venerdì 27 giugno 2025

L'impresa più avvincente

Far vivere se stessi è l'impresa più avvincente e anche la più difficile. E' la più umanamente ricca, perchè non risolve l'esistenza nello stare al passo col movimento comune, nel riprodurne gli argomenti, i modelli e gli ideali, nel cavalcarne l'onda, con più o meno ambizione di distinguersi. E’ impresa che non aspira a dare al mondo la conquista encomiabile, la prestazione da applauso, ma a generare, a far vivere e crescere la propria originale creatura di pensiero e di progetto. E' avvincente questa impresa perchè nel suo compimento ogni espressione è vera e non simil vera, non ha anima artificiale, non trova linfa, nutrimento e appoggio in altro, la gioia è vera, la passione genuina, il credo sa da quale intimo seme è nato. Nello stesso tempo è impresa difficile e senza limiti impegnativa, perchè nulla è risparmiato, nè fatica, nè dolore, ma ogni tribolazione è testimone e è parte di un processo di creazione vera, che non trova e non cerca sostegno, contropartita o consolazione in altro che non sia il rispetto e la fedeltà a se stessi, il desiderio di far vivere il proprio e autentico, senza strumentalizzazione per piacere e per compiacere, senza secondi fini e senza compromessi. Non si è soli in questa impresa perchè la parte profonda del proprio essere non ha altro intento, altra passione, altra lucida aspirazione che non sia quella di riconsegnare a sè la vita e il pensiero, non ceduti a altra matrice e autorità, a altro uso che non sia la ricerca del vero e nel fedele e pieno rispetto del corso interiore naturale, di un modo proprio, da dentro se stessi sapientemente segnato e regolato, di raggiungere la conoscenza di se stessi e di ciò di cui si è portatori, senza prendere lezione da altro, senza l'attesa di farsi in qualche modo confermare e ben volere, applaudire e gratificare. L'inconscio è maestro di vita e di autonomia. Far vivere se stessi è quanto incoraggia e spinge a perseguire e a amare, stimolando a lavorare sulla propria esperienza, a impiegare la capacità di aprire lo sguardo e di formare con la guida del proprio sentire non costruzioni razionali spiantate, ma pensiero vivo e fondato, stando dentro e assecondando il proprio cammino interiore originale, che è cammino di ricerca, coltivando le proprie scoperte, incessantemente, senza piegare e strumentalizzare le proprie aspirazioni al conseguimento del cosiddetto successo, inseguendo la prestazione meritevole e ripagata da considerazione e plauso esterni e altrui. Il mio lavoro mi ha permesso e ancora mi permette di aiutare l'altro a condividere con la sua parte intima e profonda il desiderio e l'impegno di compiere l'impresa più avvincente. Come analista do l'apporto necessario per favorire e rendere possibile il suo avvicinamento a se stesso e il suo ascolto senza preconcetto della sua parte profonda, parte di sè che in partenza gli è sconosciuta e verso cui c'è solo l'attesa che assecondi e comunque non intralci le idee, i propositi e le mire consuete. Se all’inizio l’intento di chi entra in analisi è di trattare la crisi e  il malessere interiore, che lo hanno spinto a cercare aiuto, come segno, in buon accordo col pensiero comune, di una anomalia, di una condizione sfavorevole e limitante di cui liberarsi, cui attraverso l’analisi, indagando nel suo passato, trovare la causa originaria, preferibilmente esterna a sè, per metterlo a tacere, può invece, incoraggiato a un ascolto fedele, andare alla scoperta, passo dopo passo sgombrando il campo da  spiegazioni e da interpretazioni che gli sono usuali e preconcette, di ciò che il suo sentire, anche difficile e sofferto, davvero vuole e sa comunicargli e portare alla luce, riscoperto non come minaccia o segno di alterato funzionamento, ma come richiamo, stimolo, tramite e guida per vedere il vero della propria condizione e del proprio modo di procedere, dove di autentico e di originalmente proprio, generato da sè e in unità con se stesso, c'è poco per non dire nulla. Rotto il pregiudizio e scoperta la validità e l'affidabilità della proposta interiore, via via, sotto la guida del profondo, principalmente esercitata attraverso i sogni, prende volto agli occhi di chi è coinvolto nel cammino di analisi il significato e si rende tangibile e coinvolgente il fascino dell'impresa di far vivere se stesso, di coltivare e di far crescere il proprio originale e autentico. Far vivere se stessi e non incallirsi nella difesa e nell'attaccamento al corso abituale, dove, pur con l'illusione di essere artefici e protagonisti di scelte e di pensieri, di fatto ci si muove nella dipendenza dall'insieme già ordinato e concepito che circonda e che fa da guida, da garante e da tutore, ma anche da autorità che dirige e limita, che dà i confini della visione di se stessi e del proprio possibile, è impresa impegnativa, ma è risposta e aspirazione degna e a misura dell'umano di cui si è portatori. Una vita non da fuori sostenuta, vidimata e resa credibile, ma una vita vera con sviluppo e creazione originale è ciò che dal profondo si è spinti e incoraggiati a concepire e a amare. Ci si potrebbe chiedere se è questione che pesi e che valga davvero questa del far vivere se stessi, se non basti ciò che si ritiene sia già insito nel procedere solito. Cosa c'è in gioco di importante che meriti considerazione? Procedere nel modo consueto richiede spesso e volentieri mancata apertura e intesa con la parte intima di se stessi, in gran parte trascurata e sconosciuta, all'occorrenza messa sotto tutela perchè non intralci, travisata e sottomessa a giudizio e a valutazione come fosse portatrice di inadeguatezza, di insufficienze, di difettoso funzionamento, quando mette in campo vissuti, stati d'animo, risposte emotive nella forma di paure, inquietudini, freni e impacci, malumori, visti come intralci inopportuni, come segni di inadeguatezza e di insufficiente capacità di resa, pregiudizialmente considerati come anomalie, quando in realtà denunciano e vogliono dare occasione di aprire gli occhi, di riconoscere la verità di un modo d'essere e di procedere tutt'altro che autonomo e fedele a se stessi. Questa profonda distorsione del rapporto con se stessi non è poca cosa. Senza l'aiuto e la condivisione con la propria interiorità di una riflessione su se stessi, senza comprensione della verità del proprio modo di interpretare e condurre la propria vita, si viaggia ciechi e persuasi che tutto corrisponda a propria intraprendenza e realizzazione quando invece si è dentro un corso passivo, guidato da altro, affidato a altro che da fuori pare dare conferma che tutto va bene, che nella normalità è garantita la propria buona sorte. La propria vita rischia dunque di percorrere strada segnata, di replicarne sterilmente  la logica e i contenuti, poco importa se in alcuni casi con la persuasione di dire la propria con idee contro e con esercizio di critica, che da un lato nell'oggetto della critica trovano comunque  terreno e sponda, recinto e limiti su cui poggiare, che dall'altro si rifanno spesso e volentieri a corrente di pensiero contro e alternativo già pronto e in uso,  strada per nulla corrispondente a quella della propria realizzazione vera e per giunta senza averne mai consapevolezza. Lo spreco della propria vita, resa, fuor di illusioni, inutile e sterile copia d'altro o la sua realizzazione autentica sono la posta in gioco. Far vivere se stessi e non nella forma apparente e fasulla è la questione che conta. E' proprio per questo che l’inconscio agita interiormente le acque, solleva la crisi, alimenta il malessere interiore, a ragion veduta, considerando la questione decisiva, da non omettere, da non tenere sotto silenzio, stimolando l’insieme dell’individuo a prendere in mano la propria sorte, a compiere il lavoro di presa di coscienza e di profondo cambiamento necessari. Far vivere se stessi nella forma passiva e apparente non richiede lavoro su di sé se non nella pretesa e nello sforzo di produrre prestazione e resa secondo modelli e guide già definite, cercare la propria realizzazione vera richiede ben altro lavoro in unità con se stessi, attingendo alla propria fonte interiore e formando e portando a sviluppo le basi del proprio autentico. Far vivere se stessi autenticamente può, se si vuole, essere riconosciuta come l’impresa che conta, la più umanamente impegnativa e coinvolgente, la più in felice accordo e consonante col proprio intimo e profondo, la più libera, la più avvincente.

