomo come un meccanismo che deve stare dentro, funzionare regolarmente e realizzarsi nel cosiddetto "reale", il che altro non significa se non lo stare sui binari e nell'adesione a ciò che, pur con tante varianti e opzioni alternative, nella sostanza è già modellato e dato, già pensato e detto, che nulla ha a che vedere con la formazione di pensiero proprio, con la scoperta di se stessi e del proprio progetto, che l'inconscio stimola con insistenza, che vuole con forza, perchè condizione per essere artefici del proprio destino e liberi, non gregari. Dove la parte conscia tira dritto e consolida solo il pregiudizio, l'inconscio "pensa" e cerca di far sentire la sua presenza, di esercitare la sua influenza, tutt'altro che negativa, anche se vissuta come disturbante, anche se bollata come disturbo e patologia da trattare e eliminare. L'inconscio non è lontano o destinato per sua natura a rimanere tale. Anzi il nostro inconscio vuole esserci nella nostra vita, stimolarci e sostenerci nell'impegno di crescita, consegnandoci (attraverso i sogni principalmente, ma anche plasmando tutto il corso interiore dei nostri vissuti, del nostro sentire) nuova linfa e pensiero, vuole che sia condiviso dalla nostra parte conscia, cui chiede coinvolgimento, impegno e serietà, sacrificio della pretesa di capire tutto in un attimo o, peggio, di sapere già. L'inconscio non è uno strano accessorio o una presenza aliena, non è un'entità oscura, destinata a sfuggirci, di cui solo gli esperti possono dire, con quale cognizione di causa è tutto da vedere. L’inconscio siamo noi in una parte ed espressione del nostro essere, che ahimè spesso teniamo lontana, sminuiamo, sul cui conto abbiamo pregiudizi, verso cui, per definirla, impieghiamo stereotipi, che in definitiva molto spesso non conosciamo nel suo vero volto, significato e valore. L’inconscio è la parte di noi stessi che raccoglie e documenta ogni passo del nostro procedere, che evidenzia continuamente nelle nostre emozioni e stati d'animo il vivo e la complessità di cui è fatta la nostra esperienza, il vero e l'intero, senza omissioni o aggiustamenti di significato o riduzioni di comodo, come, pensando col ragionamento, tendiamo spesso a fare. Capita che già giovani o giovanissimi si veda il proprio corso d'esistenza, che si vorrebbe quietamente e piacevolmente sereno, turbato da malesseri o da crisi interiori, non per caso, non per cedimenti o per insufficienze banali, non per difetti di buon funzionamento, ma per ragioni più profonde, di mancanza di basi salde di unità con se stessi, di conoscenza di se stessi, senza le quali è compromessa la capacità di farsi buoni interpreti di se stessi e di guidarsi autonomamente, di sventare il rischio di farsi sostituire, di affidare la proprio vita e il proprio futuro a guida esterna piuttosto che interna. Già pare infatti modellato, spiegato e detto ciò che va inteso per realizzazione personale, per crescita, per ricerca del bene della propria vita. Le tappe, le occasioni, i modi di intendere la maturità sembrano già definiti e scolpiti nell'esempio comune, nel pensiero vigente, prima di ogni possibilità e impegno di scoperta e di ricerca personali. Il rischio di saltare la propria ricerca e di imboccare strade già segnate, tradendo, deludendo le proprie ragioni e aspirazioni profonde, nemmeno indagate, coltivate e conosciute, è fortissimo. L’inconscio non per caso intralcia il cammino, fa sentire con ansia, attacchi di panico o quant’altro cosa vacilla e manca, forza l'individuo col malessere ad andare più verso se stesso che verso l‘esterno e verso altri, gli fa toccare con mano la sua non familiarità e lo smarrimento nel contatto con il proprio mondo interiore, gli fa sentire l'urgenza di porvi rimedio, di non procedere incurante di questo stato di incomprensione con se stesso. Non è distruttiva la pressione che l’inconscio esercita sull'individuo, è provvidenziale e saggia, gli vuole togliere illusioni, vuole spingerlo a delle verifiche attente e approfondite da farsi con i propri occhi, con trasparenza e coraggio di verità finalmente. L'inconscio vuole aprire all'individuo una stagione di profonda trasformazione per sostituire il posticcio di una identità e di un senso della propria vita prese in prestito, fragili, non verificate e comprese davvero (fondate più sull’imitazione e sulla ricerca dell’intesa con l’esterno e con gli altri che sul confronto con se stesso) con la presa di coscienza, con la formazione di proprie idee fondate e verificate, con la formazione di propria visione, in stretta unità e accordo col proprio intimo e profondo. Il rischio per l'individuo di sprecare la propria vita diventando copia d’altro e dipendente da altro, che, nel pensato e nell'esempio comune, nel già organizzato e strutturato, nel cosiddetto "reale", è pronto a suggerire, a convalidare, a sostenere, a dare le dritte, non è sottovalutato dalla parte profonda di se stesso. Non è un caso se l’inconscio fa il guastafeste, se fa ad esempio sentire senso di fragilità, di sfiducia, senso di vuoto e di inutilità. Simili vissuti sono facilmente giudicati patologici, sbagliati, espressione di qualcosa che non funziona come dovrebbe. In realtà l’inconscio turba il quieto vivere per dare indicazioni impegnative quanto fondate e vere, non ci può essere ad esempio fiducia in se stessi se di proprio non si è ancora compreso e messo assieme nulla. L'inconscio può diventare la guida più affidabile e sicura, se si impara a comprenderlo e a rispettarlo in ciò che è, se se ne condivide lo spirito e l'intento, se, dando risposta appropriata al malessere interiore, si decide, procurandosi l'aiuto valido e necessario, di cominciare un serio lavoro su se stessi, di aprire una stagione di crescita e di cambiamento. L'inconscio non difende il quieto vivere, perchè non ha a cuore il persistere in ciò dentro cui si è solo pallida immagine e inautentica di se stessi. L'inconscio è impegnativo, perchè non appoggia passività e rinuncia, illusioni e comodo, ma è un potente alleato nell'impegno di far vivere se stessi, di mettere al mondo con la propria vita qualcosa che abbia un contenuto originale e un senso.

