domenica 30 novembre 2025

Il volto sano del malessere interiore

Non sono mai casuali le espressioni del malessere interiore. Non sono mai il segno di un guasto, di un modo di sentire anomalo e alterato, non sono espressioni di patologia come si dà per scontato. Sono sempre esperienze interiori significative, valide e capaci di svelare nodi decisivi, verità essenziali. Vediamo qualche esempio. Il senso di vuoto, la perdita di interesse per tutto, il senso di oppressione di una vita che ormai non dà spazio se non a un senso di impotenza e di inadeguatezza, la paralisi crescente dell'esistenza nella fissità del dolore, dello sconforto, la visione di sè come inutile presenza e senza valore, tutto ciò che fa sentenziare depressione, è deragliamento nella patologia o dice e svela, vuole svelare e dire? Calato il sipario, spente le luci della scena (e chi se non l'inconscio ha l'ardire di provocare tutto questo?) cos'altro c'è interiormente, cos'altro resiste autonomamente, al di là del beneficio dell'applauso, della considerazione altrui e della loro convalida, che sappia tenere su la persuasione di una costruzione che si presumeva salda, ma in realtà fasulla, rimediata e costruita a arte su misura e nella forma dei gusti e del benvolere altrui? Arriva il momento della verifica senza sconti, senza trucchi e senza inganni, senza falsa persuasione e iniezioni a salve di credo e di fiducia, mai oggetto di verifica, tenute in piedi e confortate solo da assenso di mentalità comune. Una vita in appoggio a altro e riempita di legami e di dedizione a questo e a quello per averne in cambio il ritorno di non patire solitudine e senso di vuoto, di incassare un senso di utilità che si avvale di qualche legame dipendente, può arrivare a mettersi, a essere messa da volontà profonda, allo specchio per vedere non già la validità degli appigli e dei presunti contenuti di valore presi in prestito, ma la sostanza di un nulla sinora tratto e generato da sè. Patologia quella che emerge o impietosa e, se ben compresa, prima base di verità da cui partire, base salda di verità, con i propri occhi e dolorosamente verificata per invertire la rotta, per disporsi finalmente a costruire da sè qualcosa che abbia fondamento proprio e senso? Se rivolgiamo lo sguardo a un'altra possibile espressione del malessere interiore, in cui la morsa del controllo ossessivo, della tenuta in ordine precisa e senza sgarro, del tenere a bada e scongiurare esiti temibili e sciagurati, sono ferrei imperativi, possiamo non vedere che una simile piega non è certo incoerente con un'impostazione di vita in cui tutto deve girare in efficienza e il dentro non deve fare scherzi, avere l'obbligo di assecondare, di non procurare sorprese? Cosa rivela dunque questa esasperata e minuziosa ingegneria del controllo? In una forma estrema, persino grottesca, possiamo vedere l'isolamento e la prepotenza della macchina razionale, a cui, confidando tanto nella sua capacità e affidabilità, è stato dato il compito di guidare l'esistenza, testa razionale che non sa ascoltare, che non vuole se non darsi conferme, che con rigore matematico combina i pensieri sulla base e nelle guide del pensato comune e dei significati già ben codificati, che per ciò che concerne il rapporto col sentire, con emozioni e spinte interiori, lo concepisce solo come scarico immediato, come sfogo, che perciò si industria con ogni mezzo a tenere sotto sequestro e presa stretta per non rischiare di finire male, nel disordine, nel pericolo di deriva. E che dire dell'ansietà che serpeggia, che a tratti ingrossa, che non dà più tregua, che persino erompe fragorosamente negli attacchi di panico? Se c'è uno scricchiolio, l'ansia lo fa sentire, nella costruzione abnorme, non fedele a se stessi, pur se normale secondo mentalità corrente, di una vita, di un modo di concepirne e di tradurne la realizzazione, che, in ossequio a altro che, preso da fuori, da esempio e da credo comune, che ha fatto e fa da modello e guida, non rispetta e non rispecchia ciò che da sè, lavorando su di sè, potrebbe essere compreso, generato e fatto vivere, questo segnale intimo è assurdo e segno di un cattivo sentire e senza senso? Se questo scricchiolio con segnale di pericolo per ciò che comporta deviare da se stessi, non far vivere l'autentico di sè, sostituendolo, come si sta facendo con perseveranza con altro improprio e alieno, insiste