domenica 22 giugno 2025

La forza dell'inconscio

Si pensa abitualmente che il malessere interiore sia il segno dell'indebolimento, della compromissione della capacità di procedere normalmente e felicemente, minata da qualche oscura causa, da un anomalo stato interiore e psicologico. Si pensa che sia nel proprio interesse andare alla ricerca del rimedio, nel verso del contenimento della minacciosa e ritenuta insana e nociva disposizione interiore e del ristabilimento di uno stato ritenuto normale, si considera questa scelta come indiscutibilmente positiva e favorevole. Se è riconosciuta forza lo è in chiave negativa a una parte di sè che per qualche alterazione rispetto alla norma malauguratamente agirebbe contro se stessi, una sorta di patologica tendenza che non vuole cedere, che minaccia di guastare l'esistenza. Ancora in termini di forza si fa appello alla contrapposizione della forza di volontà e di resistenza come arma necessaria per combattere e per non cedere a ciò che interiormente è considerato solo nefasto. E' una lettura questa che sembra scontata, che non trova certo smentita, anzi che trova robusto sostegno nella stragrande maggioranza delle proposte curative, nella logica di cui sono portatrici, siano esse nella variante delle cure psicofarmacologiche che delle psicoterapie. Anche dove si ritenesse necessario e valido non limitarsi a contrastare i segni del malessere ma, attraverso una psicoterapia, indagare per capire, la ricerca muove infatti spesso e volentieri, seguendo una idea preconcetta di ciò che va cercato, nella direzione di rinvenire nella propria storia le cause, preferibilmente remote, di insufficienti apporti o di condizionamenti negativi da parte di figure genitoriali o significative, di accidenti negativi e di traumi psichici patiti, che avrebbero compromesso il sano evolvere della propria crescita, che avrebbero lasciato segni persistenti di un turbato equilibrio. Accade così che, assecondando l'idea preconcetta, non sia difficile trovare da qualche parte nella propria rivisitazione e ricostruzione biografica, ciò che dia conferma e soddisfazione a una simile attesa. La tesi vittimistica di un danno patito e la lettura del malessere come espressione di un turbato equilibrio non salvaguardato e a sè non garantito hanno così modo di trovare una sorta di quadratura. Entrare davvero in ascolto e in sintonia con la proposta interiore, col proprio sentire, con ciò che l'intimo profondo attraverso il malessere e la crisi vuole far intendere e con ciò che vuole promuovere di ricerca e di cambiamento, che sarebbe lo scopo da favorire per far sì che si raggiunga finalmente unità con se stessi, capacità di dialogo e non di difesa e di controllo con la propria interiorità, capacità di apertura e di scambio fecondo col proprio intimo, rimangono altro rispetto a ciò che in tanti approcci di psicoterapia, che vorrebbero essere introspettivi e analitici, si fa e si persegue. Si finisce così per parlare sopra ciò che si vive interiormente, senza lasciarlo dire, si finisce per far valere sul suo conto letture e spiegazioni, che hanno parvenza di essere scoperte, che sono in realtà il prodotto di operazioni di deduzione logica e di costruzione razionale. I terapeuti non di rado si avvalgono e portano nel loro sguardo e si sostengono nei loro processi di pensiero su teorie di scuola ben apprese e tenute pronte, come se in ogni individuo a cui prestano aiuto ci fosse alla fin fine la riproduzione di qualcosa di già previsto e concepito e non una verità originale e unica sia nei contenuti che nei modi in cui vuole interiormente emergere. Va aggiunto che parallelamente anche chi chiede aiuto pensa spesso di essere un caso tipico, che da qualche parte, in un sapere già formato e accreditato, ci sia già la spiegazione e la soluzione per ciò che di difficile sta vivendo interiormente. Non è un caso che dopo le presunte scoperte messe assieme in psicoterapia del perchè e dell'origine del malessere, il rapporto col proprio sentire rimanga più improntato a tenerlo a bada che a saper comunicare con questa parte viva di se stessi, che, inascoltata, non cessa di premere. Nessuno pensa o ben pochi che la crisi e la sofferenza che interiormente hanno preso piede non siano il segno di un'anomalia nel proprio stato interiore dovuto a più o meno remota causa nociva, da indagare e di cui (provare a) liberarsi, prendendone visione e consapevolezza o che non sia in gioco nei  propri segnali di disagio un'incapacità di adattamento, una scorretta o disfunzionale modalità di intendere e di reagire, da individuare, correggere e reimpostare, come sostengono gli psicoterapeuti del cognitivo comportamentale, ma che attraverso il malessere, da ascoltare senza preconcetti, l'interiorità, ben lungi dall'essere intaccata da cattivo e anomalo stato, ponga lucidamente questioni di sostanza, che tocchi dei punti decisivi e spinga a una verifica, a una scoperta attenta, ben oltre le apparenze e le persuasioni illusorie, del vero del  personale modo di procedere, di condurre la propria vita, di stare in rapporto a se stessi, con la parte più intima di se stessi. Questa, di una necessaria e inderogabile verifica e approfondita è la ragione e il richiamo forte del malessere interiore, come animato e reso acutamente vivo e incisivo dal profondo, da quella parte di se stessi che non chiude gli occhi, che non cerca di assecondare la ricerca a testa bassa, inconsapevole delle sue ragioni e vincoli, dell'adattamento, del darci dentro nel procedere consueto come fosse ovvio. L'inconscio è la parte del proprio essere, della propria psiche, che attraverso i sogni e il sentire, regolando tutta quanta la vicenda interiore, dà segnali puntuali e intelligenti, a tratti anche dirompenti, di messa in esame e in discussione del proprio modo di impegnare la propria vita, spesso al seguito d'altro, che ne regola gli svolgimenti e gli scopi, incuranti, così lontani dal proprio intimo, di riconoscere e di coltivare le proprie autentiche potenzialità interiori. L'inconscio, non certo sconsideratamente, mette al primo posto la necessità della presa di consapevolezza del vero della propria condizione, passo necessario per riprendere libertà e capacità di formare e sviluppare, d'intesa col proprio profondo, la conoscenza, senza suggerimenti e guide esterne, di se stessi e dei significati veri della propria esperienza, la scoperta di ciò che vale e che vuole vivere di autenticamente proprio. L'inconscio spinge verso la conquista della propria autonomia vera e sostanziale, che non si riduca al saper fare da sè questo o quello, ma che sia capacità di prendere davvero in mano le guide e lo scopo della propria vita. Questa è la forza e non certo cieca, inaffidabile o distruttiva dell'inconscio, della parte del proprio essere tutt'altro che da considerare di peso marginale, tutt'altro che da ignorare e da escludere dalla propria vita. L'inconscio può trarre in salvo, può se ascoltato e compreso, se assecondato nelle sue proposte come portate avanti nei sogni e nel sentire che anima e dirige, alimentare, formare e dare una capacità di pensiero e una forza di animo e di passione, non piegate a dare buona prova, a mettersi in fila nel seguire ciò che è consueto e ben guidato da prassi e da mentalità comune e condivisa, ma finalizzate a costruire la propria autonoma visione e capacità di dirigersi nelle scelte della propria vita. Questa è forza vera, mutuata e sostenuta dal profondo, ben altro dalla forza di esibizione e di realizzazione della parte conscia a cui si è fondamentalmente affidati e dentro cui si sta arroccati, che ha sempre bisogno per declinarsi e per stare in piedi di guida e di convalida esterna, di conforto e di plauso presi da fuori.