mercoledì 15 maggio 2024

Umanizzare il rapporto con se stessi, con la propria interiorità

Non sono l'ansia o altre espressioni di sofferenza e di disagio interiori a fare danno a chi le vive, ma il modo di trattarle, di non riconoscerle come voce di una parte intima di se stessi, che in modo vivo coinvolge e che vuole dire, comunicare, che vuole portare vicino a verità, rendere visibile qualcosa di fondamentale di se stessi. E’ comprensibile che ci si ritrovi disorientati e impreparati a confrontarsi con esperienze interiori difficili, quando il malessere interiore prende carattere insistito e più forte intensità. Si paga il prezzo di un mancato sviluppo di capacità di rapporto con la propria vita interiore, tutti rivolti nel corso della propria crescita a stabilire relazione e a sviluppare capacità di scambio col mondo esterno, stabilendo una distanza crescente dal proprio mondo interno, riservando a sé, al rapporto con se stessi, solo qualche commento ragionato sui propri comportamenti, nulla di più.  In ogni caso colpisce che, entrando in rapporto con parte viva di sé, pur se in circostanze e con note d’esperienza interiore così sofferte e insolitamente difficili, la si tratti come un meccanismo rotto, estraniandola da sé, come un che di cui sbarazzarsi e da tenere a bada, negando in partenza apertura e disponibilità di incontro umano al proprio intimo. Ecco entrare in opera, invece di una ricerca di incontro con la propria interiorità e di ascolto del proprio sentire, pur se doloroso e insolito, la risposta volta a tenere a bada, a estromettere possibilmente ciò che sembra solo una anomalia e un disturbo indesiderato di cui liberarsi quanto prima. Pensata come sintomo, come meccanismo patologico da classificare e controllare, l'esperienza interiore sofferta è resa sempre più anonima, inespressiva e nemica, come un disturbo cui attribuire una dicitura, una etichetta diagnostica, come se questo fosse un modo per capire. In realtà nulla in questo modo si comprende di questa parte viva di se stessi, di ciò che vuole dire, si rischia solo, con l’etichetta di una qualche sindrome o patologia, di applicarle il marchio dell’indesiderato. E' questa del classificare e dell'incasellare in quadri e in formule psicopatologiche, mossi fin dall'inizio dall'intento di contrastare e di debellare l'esperienza interiore disagevole, una pessima abitudine, ahimè assai diffusa, fatta propria sovente anche da chi vive in prima persona l'esperienza della sofferenza interiore. Accade così che si parli di sè, della propria esperienza interiore, come fosse la copia di una pagina di un manuale di psichiatria, che non è certo il massimo, visto che la psichiatria spesso e volentieri descrive la superficie, incasella ogni momento ed espressione dell'umano e della sofferenza interiore come fossero quadri abnormi tipici, facendo di ogni erba un fascio, rinunciando a capire, rivelando sostanziale non volontà e incapacità di avvicinare e di comprendere l'esperienza interiore. Che tristezza la rinuncia a cercare significato nella propria esperienza, originale, unica, a avvicinare il proprio sentire come traccia viva per capirsi, per conoscersi! Si usano, si applicano a se stessi con disinvoltura espressioni orribili come fobia sociale, sigle del cavolo come dap, doc e simili, che disumanizzazione! Sarebbe importantissimo e profondamente umano avvicinarsi a sè, riconoscere in ogni esperienza interiore un'espressione del proprio essere, un percorso, sì difficile e accidentato, ma un percorso interiore, non una meccanica abnorme da aggiustare e da regolare, pronti a impasticcarsi, a farsi ammaestrare da qualche "psicoriparatore" su come rimettersi a norma. Che disastro questo modo di maltrattare se stessi, il proprio sentire, le proprie esperienze interiori, sì tormentate, dolorose, strane, imbarazzanti e persino sconcertanti, ma non per questo assurde o malate, non per questo estranee e lontane, non per questo insulse e prive di capacità di far vedere puntualmente e sensibilmente aspetti e verità di se stessi! L'esperienza interiore, anche quando sembra contorta e assurda, fallimentare, dà occasione viceversa se ascoltata, se avvicinata non con spiegazioni o interpretazioni ragionate, ma riflessivamente (come guardandosi allo specchio, guardando negli occhi il proprio sentire) di riconoscere tracce vive di significato, di capire, di cogliere nodi importanti. Momenti interiori aspri, ripetuti, logoranti, tormenti, esperienze e prove che paiono "disastrose", non sono mai casuali, incapaci di offrire lezione viva e vera di conoscenza di se stessi. Non si tratta di spiegare, di trovare da qualche parte, possibilmente fuori di sé, in accidenti o traumi subiti nel passato o in cattivi condizionamenti passati o presenti o in manchevoli apporti, di cui si sarebbe stati vittime, in responsabilità di questo