e non dà tregua e non concede quiete, se fragorosamente l'attacco di panico segnala la dissociazione e la lontananza dalla vita intima, dalla stesse basi biologiche del proprio essere, del cuore e del respiro, che potrebbero non essere più certe, negarsi persino, minacciare di non dare più passivo seguito e sostegno vitale, come si dava per scontato, a ciò che profondamente non è riconosciuto come genuino e autentico, possiamo pensare che tutti questi segnali siano abnormi e malati, privi di significato e di scopo? Nel malessere, nelle sue espressioni non c'è patologia e devianza, bensì forza di verità che vuole emergere, forza ben orientata da una parte profonda che, a differenza della parte conscia, che preferisce ignorare e darsi tesi e persuasioni di comodo, sa e vuole porre in primo piano il vero, che non accetta di lasciare libero corso a modi di procedere e a piani di realizzazione di se stessi che non hanno fondamento e senso. Se c'è verità da trarre e spinta al cambiamento di sguardo su di sè e di consapevolezza prima di tutto, in esperienze interiori abitualmente considerate guasti, anomalie e pericoli interiori da cui difendersi e a cui porre riparo, questo mette in discussione il modo abituale di considerarle e di intendere il prendersi cura di sè. Quanto è saggio e favorevole trattare simili esperienze interiori, certamente non agevoli, dolorose, ma non per questo assurde e patologiche, esperienze certamente non facili da intendere se non si è aiutati a comprenderne il linguaggio e il vero significato, trattarle come presenza malata da curare, da manipolare e zittire a suon di correttivi farmacologici, trattarle con psicoterapie che mettono in campo, come fossero verità di scienza, giudizi di disfunzionalità, bollando tutto come un sentire distorto e dannoso da raddrizzare, oppure andare alla ricerca di presunte cause dell'intimo sofferto in infelici precedenti dell'infanzia, in traumi e roba simile, sempre pensando che ci sia in atto un guasto da spiegare e risanare, fare tutto questo quanto è saggio e favorevole? C'è tanto da riscoprire sul significato vero della vita interiore, c'è tanto da rivedere per non correre il rischio di fraintendimenti non certo innocui, anche se sotto l'egida della benevola cura e delle presunte verità della cosiddetta scienza.

domenica 23 novembre 2025

Si può

Si può fare dell’intima sofferenza non la minaccia da combattere e da cui fuggire, ma viceversa l’occasione, il punto di incontro vivo ritrovato con se stessi, la via d’ingresso per cominciare a comunicare con la propria interiorità, con la parte di sé, intima e profonda, che ha scelto di non stare inerte e zitta e che, smuovendo l'interno anche vivacemente e non dando tregua, ha in realtà intenzione di comunicare, di dare. Dove, rinunciando a contrastarla o a metterle sopra giudizi o spiegazioni, le si dà apertura e ascolto, come si impara a fare in una buona esperienza analitica, questa parte viva del proprio essere si rivela capace di dire e di dare tanto.  Dentro il malessere interiore non si è in balia di uno stato anomalo e malato, ma si è alle prese con l’iniziativa della propria interiorità che proprio con quel sentire arduo e sofferto, così incisivo, esercita forte presa e fermo richiamo a portare l’attenzione su di sé, un’attenzione altrimenti sempre rivolta a non perdere contatto e posizioni con l’esterno, dando tutto per scontato e già definito nella conoscenza di se stessi, del significato e delle possibilità realizzative della propria vita. Il malessere non è segno di fragilità e di patologia, semmai è segno di salute del proprio essere per lo scopo che sa e che vuole perseguire, per l'intento che ha il profondo di se stessi di dare spinta e occasione per mettere mano alla propria vita. L’intento è di  vederne senza veli lo stato attuale, di mettersi allo specchio nella propria modalità di procedere, di riconoscere dentro quali vincoli e perseguendo quali scopi ci si muove, spesso più omogenei e fedeli a altro che a se stessi, di cui poco o nulla si conosce. L'intento del profondo è di spingere a prendere visione e consapevolezza del proprio modo di stare in rapporto, spesso in lontananza, col proprio intimo, per andare a scoprire della propria vita, in unità, in ascolto e in dialogo con tutto il proprio essere, il significato vero e originale e le possibilità, consoni e corrispondenti