martedì 17 giugno 2025

La leggerezza

Quante volte capita di sentire esaltato il valore della leggerezza con riferimento a una condizione interiore che, libera da appesantimenti, permetta di transitare e stare nell'esperienza con animo leggero e sereno! Qualche valido motivo può averlo il desiderio di leggerezza quando si è in presenza di modi di trattare l'esperienza, che, facendo leva sul pensiero razionale, non fanno che mettere assieme combinazioni e incastri di idee, tanto complicate quanto sterili, in nulla fondate sul vivo e lontanissime da una relazione stretta col sentire. In altri casi un modo lagnoso e vittimistico di trattare le proprie vicissitudini fa sì che tutto all'esterno diventi bersaglio e oggetto di critica e di commento acre, cacciando il negativo sempre fuori, caricando ogni responsabilità su altro e su altri. Il fardello per un interlocutore, che sia chiamato a ascoltare simili lagne e elaborazioni, è allora davvero pesante e diventa di assai dubbio interesse ascoltare un pensiero così compattato e chiuso a ogni presa di coscienza che coinvolga chi si considera solo vittima. Lo stesso soggetto e artefice di un simile modo di trattare la propria esperienza all'insegna della recriminazione continua, può avvertire lo stato asfittico e il clima pesante in cui si costringe a respirare. Togliere e liberarsi del peso del ragionare spiantato, che complica sterilmente il pensiero e la visione, del recriminare, che rigira all'esterno ogni critica e pretesa e che inibisce e cristallizza ogni possibile nuova scoperta e processo di crescita personale, è certamente auspicabile. Per fare posto a che? A assenza di pensieri e di lavoro di ricerca? Se tutto muove con spontaneità da dentro, dall'intimo di se stessi, se la consegna è interiore, scaricarla per ottenere, in nome della leggerezza, animo sgombro, significa compiere una forzatura, evadere da se stessi. Una cosa è alleggerirsi degli inutili arzigogoli del ragionamento, dei crucci lagnosi, altra cosa è rendersi leggeri e svincolati da consegne interiori che chiedono di avvicinare ciò che è necessario per non rimanere ignari e sospesi per aria, senza le risposte che è importante trovare, privi, digiuni della consapevolezza necessaria, alleggeriti del bagaglio utile e delle guide valide per procedere a modo proprio, per dire la propria. Se c'è impegno e lavoro da assumere e da svolgere per ascoltarsi e per capirsi, per trovare sintonia con la propria interiorità, per ascoltare e per fare proprio ciò che il proprio sentire sta proponendo, ben vengano questi “pesi”, possono fornire gli strumenti necessari per non ritrovarsi, sì alleggeriti di preoccupazioni e di pensieri, ma anche in balia di un procedere senza guida e senza rotta, anonimo e inconcludente. La leggerezza, che, promettendo per sè lo stato ideale, esige di essere sgombri da carichi di ricerca e liberi dal vincolo a trovare accordo con se stessi e risposte sintone col proprio sentire, non può che consegnare se stessi alla passiva adesione a modelli già pronti, al procedere accodati e accordati con ciò che è prevalente e ben assestato nel pensato e nell'esempio comune. Ciò che non si crea, che non si genera da sè non può che essere fatalmente e malamente compensato e sostituito da pensiero, da idee, da attribuzioni di significato e di valore presi in prestito, assorbiti dall'ambiente, rimasticati soltanto, anche se con l'illusione di essere pensati in proprio. La leggerezza che, togliendo giustamente ogni inutile zavorra, non sia ricerca di accordo e di fecondo scambio con se stessi, con la propria interiorità, col proprio sentire, che viceversa rivendichi solo uno stato di spensieratezza e di svincolo da richiami interiori, rischia di produrre solo un vuoto di crescita e di autonomia.

sabato 14 giugno 2025

Vittimismo e bisognosità

Vanno di pari passo. Vittimismo e bisognosità (parlo di bisognosità come modo di porsi, come atteggiamento bisognoso nei confronti delle questioni e delle necessità della propria vita) si sostengono e corroborano a vicenda. Sono le architravi di un modo di stare al mondo che non riconosce come senso del vivere la ricerca e la creazione di pensiero proprio, la scoperta e la realizzazione con passione, responsabilità e impiego di forze e di risorse tratte da sè, di progetto proprio e originale. La bisognosità viceversa induce a avere fame di soluzioni di pronto impiego, con l'animo di chi è pronto a lamentarne la mancanza, a rigirare su altro e su altri il compito e la responsabilità di provvedere, con l'occhio attento a scorgere difetti e inadempienze in altri e in altro, con la tendenza a vivere vittimisticamente ogni percezione di insoddisfazione e di mancanza, come fossero un torto subito, una pena indebita patita. Quando l'interiorità preme e incide con forza, quando col malessere dà fermo e insistito richiamo a rivolgere l'attenzione