o di quello, le presunte cause di un presunto guasto, questo lavorio del capire è mal speso. Si tratta invece di imparare a intendere il linguaggio del sentire, di raccogliere ciò che l'esperienza intima attuale e viva, pur dolorosa, sa e vuole dire. Il primo proposito, che facilmente diventa definitivo, di fronte al malessere interiore è assai spesso quello di liberarsene, di superarlo o con le brevi di un rimedio farmacologico o di una tecnica psicologia che produca un effetto simile, a volte combinati assieme, o per una strada più lunga di una indagine conoscitiva sul passato che comunque produca, casomai con l’idea di intervenire in modo più efficace andando alla radice del problema o guasto, analogo effetto liberatorio, pensando che questa del liberarsi e del mettere o rimettere in corsa  un procedere ritenuto valido, promettente e normale, non compromesso da ostacoli interiori, sia la miglior cosa da offrire a se stessi. In realtà la soluzione invocata del liberarsi della difficile e sofferta esperienza interiore, pensata, con l’appoggio di mentalità comune e di tanti apporti di tecniche curative, come di ovvia massima utilità e beneficio per se stessi, coincide col mandare al diavolo parte intima e viva di se stessi, senza riconoscerla come tale e senza concederle di avere capacità di dire e di dare qualcosa di utile, di intelligente. Prima di correre ai ripari, auspicando di spazzare via tutto, bisognerebbe riflettere sulla grande utilità e positività, per non mettersi da subito in guardia e in armi contro se stessi, che avrebbe trarre frutto da ciò che si vive interiormente, non importa se ingrato, se insolito, se tumultuoso, se doloroso. Purtroppo delle esperienze interiori, di come si esprime l'interiorità, di quello che vale e sa dare la parte intima e profonda del proprio essere c'è diffusa ignoranza. Dentro di noi c'è una parte appunto, intima e profonda, che interviene nella nostra esperienza, che capace di guardare in profondità dentro di noi e nelle nostre scelte e modi di procedere, capace di non farsi abbagliare dalle apparenze, non rinuncia a dire la propria, a stimolare la scoperta del vero, nel nostro interesse, a coinvolgerci, parlando attraverso le nostre emozioni e tutto ciò che muove nel nostro sentire. Nulla di ciò che sentiamo è casuale, leggere tutto in termini di normalità o meno segnala solo l'incapacità di comprendere significato e valore dell'esperienza interiore. E' una parte di noi stessi, quella profonda, che detta tutto il nostro sentire, che non crede importante che tutto scorra liscio, che considera viceversa prioritario conoscerci e prendere coscienza, crescere in intelligenza vera e in autonomia di sguardo e di pensiero, fondamento della nostra libertà di prendere in mano la nostra vita e di interpretarla in modo felicemente fedele a noi stessi, che non rinuncia a farlo, anche se, per conquistare consapevolezza, per crescere, ciò dovesse implicare fatica, costi dolorosi. Accade che si sia coinvolti da questa nostra parte profonda, che ci colora delle nostre emozioni, che ci spiazza, che ci cala a volte con forza in esperienze interiori sì disagevoli, difficili, ma eloquenti, significative, capaci di aprirci gli occhi, se sapute intendere, se impariamo ovviamente a trattarle con rispetto e a leggerle come esperienze e non come sintomi, come segni tipici di anormalità o di patologie. Nulla ci succede per caso, tutto ciò che ci accade interiormente ci parla di noi, ci porta verso di noi. Intendiamoci, non è facile e immediato trovare il senso dove in genere si applica il giudizio pronto, dove prevale la squalifica, dove il senso comune di fronte a malessere interiore pare concorde nel parlare subito, come fosse cosa scontata e evidente, di anomalie, di risposte interiori assurde e inspiegabili, di risposte difettose, di insufficienze, facendo subito riferimento a ciò che invece sarebbe normale e positivo sentire, provare, dove gli stessi "esperti" in non piccola parte sono pronti a confermare simili giudizi, pur mettendo in campo termini tecnici più sofisticati. Per entrare in rapporto e in dialogo con ciò che vissuto interiormente invece più spesso si giudica e si cestina perchè  si considera semplicemente anomalo, è necessario imparare a fare ciò che non si è abituati a fare, a cercare il filo interno di senso in ciò che si sente, è fondamentale scoprire che il sentire, tutto il sentire in tutte le sue espressioni, dice e rivela, che concordemente e intelligentemente parlano i sogni, che la parte cosiddetta emotiva e irrazionale di se stessi non è affatto inaffidabile e avventata, capricciosa o poco lucida. Poco lucido e accecante è viceversa il pregiudizio, è il ragionare che mette ordine, ma che non comprende, che riallinea e combina i significati preconcetti, ma che non si cura di vedere, di aprire davvero gli occhi sull'intimo