a sè. Tutto questo si rende ben riconoscibile nel corso dell'esperienza analitica, lasciando parlare l'intimo, imparando a comprenderne la voce e il linguaggio, ascoltando e seguendo fedelmente le tracce del sentire e soprattutto imparando a comprendere i sogni, che sono il prodotto più avanzato del pensiero del profondo, dentro cui l'inconscio svela con grande maestria passo dopo passo cosa c'è in gioco nella crisi che si è aperta interiormente e quali sono le scoperte su se stessi da fare e i nodi da sciogliere. Si pensano e si trattano le condizioni di malessere, di crisi e di sofferenza interiore come stati anomali, di alterazione e compromissione del modo e  del corso normale e sano, da contrastare e da risanare, casomai da giustificare e da spiegare pensando a cause e a turbative esterne di cui si sarebbe stati vittime, non se ne conosce e riconosce il volto maturo, di spinta a uscire da una condizione non certo matura di inconsapevolezza e di lontananza da se stessi, dal vero di se stessi. La parte profonda è proprio su questo terreno che prende iniziativa, che vuole segnare una cesura nel solito modo di procedere e di pensarsi, un fermo per guardarci dentro, per riaprire tutto, per mettersi nelle condizioni di trovare il vero e l’autentico di se stessi. La risposta è in genere quella di considerare anomalo e minaccioso lo stato interiore segnato da crisi e da malessere, di considerare le espressioni del disagio come segni di difettoso funzionamento, pronti a correre ai ripari, esercitando cura verso se stessi nella forma della ricerca del sollievo, dell'evasione, cercando aiuto che procuri armi e soluzioni per mettere a tacere, per trovare rimedi e aggiustamenti, per darsi e per farsi dare spiegazioni di ipotetiche cause, ricercate il più spesso nel passato remoto, in torti patiti, in traumi subiti, ritenuti cause di guasti che prolungherebbero i loro effetti nel presente, di una sofferenza di cui si auspica di liberarsi finalmente per stare bene. E’ uno stare bene, tanto esaltato e ben voluto, che in realtà si fonda e si traduce in uno stato di disunione, di disaccordo col proprio intimo, di cui si ha più diffidenza e timore, verso cui c’è più pregiudizio e insofferenza che capacità di ascolto e di intesa. E’ un modo di pensare e di trattare le vicende intime che ognuno applica a se stesso e che ha dalla sua una persuasione molto diffusa e comune. E’ raro che sia compreso cosa c’è all’origine e cosa c’è in gioco nel malessere interiore, quale sia il suo scopo. Si pensa che ci siano nelle espressioni del malessere interiore solo i segni di un alterato stato interiore cui provvedere, per ridare continuità e togliere pesi e intralci al corso abituale, ignorando che il malessere e la crisi vogliono aprire la strada a un diverso, profondamente diverso rapporto con se stessi, con la propria parte intima, capace di rinnovare profondamente il proprio essere e la propria vita. Formare e sviluppare la capacità di accogliere, di ascoltare, di comunicare con parte viva e profonda di se stessi è dunque la conquista da fare, che tanto è fondamentale e decisiva per l'andamento e per la qualità della propria vita, quanto è solitamente trascurata e sottovalutata. Se c'è un'anomalia nel proprio stato è proprio nella mancata unità e nella incapacità di incontro, di ascolto e di dialogo col proprio intimo, di cui si ignora tutto, il linguaggio, l'intento e le potenzialità. Tutto si è imparato in anni e anni nel corso della propria vita tranne che a rivolgersi a se stessi, a ascoltarsi, a capire il linguaggio delle proprie emozioni e dei propri stati d’animo, a scoprire il potenziale e il valore, l’affidabilità del proprio sentire, a comprendere che i propri sogni notturni sono ben di più e ben altro che i residui sparsi dell'esperienza diurna o costruzioni immaginarie ingenue e di nessun valore, ma potentissime guide di pensiero e di conoscenza, a intendere che i confini del proprio essere, delle proprie potenzialità conoscitive e di realizzazione vanno ben oltre quelli dell'esercizio del pensiero ragionato, della volontà e della capacità di agire. Tutto questo, il recupero di una unità e di una capacità di rapporto con l'intimo e profondo di se stessi va costruito e coltivato. Se ci si è esercitati solo a trattare il rapporto col mondo esterno e a riconoscere e a rincorrere solo occasioni esterne, va costruita