non all'esterno, ma all'intimo, quando dà pungolo e occasione di riconoscere la propria condizione, di guardare dentro ciò che si sta facendo di se stessi, la risposta più frequente è di rinforzo vittimistico e bisognoso. Come fosse un peso e una calamità patita, come fosse una anomalia, un torto della natura o la conseguenza di qualcosa di maligno e sfavorevole che dall'esterno affligge e che non concede l'auspicata tranquillità, considerata naturale e di diritto, non c'è nessuna disponibilità a intendere il proprio malessere come specchio per conoscersi, a valorizzarlo come terreno vivo per vedere fino in fondo la verità della propria condizione, con i vuoti di realizzazione, di ricerca e di crescita personali da colmare, riconducendoli prima di tutto a sè, riconoscendo la responsabilità piena nel proprio modo di procedere e di condurre la propria vita. Tanta psicoterapia è cercata appositamente per far quadrare e per rendere più robusta la propria concezione vittimistica e bisognosa, casomai per cercare a ritroso la causa del malessere attuale in responsabilità familiari genitoriali, per trovare il trauma psichico maledetto o benedetto, che spieghi tutto, dalla cui influenza essere aiutati con varie tecniche a liberarsi, con lo scopo, perlomeno con l'auspicio, di ripartire sollevati, rimettendo in esercizio e in corsa il solito modo di procedere senza più intralci. Questo accade ben facilmente quando la psicoterapia non è proposta e capacità di dare aiuto per imparare a ascoltare l'interiorità, a comprenderne il linguaggio, per riconoscere nel malessere e nella crisi i segnali e le tracce vive, che sono ben presenti, per avvicinarsi a vedere il vero della propria condizione, del proprio modo di procedere e di stare in rapporto, spesso in non rapporto, con l'intimo di sè, per raccogliere dal proprio profondo, dal sentire e dai sogni, tutti gli stimoli e le guide per una profonda trasformazione, per la scoperta dell'autentico di sè, per la costruzione, in unità con se stessi e lavorando sulla propria intima esperienza, di una visione propria, originale e vera, di se stessi e della propria vita, di ciò che vale e che da dentro di sè vuole vivere e essere realizzato, non assumendo altro come modello e regola, che è nell'insieme la risposta coerente, sintona e congrua al malessere interiore, allo scopo che vuole perseguire. La psicoterapia prende spesso viceversa la forma di una ingegneria della risoluzione dei problemi psicologici, ben compiacendo alla attesa vittimistica e bisognosa di chi cerca aiuto,  come se nel malessere ci fosse guasto e conseguenza di qualche alterazione e compromissione dell'equilibrio psichico, presunto fisiologico e normale, che si cerca di spiegare cercandone, come già detto, nella biografia una causa, nell'educazione, nel condizionamento dell'ambiente, nei mancati o distorti apporti delle figure più significative, nell'esperienza di momenti critici, di eventi traumatici e così via. Non di rado, è la proposta della psicoterapia di tipo cognitivo comportamentale, oggi assai diffusa, è riversata sul conto del proprio malessere interiore, che sia ansia o altro che non dà tregua, l'idea che sia la conseguenza e l'espressione di un malfunzionamento o con linguaggio più tecnico di un modo disfunzionale di pensare e di reagire, da mettere in officina di riparazione. Ancora la lettura vittimistica e l'urgenza bisognosa hanno modo di affermarsi e di prevalere indisturbate, trovando semmai nella terapia, in spiegazioni di presunte cause a sè sfavorevoli, in interventi correttivi di risposte definite disfunzionali, più forte sostegno nella tesi che il malessere interiore è comunque l'espressione di un guasto, vissuto come nocivo e sfavorevole, da sanare, di una anomalia da contrastare, per rendersi liberi, senza ostacoli interiori, di riprendere, casomai con qualche aggiustamento e migliore adattamento, il procedere e la corsa soliti. Questi se non altro gli auspici. Non si possono però fare i conti senza l'oste, dove l'oste è l'interiorità che non si piega e che non ci sta a farsi travisare, dove l'oste è il rendiconto sincero, è la verità che vuole emergere e che presenta e ripresenterà il conto. Non c'è però rinuncia, dove bisognosità e vittimismo continuano a dominare incontrastati, alla pretesa di mettere a tacere un'interiorità che insiste. Se, come spesso capita, a più o meno breve distanza, ci si ritroverà a patire nuovo disagio ecco che, con l'idea di una ricaduta della "maledetta malattia", così spesso è inteso il malessere interiore, si cercherà ancora di far quadrare i conti secondo tesi e criteri di bilancio vittimistico bisognoso. Travisare è facile, persistere pure, ma l'oste non smetterà comunque di presentare il conto vero, in attesa ferma e paziente che la risposta sia finalmente di responsabilità e non di ottuso vittimismo e di cocciuta bisognosità. 