dell'esperienza vissuta. E' una vera rivoluzione quella che conduce a conoscere non per selezione ed esclusione, ma per comprensione e per ascolto di tutta l'esperienza interiore, di tutto il sentire proprio. Imparare a andare incontro, a reggere la tensione dell'esperienza interiore disagevole, che solitamente si tende a contrastare, a rifuggire e a scaricare, imparare a rapportarsi fiduciosamente, a riflettere, cioè a cogliere l'intimo volto di ciò che si sente, anzichè commentare e spiegare razionalmente, è ciò che servirebbe. Non lo si sa fare, non si è cresciuti mai in questo, ci si è abituati a assorbire idee, non a generarle, facendo leva sul proprio intimo, sul proprio sentire come guida, ci si è addestrati a applicarsi ad altro per conoscere, a prendere in prestito spiegazioni, a delegare a autorità esterna, vuoi di libri e di autori, vuoi di concetti già predisposti e rimasticati, il compito, la capacità di spiegare, di formare ed informare il proprio pensiero. Se ripartire da sè è la grande occasione per accorgersi che si può accendere il proprio sguardo fondandosi su esperienza intima e su possibilità di vedere con i propri occhi, questa è un'occasione enorme che il profondo, che l'inconscio ha ben presente, che con forza incoraggia o pretende, ma che la parte conscia spesso non comprende e rifiuta in malo modo, senza nemmeno capire cosa sta facendo con giudizi di disturbo e di anomalia applicati a propria intima esperienza, senza capire le  gravi implicazioni di questo modo di trattare l'esperienza interiore. E' possibile aprire dove spesso con diagnosi e terapie si chiude, è possibile umanizzare dove in non pochi casi la cura, pur sembrando buona e soccorrevole, deruba di umanità per far vincere la normalizzazione, che allontana da se stessi. E' necessario un lavoro nuovo, importante, serio, graduale, con l'aiuto di chi lo sappia incoraggiare e indirizzare, di chi non abbia in testa manuali e teorie preconfezionate, ma capacità di intendere l'esperienza interiore come matrice di conoscenza, come occasione unica di ritrovata sintonia con se stessi. Fondamentale è il desiderio di trovare accordo e unità con se stessi, di conoscersi davvero in tutto ciò che si è, interiorità compresa.

domenica 5 maggio 2024

La psicologia del rattoppo e del rilancio

Va a senso unico, non concepisce se non il già concepito, perciò non è in grado di capire cosa davvero avviene sulla scena interiore. Questa è la psicologia corrente, pronta, pur nelle sue diverse declinazioni, a intervenire in emergenza per fronteggiare malesseri e crisi interiori come psicologia del rattoppo e del rilancio. Quando si riconosce solo ciò che si è soliti e predisposti a intendere, per dare a se stessi, per il proprio quieto vivere, conferma nei propri giudizi e nel proprio modo di procedere, quando si assume come normale e indiscutibile ciò che, per idea e mentalità comune e prevalente, è considerato tale, quando, seguendo l'onda comune, si pensa se stessi, in realtà attori di un copione già scritto, come artefici e capaci, assumendo ruoli già ben disegnati, di dire in quei panni la propria, anche se dietro suggeritore e muovendosi su percorsi, tanto in apparenza affidabili e congeniali, quanto già segnati, ecco che la psicologia, che dà  manforte alla credibilità della (finta) autorealizzazione messa in scena, è pronta, in caso di difficoltà, a intervenire per fare azione di rattoppo e rilancio. La si fa intervenire a fare rattoppo quando, mentre l'interiorità, con segnali, per nulla casuali e insignificanti, di malessere e di crisi, produce strappi, apre crepe affinché il vero emerga e tutto possa finalmente prendere una via nuova, quella della presa di coscienza, del recupero a sè del compito e della occasione di fondare su di sè la propria vita, si cerca invece, casomai facendosi aiutare in questo, di adoprarsi per trovare rimedio a presunti guasti, per ripristinare la corsa solita, a senso unico, per ridarle lancio e respiro. Non conduce alla presa di coscienza, la psicologia che la dà per naturale e la traveste,  che non persegue lo scopo di aprire lo sguardo, di vedere cosa è realmente e cosa implica la modalità di procedere in cui ci si affida a altra guida, cercata fuori di sè, che già ha concepito e predisposto, casomai con ampia gamma di soluzioni e binari, ciò che si può e che va realizzato e perseguito, illudendo che quello messo in atto sia movimento autonomo e fondato su basi proprie ben comprese e evolute, cosa che solo un serio lavoro su se stessi potrebbe formare e costruire. Un lavoro necessario per fondare la propria autonomia su presa di visione propria, su scoperta di ciò che vale, di aspirazioni che si riconoscono originali, di cui si è portatori, lavoro che solo in unità col proprio profondo può svilupparsi senza inglobare significati e risposte e soluzioni preconcette