la capacità di entrare in rapporto col proprio mondo interno, con ciò che vive e che di continuo si propone dentro se stessi. Quello interiore non è un mondo fragile e di nessuna consistenza, nel proprio intimo e profondo c’è la parte di se stessi più attenta a cogliere senso e implicazioni della propria esperienza, meno incline alla dispersione e alla fuga, c’è un potenziale di forza d'animo e di pensiero che non ci si aspetta. Si può andargli incontro, stabilire un rapporto, far sì che possa dare a se stessi ciò di cui si ha profonda necessità. Senza il contributo di questa parte preziosa di se stessi, che purtroppo tanto è essenziale, quanto è facilmente e abitualmente sottovalutata e fraintesa nel suo significato, si è esposti al rischio di non capire nulla di se stessi, di non avere occhi per vedere il vero, che, anche se scomodo, fa crescere e dà forza, di non avere guida per orientarsi, di rimanere ingabbiati nella visione che considera realistico e possibile solo ciò che è già comunemente concepito e dato. Senza questa unità con se stessi, orfani del proprio intimo, incapaci di un dialogo aperto e fecondo con la propria interiorità, si è inclini a cercare sostegno e compensazione in altro per avere una parvenza di stabilità e di contatto vitale, di vicinanza. La paura della solitudine, vissuta come terra arida e come vuoto, spinge di continuo a legarsi e a fondersi con altro e con altri, allontanando sempre più la possibilità di un rapporto aperto e sincero, caldo e fecondo con se stessi e di conseguenza di un rapporto autentico e rispettoso, non strumentale con chiunque. Non si può essere se stessi se non si è uniti a se stessi. Se, come è inevitabile, vista l’inesperienza, si rende necessario l’aiuto di chi introduca al dialogo con se stessi, di chi sappia aiutare a formare e a far crescere capacità di ascolto e di incontro con la propria interiorità, per ritrovare finalmente il filo di un discorso proprio e per tesserlo con cura perché diventi bussola per orientarsi e terreno saldo su cui poggiare, ciò non minerà, ma arricchirà soltanto la propria crescita. Far ricorso a un simile aiuto non intaccherà la propria autonomia, ma contribuirà viceversa a farle trovare il suo più valido e solido fondamento: il legame e il rapporto con la propria interiorità, l'unità con se stessi. Si può, basta volerlo.

domenica 2 novembre 2025

Chi cura chi?

Sembra scontato, pare una certezza incrollabile. In presenza di un'esperienza interiore difficile e sofferta ciò che pare utile e necessario è risolvere quel disagio, rimettere le cose al dritto di una condizione che lo veda risolto, superato. Ecco l'idea di cura che appare necessaria, valida, auspicabile. Ciò che interiormente, nel sentire, si ritiene non andare per il verso giusto va tolto di mezzo, superato. Lo si può fare con rimedi che cerchino di zittire o di rovesciare quel sentire come con l'impiego di farmaci, che siano antiansia o antidepressivi, l'importante che siano anti ciò che si prova e che siano nelle intenzioni capaci di correggere e lenire o condizionare il sentire perchè soddisfi l'istanza di ritrovarsi possibilmente meno limitati e presi da sensazioni e stati d'animo che paiono solo negativi, disturbanti, in qualche misura invalidanti. Lo si può fare ricorrendo a psicoterapie che prevedano l'impiego di tecniche per tenere a bada, per tentare di smontare ciò che, giudicato anomalo e disfunzionale, farebbe appunto, senza alcuna base di senso, senza alcuna valida ragion d'essere, solo danno. La cura può anche cercare di dare spiegazione del perchè di quel sentire difficile e sofferto e in questo caso il territorio di caccia, la risorsa preferita è il passato ricostruito come teatro di traumi e di infelici condizionamenti subiti, che avrebbero avuto la responsabilità, la colpa di compromettere, di guastare il sano equilibrio psichico, di lasciare una sorta di pecca che non dà tregua, che insidia, che compromette il quieto e sano vivere. E' il trionfo del cosiddetto buon senso suffragato, ben sorretto e puntellato da ciò che è considerato e che si autoproclama scienza. C'è sapore di scienza nei farmaci prescritti da specialisti. Come non considerarli atti di scienza cui dare delega in bianco e fiducia? Oltretutto sono atti che promettono di dare soddisfazione a una richiesta di cui si è portatori, di correggere e risanare ciò che già da sè, prima