mercoledì 11 giugno 2025

Un buon rapporto con se stessi

E' difficile parlare di un buono o di un cattivo rapporto con se stessi quando non si ha una visione chiara di cosa sia, di cosa sia implicato in questo rapporto. In genere si ha una visione di se stessi che ha come fulcro e centro la parte cosiddetta conscia, che fa leva su pensiero ragionato e volontà. Non sfugge la presenza nell'esperienza che si fa di se stessi di emozioni, di pulsioni, di stati d'animo, di moti del sentire, ma li si considera contributi accessori da tenere in conto con riserva, a volte visti con compiacimento, quando sembrano confermare e esaltare ciò che si gradisce ottenere, pensare e mostrare di sè, altre volte trattati con un certo imbarazzo se non rivelano di sè ciò che si predilige o che si considera adeguato e lusinghiero, fino a provare fastidio e disappunto quando minacciano di guastare la propria reputazione, quando sembrano fare soltanto da ostacolo e impedire la riuscita che si vorrebbe. C'è poi chi si considera più vicino e permeabile alle emozioni, agli stati d'animo, c'è chi si fa vanto di doti di sensibiltà, non senza il rischio di incorrere in qualche forzatura pur di ottenere una resa che in alcuni contesti pare offrire consenso e benevolenza altrui, anche ammirazione. C'è viceversa chi si fa vanto di non lasciarsi trascinare dalle emozioni, di saper esercitare un controllo, particolarmente quando si tratti di paure, di esitazioni, di impacci, di stati di tensione e di ansietà, tutte condizioni considerate segno di inadeguatezza, di insufficienza. La parte interiore è comunque un'incognita, la vera incognita che vive, che abita dentro se stessi. Il resto è oggetto di sforzi di pianificazione, di organizzazione, la componente interna del sentire è l'elemento, la variabile che non sottosta ai programmi. Non mancano di certo i tentativi di disciplinarla, di addestrarla, perchè non comprometta, perchè anzi faccia da supporto e leva per la riuscita che si vuole ottenere. E' poi diffusa l'idea che uno stato smosso del sentire, che una condizione interiore di tensione, di inquietudine, di cosiddetto stress, possa guastare oltre che l’efficienza e la buona prestazione nel produrre pensieri e azioni, lo stato di benessere corporeo. Insomma questa parte di sé, poco o nulla disciplinabile e programmabile, rappresenta il fuori programma da tenere a bada. Cosa questa parte viva di se stessi sia e cosa voglia dire e portare nella propria esperienza è questione che non assume rilevanza,  non la assume la necessità di attenta comprensione, in genere ciò che si sente, ammesso che ci si badi, lo si spiega velocemente, ben aderendo a idee e a stereotipi correnti, ciò che invece conta è gestire questa parte di se stessi, che è scontato non abbia parte decisiva nella formazione del proprio pensiero, nella definizione degli obiettivi da perseguire, che semmai deve evitare di procurare difficoltà, di mettere in campo ostacoli o intralci. Il buon rapporto con se stessi prende dunque spesso la forma della concorde intesa e conferma di ciò che nella parte conscia si considera valido e desiderabile ottenere, col compiacimento nel registrare una sorta di tacito assenso, di silenzio della componente interna. Sono non di rado stati di breve durata, spesso con solo apparente consenso e solidarietà interna, perchè la componente intima e profonda difficilmente si adegua e tace, avendo dalla sua la capacità e l'intento di dare stimoli e richiami, di porre in primo piano esigenze di chiarimento sul conto dell'esperienza e dei modi di condurla, dei risultati perseguiti, di verifica, di spinta e pungolo alla ricerca del vero. Se il buon rapporto con se stessi fosse veramente tale si fonderebbe su apertura e confronto rispettoso e sincero, approfondito e senza riserve con questa parte di sè intima e profonda. Diversamente il buon rapporto voluto o enfatizzato ha sottintesa una pretesa di acquiescenza, di sudditanza di una parte di sè abitualmente tenuta in disparte e marginalizzata, per smorzarne i toni, quando scomodi, comunque subordinata a preteso vaglio e giudizio, a egemonia del controllore conscio. Buon rapporto allora si fa per dire, come in dittatura può essere buon rapporto quello del docile asservimento e dell'ordine che tutto copre. Nel caso dell'individuo è per fortuna garantita la non sottomissione e la non acquiescenza della parte profonda, che non smette mai di mettere in campo la sua autonomia di iniziativa e la sua libertà di pensiero.