e già pronte, prese da fuori. I binari, il copione già scritto esonerano però dal compiere questo lavoro, anzi lo rendono oltre che inutile inaffidabile, offrono e sanciscono come via maestra e necessaria per la propria realizzazione soluzioni, vie da percorrere già segnate, da seguire, da assecondare. Non serve allora cercare dentro di sè se non la predilezione, l'interesse per  questo o per quell'altro già configurato che sta là fuori come opzione, come mezzo e come itinerario da seguire e traguardo da raggiungere per realizzare e per realizzarsi. Così assuefatti a cercare pronta soluzione, a prenderla da fuori, ben poco si è disponibili e interessati a fermarsi a lavorare con cura su di sè. Serve solo ai propri occhi afferrare le soluzioni già prefigurate e pronte, serve non perdere il treno, salire di volta in volta e tempestivamente  sul treno che pare confacente a sè, per non rimanere a piedi, per darsi la persuasione e la rassicurazione di mettere la propria vita in corso d'opera e in corsa di riuscita. Capita nei sogni di essere in procinto di salire su un treno, a volte di correre il rischio di perderlo, di affannarsi per non perderlo, di non arrivare in tempo. L'inconscio ci mette l'intelligenza di cui dispone, non conforme e non al guinzaglio della psicologia del rattoppo e del rilancio, per segnalare l'impossibilità ormai di acciuffare quella falsa grande opportunità del treno in partenza, impossibilità da intendersi come condizione valida e necessaria. La perdita del treno in partenza non è sciagurata, ma viceversa è favorevole per riportare a sè la scoperta del cammino, dell'orientamento da trovare, della meta da scoprire, del modo di raggiungerla da affidare alla propria intelligenza, facendo conto sulla sensibilità  dei propri piedi sul proprio terreno, sulla loro capacità di sostegno e di movimento e non sul farsi portare da veicolo a pronto uso, che, se offre agio di muoversi,  ha però le sue regole e destinazioni segnate, i suoi andamenti cui aderire, cui affidarsi passivamente. Quando non si comprende quanta necessità c'è di aprire gli occhi sul modo di condursi e sugli autoinganni, sulle illusioni che alimenta e di cui si alimenta per sussistere, ecco che la visione di sè, che la psicologia del rattoppo e del rilancio di ciò che ormai è consacrato come regola e come unica prospettiva possibile, prende il sopravvento, risulta funzionale e quasi indispensabile per tenere su l'intero costrutto. La psicologia del rattoppo interviene per accomodare tutto, mettendo le mani su situazioni di crisi e di malessere interiore, fraintendendo e dirigendo tutto nella ricostituzione e nel rilancio, casomai con qualche apparente novità e aggiustamento, della solita storia e direzione. La psicologia del rattoppo cerca cause di presunti disturbi da rimuovere e da correggere, offre spiegazioni e soluzioni, salvando e riconfermando nella sostanza l'impianto solito, tentando di renderlo più scorrevole, se intralciato da dentro. Ma gli intralci, i segnali di crisi e di malessere, sono richiami e spunti di verifica, spinte e guide di ricerca di verità e di consapevolezza su se stessi, che la parte profonda mette in campo, che, se non intesi come tali e non  ascoltati, se fatti invece oggetto e pretesto di rattoppo, portano solo a fraintendere e a chiudere la possibilità di conoscenza di se stessi e di profondo cambiamento, indispensabile per uscire da una condizione impropria, di dipendenza e di allineamento a altro, pur con l'illusione di decidere, di dire e di metterci del proprio. La psicologia del rattoppo e del rilancio, che sembra nella crisi e rispetto al malessere interiore dare risposta utile e benefica, di fatto vanifica la spinta che nelle intenzioni del profondo, che anima e solleva la crisi, vuole portare a verifiche attente, a aprire gli occhi sulla natura del proprio modo di procedere, a invertire la rotta, a passare da finti artefici e realizzatori della propria vita,  a veri artefici, accettando non di consumare soluzioni pronte e di salire su treni da non perdere, ma di costruire con impegno e pazienza e gettare le fondamenta della propria autonomia, di trovare dentro di sè le guide e le risposte, di tesserle con cura, in unità con un'interiorità che, se da un lato apre crisi, dall'altro ha capacità di dare sostegno e di guidare la ricerca per diventare davvero protagonisti della propria vita. Quando l'intento del profondo è compreso e condiviso, accade che la psicologia, non del cieco aderire e della conferma del corso abituale, non del rattoppo e del rilancio del solito, ma la psicologia della riscoperta e del riscatto dell'umano vero e della sua realizzazione autentica riesca finalmente a  prendere il sopravvento. L'inconscio questo vuole e di questo sa essere maestro e guida.

mercoledì 1 maggio 2024

La timidezza: difetto e limite da superare ?