che lo confermi il dottore, si considera non normale, malato e fonte di danno. Se poi si sceglie la psicoterapia dell'aggiustamento, analogo è il mandato al terapeuta di aiutare a rimettere le cose a posto. Se si vanno a cercare le cosiddette cause, anche qui il presupposto che ci sia qualcosa di cui si è stati vittime nel passato preferibilmente, è già nel pensiero e nell'atteggiamento vittimistico di chi dà mandato al terapeuta di guidare l'indagine per indagare e fare presa su qualche perchè, su qualche causa. La cosiddetta scienza va in soccorso delle attese più comuni e le consolida. Tutto gira a dovere in un'unica direzione e l'idea della cura come aggiustamento e liberazione da una condizione infelicemente patita e da cui essere tratti in salvo trova piena conferma. Salvo che ciò che in tutto questo agire contro il malessere interiore nelle sue diverse espressioni, in soccorso e in rincorsa della cosiddetta normalità e di un procedere che non paghi prezzi di sofferenza e di intralcio al quieto o sano vivere, avviene senza mai dare veramente ascolto a quel sentire intimo e sofferto, senza prendere visione della natura, dei fondamenti di quell'attaccamento alla cosiddetta normalità, senza una verifica attenta di cosa sià per sè quello stato di normalità. La visione che si ha di se stessi chiude sostanzialmente i confini del proprio essere nella parte cosiddetta conscia di capacità di conoscenza fondata sul ragionamento e di capacità decisionale fondata sull'esercizio della volontà. Ci sono certo tangibili come parte di sè le emozioni, gli stati d'animo, il sentire, le spinte di desiderio, le pulsioni, ma questa è considerata una sfera inferiore, segnata, a proprio giudizio, da automatismi, da una qualche cecità, da spinte da tenere comunque sotto controllo, cui non è concesso di valere più di tanto come intelligenza e valida e affidabile intenzionalità. Si porta dentro di sè un mondo che in realtà non si conosce affatto e verso cui si impiegano solo pregiudizi comuni. Se agli inizi della propria vita si era in più stretta unità col proprio sentire, via via l'affidamento a altro del compito di istruire e modellare la propria crescita ha reso sempre meno familiare e sempre più trascurato il rapporto, l'ascolto e il dialogo con la propria interiorità, cui semmai si è sovrapposto qualche insegnamento, qualche dottrina o morale che ha preso piede come autorità regolatrice. Questa condizione di progressivo distanziamento e mancata cura del rapporto diretto e intimo col proprio sentire, l'abitudine più a dare spiegazioni e a esercitare giurisdizione di controllo su proprio sentire che a riservargli attento ascolto, è la base, la premessa per ritrovarsi, quando la propria esperienza interiore diventa difficile, disagevole e sofferta, nella più sfavorevole delle condizioni, di incapacità di ascolto e di dialogo. E' una incapacità non riconosciuta però come tale, perchè si è creato il callo dell'esercizio ripetuto del pregiudizio e del controllo, dell'attitudine a gestire il dentro di sensazioni e stati d'animo vissuti piuttosto che a ascoltarne la voce, a riconoscerne l'importanza, a averne rispetto, a verificarne il valore e l'affidabilità, di cui non si è fatta ahimè esperienza e scoperta alcuna. Ricostruendo le basi del rapporto col proprio intimo e imparando, come accade in una valida esperienza analitica, a intenderne il linguaggio, a riconoscerne l'originale proposta, ecco che si possono fondare le basi del prendersi cura di sè e non nel verso del dare contro parte intima di se stessi, perchè pare che blateri o dia qualcosa di negativo da combattere e rigettare. Andando all'ascolto diventa possibile scoprire che anzi proprio quel sentire giudicato anomalo e espressione di un malo funzionamento è invece la proposta intima capace di condurre a aprire gli occhi a avvicinare al vero, a restituire capacità di sintonia con se stessi e di visione lucida, che sa dare libertà e autonomia di pensiero. Ciò che si pensava dovesse essere corretto e sanato diventa viceversa la vera cura, ciò che guidato dal profondo di se stessi sa prendersi cura di se stessi, cura che restituisce capacità di visione e matura consapevolezza. Chi cura chi è dunque un buon interrogativo, fondamentale, valido  e pertinente, anche se tanta della cosiddetta scienza e del cosiddetto buon senso sono ben lontani dall'intenderne il senso.