domenica 8 giugno 2025

Alla radice della possessività

Sull’onda di fatti di cronaca drammatici si torna a parlare di cause che starebbero all'origine di legami uomo donna caratterizzati da preteso possesso e dominio dell'uomo sulla donna, fino all'estremo della violenza e della soppressione della vita di lei. Ogni storia di relazione è singolare, come è singolare la vicenda personale di ognuno, ma si insiste,  probabilmente per fornire a se stessi la persuasione di disporre di ampia capacità di critica e di comprensione, in non pochi casi per affermare buoni principi che consentano di  apparire, in contrapposizione ad altri, come virtuosi e senza macchia, nel parlare di incidenza del fattore mentalità, del peso, ritenuto rilevante e decisivo, di condizionamenti culturali e di modelli di tipo patriarcale ad esempio, che indurrebbero nel maschio senso di superiorità e di maggior diritto e che inchioderebbero la donna al ruolo subalterno. Si parla della necessità di educare ai sentimenti che non siano di possessività, di pretesa superiorità e di dominio, che portino a una visione diversa dell'altro, per fondare una diversa mentalità e costume. Insomma pare che tutto nei modi di vivere i rapporti possa cambiare combattendo cattivi principi, diffondendo invece e educando a idee, a modelli, a principi di valore capaci di sradicare quella pretesa maschile di dominare e di disporre della vita altrui, di pensare la donna come subalterna o inferiore o destinata quasi per vocazione naturale a soddisfare, a sottostare a pretese di controllo, di dominio, persino di appartenenza. Si vorrebbero educare in primo luogo i ragazzi, i giovani a sentimenti di altra natura all'insegna del rispetto, dell'attenzione, del considerare l'altro, particolarmente l'altra, non come oggetto d'uso e che assecondi le proprie attese e pretese, ma come valore di individuo da conoscere e riconoscere come degno di attenzione, di considerazione, di rispetto, di stima, la cui libertà va riconosciuta come valore invalicabile. Tutto giusto e lodevole nelle intenzioni, ma le radici della possessività non sono legate solo a condizionamenti culturali, a cattivi modelli e principi o a scarsa educazione sentimentale e alla relazione, che affermi e dia risalto all'idea che il rapporto umanamente valido e giusto è quello aperto e rispettoso e non quello di presa e di preteso possesso sull'altra, idea e principio alla base della possibile degenerazione dell'esercizio della sopraffazione, dell'abuso, della violenza. Quando l'individuo non è veramente completo e capace di autonomia, non di quella delle apparenze e dell'apparire, del saper fare e del dare prova di riuscita in ciò che è comunemente apprezzato, che illudono che ci sia stata crescita personale e sviluppo di autonomia, ma di quella vera, si pongono le basi di rapporti fortemente segnati da presa dipendente. La crescita e l’autonomia vera sono le conquiste di chi  ha saputo sviluppare la capacità di ascoltarsi e di non fuggire da se stesso, dal proprio sentire, anche quando difficile, di chi ha cercato e di continuo cerca vicinanza con se stesso e comprensione intima dei significati veri dentro la propria esperienza, cercando senza veli e senza sconti la verità di se stesso, arrivando così a vedere con i propri occhi e in unità con se stesso, senza andar dietro a suggerimenti e a guide esterne, senza sostegno di convalide o di ammonimenti esterni, ciò che di se stesso va messo in discussione, comprendendo nel vivo ciò che è giusto, che vale e che si vuol far vivere con forza di persuasione, con passione. Ebbene quando tutto questo, che non si improvvisa, ma che può essere soltanto il frutto di un assiduo lavoro su se stessi, di una responsabilità di crescita che si riconosce come spettante a sé, a prescindere da mancati apporti ricevuti e da condizionamenti esterni, non è stato perseguito, mancano le basi di autonomia e completezza di crescita personale. Accade allora, non è certo eventualità rara, che per colmare il vuoto di crescita, di sviluppo, spesso non ammesso e tenuto nascosto ai propri occhi, vuoto cui non si è provveduto e cui comunque non si intende provvedere, la tendenza sia di cercare in altro, attraverso altri ciò che interiormente manca e che non è stato coltivato e fatto vivere. La presa va su un sostituto verosimilmente analogo, che sembra fatto apposta, in realtà un succedaneo rispetto a ciò che potrebbe formarsi di proprio, che comunque pare capace o destinato a garantire quel bene vitale mancante, capace di dare riempimento e soddisfacimento, di garantire un completamento. L’effetto, che passa ai propri occhi volentieri inosservato, è di bloccare in questo modo qualsiasi processo di ricerca e di crescita personale, che giustamente e per natura sarebbe affidato a sè e di cui peraltro la parte profonda del proprio essere è anima, è fautrice e matrice essenziale (tant’è che spesso con i segnali di malessere, che produce interiormente, fa sentire l’insostenibilità di un modo di essere e di procedere così parziale e mal fondato), che richiede conquiste di consapevolezza, scoperte, verifiche e cambiamenti interni impegnativi e necessari. Il legame dipendente a pronto uso apre una scorciatoia, sostituisce il vero processo di crescita che richiede lavoro su di sè, impegno e tempo. Tende a un simile legame dipendente il maschio, spesso mancante di accesso all'intimo, di creazione di intimità con se stesso, di capacità di ascolto e di comprensione intima di se stesso, di calore di vicinanza, di scambio e di condivisione con la propria interiorità, che vede nella donna l'occasione per portare a sè, per includere nella propria vita e in modo stretto e vincolante ciò che gli manca per essere individuo vero, individuo intero e completo, autonomo, indipendente. La dipendenza, la presa su altro che dia il sostituto di ciò di cui si manca e della cui ricerca e crescita non si riserva a sè il compito, non è, come dicevo, modalità così rara e i rapporti interpersonali sono spesso di interdipendenza. I due reciprocamente mettono per così dire le mani l'uno sull'altro per portare a sè ciò che desistono dal riservare a sè come ricerca e costruzione vera e ben fondata, come esigenza di sviluppo umano, come scoperta e conquista da coltivare e far crescere dentro se stessi e in modo autonomo. Lo stesso rapporto dell'individuo con l'insieme, con la cosiddetta realtà che sta attorno è spesso di natura dipendente dove si concede a modalità consolidate, a soluzioni e percorsi  già ben definiti e organizzati, a pensiero e a esempio comune di essere guida e veicolo per istruire il proprio pensiero, per indirizzare la propria vita, per deciderne i modi, le tappe, i traguardi, gli sviluppi, tutto in vece, in sostituzione della ricerca di formazione di una propria capacità di guida autonoma, di vero autogoverno. Nel rapporto di coppia il legame interdipendente trova grande opportunità di compiersi, di svolgere la funzione di dare pseudo completamento ai due, non lavorando ognuno su di sè, ma prendendo dall'altro. Allora i vuoti, le lacune di crescita, le pseudo conquiste, di facciata e in realtà inconsistenti, hanno modo di trovare una sorta di riempimento e di assestamento, il mutuo soccorso e la comune ideologia dell'unione e dell'amore (quale amore è possibile nella dipendenza?)  