La timidezza è vissuta spesso come un carico ingrato, come un intralcio, come una cattiva disposizione di natura, che ostacolerebbe, che metterebbe a rischio la possibilità di esprimersi al meglio e di cogliere pienamente le opportunità del vivere. Un fattore di svantaggio dunque in una lettura a senso unico, tant'è che l'auspicio più diffuso è di superarla, come se il superamento della timidezza segnasse un passaggio di crescita, una conquista. La timidezza è infatti spesso motivo di autosvalutazione, come se  equivalesse a un non pieno e adeguato sviluppo, maturazione. C'è la convinzione che ci sia meno forza, una indesiderata insicurezza, e per questo meno ragione di autostima in chi porta dentro se stesso questa impronta del sentire. In realtà, dove non ci si lasci dettare legge e chiudere lo sguardo da una concezione che premia come qualità ideali estroversione, sicurezza e disinvoltura, facilità di contatto e scioltezza di parola, simpatia e solarità e altra pappa simile (pronta da mandare giù, senza necessità di capire), concezione che implicitamente e che anche manifestamente svaluta e boccia come inadeguate tutte le espressioni diverse, come la timidezza,  che non vanno in quella direzione ritenuta ideale, concezione tutta a rimorchio dei luoghi comuni, dei gusti e delle stime di valore più diffuse e prevalenti, che se fanno statistica non fanno per questo scienza e verità, si può riconoscere nel proprio sentire con impronta di timidezza ben altro da ciò che dettano i pregiudizi comuni e personali. La timidezza ha l'intento e la capacità di segnalare, il segnale arriva da dentro se stessi forte e chiaro, che c'è soggezione al giudizio e alla valutazione dell'autorità esterna, allo sguardo altrui, che c'è dipendenza, l'inclinazione cioè a farsi dire ciò che vale e che va manifestato di sè, a assecondarlo per portare a sè conferma e sostegno di approvazione, a rincorrere come validi i modelli esterni, a temere di incorrere nella cattiva resa e figura. La timidezza vuole dunque dare indicazione calda e cocente, stimolo forte e insistito a tenere conto di questa presa e vincolo dipendente, di questa consegna di se stessi così forte all'autorità esterna, per prenderne visione, per lavorarci sopra. Il vissuto di timidezza dà segnali mirati, sapientemente mette all'ordine del giorno, indirizza la ricerca su qualcosa di centrale, su un nodo decisivo. Nello stesso tempo il vissuto di timidezza rende l'esperienza del timore reverenziale, del piegarsi  a quell'autorità del giudizio e dello sguardo altrui come sofferta, dolorosa, sempre incalzante in presenza di altri. Lo sottolinea mostrando quanto è forte la necessità di proteggersi, di darsi riparo. Vale la pena di aprire qui una riflessione sul rapporto col sentire, riflessione che più volte è rilanciata nei miei scritti. Nella attenta riscoperta di ciò che la timidezza sa dire e suggerire come base e terreno vivo di scoperta, di presa di coscienza, emerge il valore del rapporto col proprio sentire in tutte le sue espressioni naturali, spontanee, anche le meno gradite. Il sentire è risorsa essenziale da non trascurare e da valorizzare, sentire che invece, anzichè essere attentamente e fedelmente ascoltato, abitualmente, soprattutto se ha parvenza di non essere conforme a ciò che è più atteso e gradito, è tirato per i capelli, giudicato sbrigativamente, tenuto sotto custodia e controllo, reso oggetto di commento, di manipolazioni e di pretese. Il nostro sentire è la nostra interiorità che intelligentemente ci interroga, ci dice, non comprendere questo significa ridurre in modo netto, compromettere le nostre possibilità di presa di visione e di pensiero, rimanendo in balia della iniziativa del pensiero razionale, che, da solo e dissociato dal sentire, offre solo illusorie spiegazioni valide e chiarimenti, in realtà già incanalati nel pensato consueto, nel preso in prestito da fuori, da idee comuni e prevalenti, quelle che appunto, come dicevo prima, fanno rapida giustizia sommaria della timidezza, che, trattata come ostacolo e insufficienza, è radicalmente travisata e bistrattata, quando in verità ha ben altro valore e capacità di dire. Ma torniamo a guardare con attenzione e senza preconcetti dentro l'esperienza del sentire timido, per farci mostrare cosa rivela. E' un sentire, quello della timidezza, cui si accompagna spesso senso di inadeguatezza, di infelice realizzazione, che rischia di essere predominante, anche se a ben vedere non è  univoco ciò che dice l'esperienza viva della timidezza. Se infatti l'aspirazione a non essere come naturalmente e spontaneamente si è e si sente nel proprio della timidezza, pare di indiscutibile validità, vedendo in altri, a differenza e paragone con se stessi, i campioni da imitare, invidiati quando appaiono liberi da freni e da ritrosie, quando sciolti e disinvolti, con l'apparenza di chi sa vivere e prendersi il meglio delle occasioni di ben figurare, emergere e afferrare gioie e soddisfazioni, nello stesso tempo assieme a una simile aspirazione c'è la sensazione, adottando quel metro e premendo su di sè per ottenere quelle stesse espressioni e prestazioni, di imporre a se stessi un che di coercitivo, che obbliga a andare contro il corso e la corrente naturale, a assumere altro, a dover indossare altri panni, a camuffarsi, a nascondere l'originale, a averne vergogna oltre che ripudio. La timidezza, assieme a soggezione e a timore dell'altrui giudizio, preso a regola e a arbitro della propria vita, è forza di legame con se stessi, anche se in contemporanea a marcata spinta a dissociarsi, a prendere le distanze da sè, a assumere altro come nuova e diversa uniforme da indossare, addirittura come diverso stampo del proprio essere, cui aderire e dentro cui riplasmarsi fino nell'intimo. La spinta a inseguire e a farsi dettare come essere e nello stesso tempo la sensazione di forzare, di plagiare se stessi, la percezione che c'è un vincolo di natura che, per quanto lo si voglia superare, non mostra certo di cedere e svanire facilmente, è la consegna della timidezza. Insomma nella timidezza c'è il segnale della soggezione dipendente, della spinta a dare prova e a superarsi per assecondare le pretese dell'autorità esterna per averne in cambio convalida e per far proprie le sue promesse e contemporaneamente c'è la percezione acuta del suo essere una pretesa in contrasto e in strappo da sè. Anche se oscurate e stravolte le ragioni del vincolo a se stessi, perchè la chiave di lettura è quella che, in adesione al pensato più comune, vede deficit e mancanza di espressioni ritenute valide e garanti del proprio buon rendimento, del proprio saper vivere e del possesso di capacità e qualità adeguate, in realtà, a starci attenti nelle mosse del sentire timido c'è tutt'altro che insipienza, inettitudine e incapacità. Se la timidezza ad esempio non consente pronta espressione di parola, tanto cercata pur di riuscire a dire, per paura di apparire altrimenti vuoti, è perchè la parola, se vuole essere portatrice di senso, deve fondarsi su qualcosa che intimamente avvicinato e compreso (questo ha i suoi tempi e i suoi perchè, non può avvenire a comando), consente di dire, può dare motivo e persuasione di dire qualcosa che ha un senso e che ha senso comunicare, per non parlare a vanvera o inventare discorsi modellando il dire in accordo, per i contenuti e per la forma, con ciò che l'interlocutore può apprezzare. La timidezza non consente espansività e quant'altro è considerato espressione di buona disposizione d'animo, di cordialità, di sentimenti o presunti tali ben impostati e modellati su tutto ciò che è considerato valido, gradito e ottimale, perchè i sentimenti non si inventano, non si recitano, non si vendono e non si mercanteggiano, devono pur avere una radice vera, un fondamento e essere legati a qualcosa che è maturato dentro e in concordanza piena con se stessi, che ha ragion d'essere valida e sincera. La timidezza fa valere le ragioni dell'autentico, di ciò che ha fondamento vero, che non è un artefatto. Ho scritto di recente sull'argomento dell'originale e dell'artefatto. La timidezza è terreno di incontro, di scontro tra le ragioni dell'autentico, di ciò che originalmente, traendo linfa e origine dentro sè, vuole formarsi e vivere e le ragioni dell'artefatto. Una cosa è spendersi per dare buona prova, per simulare ciò che piace, una cosa è apparecchiare, mettere in tavola, riprodurre ciò che è concepito come buono e di valore e degno di buona considerazione, altra cosa è cercare dentro sè le ragioni, le basi, le radici di espressioni umane non messe su artificialmente, ma cariche di vero, di autentico, di consapevole. Tutt'altro che un'espressione deficitaria, c'è un principio di salute e di saggezza nel corpo vivo della timidezza, anche se mescolata e in tensione con la pretesa di dare buona prova, che cerca di spargere diffidenza e discredito su ciò che nella timidezza segna un vincolo tutt'altro che insano e sgangherato con le ragioni dell'autentico e del rispetto per ciò che è intimo, che intimamente si fa valere. Se si impara a rispettare per ciò che racchiude e a valorizzare la timidezza, che non è certo lì per caso, che non si fa valere per caso, si può trovare dentro questa esperienza interiore così complessa e ricca, che rischia di essere liquidata solo come un difetto e una palla al piede, tanto su cui lavorare per conoscersi e per conoscere, per comprendere questioni di natura rilevante inerenti il modo di intendere la propria crescita e la realizzazione della propria vita. Una cosa è spingere se stessi verso la prestazione e la corsa regolata da altro da sè senza discernimento, per averne premio e convalida, altra cosa è riservare a sè il compito e la facoltà di comprendere e di assecondare lo sviluppo di ciò che vale, che richiede anche frenarsi, la timidezza come abbiamo visto frena, trattiene non per caso, ma con lo scopo intelligente di ascoltarsi di darsi occasione di scoperta, per cercare e trovare con base e fondamento di accordo con se stessi chiarimenti e risposte necessarie per procedere con autonoma capacità di vedere, di comprendere e di guidarsi. Una cosa è farsi portare e farsi dire (scorciatoia, soluzione facile e immediata da afferrare e  consumare), una cosa è affidarsi e ossequiare l'autorità esterna dei giudizi e delle regole condivise, per indirizzare non solo le scelte, il destino, le mete da raggiungere, ma persino per farsi regolare e dettare le espressioni di sè più intime inerenti sentire e sentimenti, per ricevere da questa autorità apprezzamento e conferma, altra cosa, ben altra cosa, è mettere al centro come condizione imprescindibile  il vincolo a se stessi come natura da rispettare, come fondamento vivo e essenziale per trovare da sè autonomamente, per cercare dentro di sè le proprie risposte e ragioni d'esistenza comunque non prescindendo, non rinnegando, ma viceversa valorizzando il proprio sentire nelle sue declinazioni vere, sentire che, come la timidezza, con intelligenza dice, saggiamente coinvolge, indirizza lo sguardo e conduce a capire. Consegnarsi ad altro per farsi dettare e riconoscere presunta maturità e capacità di vivere e di crescere o tenere stretta a sè la facoltà e la capacità di capire e di capirsi, di comprendere da sè, di riconoscere con i propri occhi, fedelmente a se stessi, in unità col proprio intimo vero, cosa ha  senso e valore, cosa, in consonanza con se stessi e coerentemente con le proprie originali risorse e qualità, vuole vivere, tradursi e realizzarsi, questa è la posta in gioco. La timidezza è ben altro che un difetto di funzionamento.