fa sì che la coppia procuri  ai due la promessa di un idilliaco compenso e assestamento. La visione che propongo e che cerca il vero oltre la superficie e il recinto della retorica dei sentimenti, ovviamente non coincide con la lettura convenzionale che esalta il sentimento, l'innamoramento o altro come spiegazione di ciò che i due mettono assieme e cui danno compimento nella loro storia e nel legame che vanno a instaurare. Ciò che accade e non di rado è che l'uomo che, come già dicevo, è in non pochi casi spiazzato e lontano rispetto all'intimo della propria esistenza, a ciò che vive dentro se stesso, povero di familiarità e di capacità di rapporto col suo sentire, di dialogo intimo e caldo, di conoscenza vera di sè non rattoppata e costruita razionalmente e in astratto, abituato a gestire e a dare prova di prestanza nel ragionare, a cercare la prova del proprio valore nell'operare e risolvere su piano concreto e del fare, del primeggiare come prestanza di testa e di capacità di successo concreto, porti in sè disattesa una necessità fondamentale, una mancanza non di poco conto, dentro una condizione complessiva che, fatte salve le illusioni, non è certo di individuo autentico e completo. Non è insolito che, dove non riconosca la necessità di una profonda revisione del proprio stato, di un lavoro su se stesso per colmare quei vuoti, cosa non frequente, la spinta dell'uomo sia di percorrere la scorciatoia di cercare la fonte di calore, di gioia, di un che di amorevole che lo sorregga, che gli dia conferma e rassicurazione in una forma più intima, più esclusiva, che gli dia vicinanza e cura di sè,  nella donna, che pare potergli rappresentare e dare simili risorse cui attingere, da portare e da stringere a sè. Dall'altra parte la donna, che parrebbe più vicina alla dimensione intima del sentire e degli affetti, ma che non è affatto detto che con questi abbia un rapporto sincero e rispettoso e non strumentale, lei stessa spesso in fuga dal suo sentire vero, soprattutto se difficile e sofferto e lontana dall’aver sviluppato capacità di ascolto e di dialogo con la sua interiorità, ha dalla sua la difficoltà di trovare risposte alla necessità di prendere in mano fino in fondo la propria vita, di trovare, di generare e di riconoscere da sè il proprio valore, di tenere ben salda nelle proprie mani la guida della propria vita senza appoggi, rassicurazioni o garanzie prese da altri come da un uomo, che, dove le offra valorizzazione come oggetto di desiderio, di predilezione, di investimento di interesse e di ricerca di legame, parrebbe offrirle un grosso alimento alla propria autostima, oltre che la garanzia di dare più salda e garantita realizzazione o sistemazione alla propria vita, perlomeno secondo i canoni e i modelli di realizzazione più diffusi e vigenti. Il rapporto uomo donna, che oggi, sull’onda di fatti, di vicende incresciose, torna a essere oggetto di dibattito, si forma, prende avvio spesso all'insegna della disattenzione a conoscersi veramente e in profondità e dell'equivoco reciprocamente messi in campo, perchè la istanza e la modalità dipendente, non riconosciute come tali, ben camuffate e equivocate dalla lettura retorica dei sentimenti, lavorano proprio per rendere possibile quell'unione di reciproco interesse a stabilizzare e a completare seppur in modo surrettizio, oltre che fragile e posticcio, la propria vita. Le sorprese sono di conseguenza dietro l'angolo e chi nella fase del cosiddetto innamoramento appariva creatura luminosa, generosa e prodiga di attenzioni l'indomani si rivela essere presenza arida e egoista, sempre più simile a un individuo che di sentimento vero non ne ha proprio per nulla, ma che pretende solo attaccamento e esercita presa dipendente con tutti i risvolti anche degeneri del caso, di prepotenza e possessività. Preso dall’altra persona e portato a sè come bene essenziale ciò che non è stato sviluppato dentro di sè, ecco che l'altra diventa come proprietà da cui non ci si può, ma soprattutto non ci si vuole separare, che, in quel vissuto di appartenenza a sè, non ha diritto di vita e di espressione propria, di andarsene se lo crede. Prendere da fuori ciò che non ci si è dati da sè, come invece sarebbe naturale, necessario e valido impegnarsi a fare, prendere da un altro essere e caricarlo della funzione e della capacità di offrire ciò di cui si ha vitale necessità, fa sì che chi ha supplito alla mancanza diventi, sia vissuto come parte di sè essenziale, in assenza della quale si profila la disperazione di perdere qualcosa di vitale, che si accompagna all'accendersi fino all'esplosione di un sentimento di rivolta e di rancore nel vedersi privare, come per un torto inflitto inaccettabile, di qualcosa che si considera dovuto a sè, che non si accetta che si stacchi, che vada via e che viva casomai legandosi a altri. Crescere in autonomia è crescere in completezza umana, che richiede lavorare su di sè, costruire ciò che nessun altro può e è legittimo che debba offrire, un sostituto, un succedaneo, una risposta che non è ciò che spetta a sè coltivare e generare perchè abbia forma viva, vera, originale. Solo individui interi, che si sono assunti la responsabilità di fondare su di sè e di costruire la loro completezza umana, compito, desiderio e aspirazione non delegabili a niente e a nessuno, possono tra loro dare vita a rapporti che siano trasparenti, rispettosi e fecondi, dove il riconoscimento della dignità e della  libertà dei due non è un principio o un dovere astratto da osservare per legge esterna, un valore semplicemente assimilabile e inducibile con l'educazione o il cambiamento culturale, come oggi non pochi vogliono far credere, ma un convincimento interno maturo, frutto genuino di un approfondito lavoro su se stessi, un che di fortemente sentito, un credo e una passione sinceri e profondamente fondati.