L'ansia: l'allarme per ritrovarti

Alle prese con un'esperienza interiore sempre più ardua e sofferta, con un'ansietà che non ti dà tregua, che non ti permette di procedere se non con questo peso interno, sei tentato prima di tutto di costruire un argine, pensandoti come assediato da una forza nemica e deleteria, di rincorrere da qualche parte un rimedio. Forte è la spinta a cercare opinioni e risposte fuori, casomai per scoprire per tuo sollievo e rassicurazione che anche altri ha provato o sperimenta qualcosa di simile, augurandoti che qualcuno o qualcosa possa darti una via e un mezzo di uscita (di uscita e non di entrata in ciò che di intimo stai vivendo, che richiede non capacità di fuga, ma sviluppo di capacità di incontro e di ascolto). Raccogliere opinioni e suggerimenti di altri può non essere una gran soluzione, ognuno nel trattare la tua esperienza ci metterebbe del proprio di preconcetti, di modi pari pari a quelli che è abituato a impiegare nel trattare la propria esperienza, tipo cercare spiegazioni di cause esterne,  suggerire modi per provare a metterla sotto controllo, tipo rifarsi e delegare subito la comprensione dei propri stati d'animo, delle ardue esperienze vissute alle teorie e alle tecniche sostenute dall’esperto di turno o, già prima di ascoltare e di provare a capirsi, avere cura di appiccicare sull’esperienza sofferta un’etichetta diagnostica, tanto arbitraria quando si avvicina un'esperienza interiore, complessa e unica, quanto sterile, perchè etichettare non significa conoscere. Decisamente più utile e appropriato ai tuoi interessi e alle tue necessità cominciare a riflettere, concentrando l'attenzione sul tuo singolare, sullo specifico della tua esperienza, su ciò che ti appartiene e su cui puoi meglio lavorare e comprendere. Se oggi sei entrato in questa spirale dell'allarme per le tue condizioni di salute, se mille dubbi si aprono in te sul tuo reale stato, in tutto questo un senso e uno scopo c'è di certo. Se ti sei ignorato sinora, se nel tuo procedere solito hai cercato tutto fuori di te, sia le opportunità che le strade da seguire, diventando estraneo o semplice ospite abitudinario e disattento in casa tua, per casa intendo il tuo spazio intimo, se di te più profondamente non frequenti e non conosci nulla, se non rifletti e ignori il vero stato della tua vita, del tuo modo di condurla, se da una parte fai, agisci, ragioni e dall'altra senti e non ti curi di entrare in sintonia e di ascoltare e comprendere ciò che senti, se tiri avanti nella tua modalità di vita senza apertura e confronto con te stesso, non credi che, seppur nella forma dell'allarme e del temere le più disparate incognite e sorprese sul tuo stato, qualcosa ti stia costringendo a occuparti di te, che ti stia segnalando con forza e con insistenza la tua lontananza da te stesso, la mancanza da parte tua di attenzione per la conoscenza, non superficiale e distratta, ma vera e approfondita, di te stesso, di cura del rapporto con te stesso? Nulla sulla scena interiore accade mai per caso e senza un senso, senza uno scopo. Se la tua risposta all'assillo e al disagio interiore che insistono dentro di te è di superarli, di spiegarli come conseguenza di qualche causa di sovraccarico e di oppressione esterna, come segno di qualche tuo deficit o ritardo di prestazione e di capacità di adattamento e di resa, il fraintendimento di questa tua intima preziosa voce interiore potrebbe farti più che un danno. Ciò che senti ti dice l'insostenibilità di un modo di procedere in cui sei persuaso che quella che ti è abituale sia la strada da seguire e nello stesso tempo sei ignaro di cosa sia ciò che ti ci lega e soprattutto senza verifica se davvero tenga conto di te e di ciò che di autentico ti appartiene. Il richiamo a provvedere in termini di avvicinamento a te, di verifica attenta, di ascolto del tuo intimo, di scoperte essenziali di cui manchi, non per rincorrere i traguardi già segnati, ma per capire qual'è il vero traguardo che concordemente con tutto te stesso potresti scoprire e riconoscere senza farti portare da altro, oggi ti vede per nulla incline a recepirlo, persuaso come sei che tutto ormai ti è chiaro e scontato come marcia da seguire, come legami e altro di conosciuto e solito, che prima di tutto sei preoccupato di  salvaguardare. Sei alle prese con un confronto, che non riconosci come tale, della cui presenza non ti capaciti, tra parte di te profonda che vuole richiamarti a cercare il vero e a trovare unità di intesa con tutto te stesso e te che vuoi spingere avanti le cose nel modo solito senza dubbi e senza intralci. Il dubbio e il senso di incerto e di pericolo la tua ansia te lo agita dentro, ma tu ne dai lettura come fosse una anomalia da tenere a bada, un disturbo da sanare e da togliere di mezzo. Cauto e saggio è il tuo profondo a esercitare il forte richiamo a preoccuparti di te e a procurarti ciò di cui manchi, incauto è fraintenderne la voce e bistrattarla.