mercoledì 4 giugno 2025

La grande seduzione

Quanto è seducente affermarsi e ben figurare agli occhi degli altri, riscuotere apprezzamento, riconoscimento di valore! E' tale l'entusiasmo che suscitano queste conquiste, che è completamente omesso, non visto, nemmeno messo in possibile conto, che tutto questo credito di valore personale che se ne ricava, che ci si concede sta in piedi solo a condizione di offrire allo sguardo e al giudizio altrui ciò che piace, che è ben considerato, considerazione, che a sua volta, come da parte propria così anche da parte altrui, si fonda su stereotipi, su giudizi di valore presi in prestito da senso comune e dati per scontati. Un circolo vizioso, dove ciò che circola appunto è solo il consenso, frutto di passiva adesione a un pensiero già formato e codificato, conseguenza e segno di mancato sviluppo di  pensiero proprio, autonomo, fondato su esperienza, riflessione e scoperta autonoma di significati e comprensione di ciò che vale, vedendone con i propri occhi il fondamento, il suo perchè. Basta davvero poco per rendersi contenti e persuasi che il riciclo di preconcetti, di preconcetti belli e buoni, sia moneta spendibile preziosa, affidabile. L'aspirazione di valere, che la propria vita non scada nell'insignificanza, di avere capacità di realizzare qualcosa di degno, è aspirazione centrale, non di poco conto. La questione è come è tradotta questa aspirazione, che può trovare facile soluzione nel seguire pista già segnata, nel farsi dire e dare conferma, nell'esonerarsi dal compito, ben più impegnativo da assolvere, di trovare e formare da sè le basi della propria autentica e fondata realizzazione, del generare e far vivere qualcosa che ai propri occhi abbia consistenza di senso e di valore. Trarre da sè in unità e fedeltà col proprio intimo le proprie risposte e le scoperte di ciò che vale richiede paziente lavoro sulla propria esperienza, assiduo ascolto e  dialogo con la propria interiorità. E' scelta ben più impegnativa, che non ha rapida soddisfazione pronta come invece accade nel cercare di dotarsi e di fare bella mostra di ciò che già è ben definito e qualificato agli occhi dei più come valido e importante, ma è anche aspirazione ben più sentita e avvincente del solo emulare modelli e riprodurli, per trarne plauso e sostegno esterno alla stima di sè e al valore delle proprie realizzazioni. Trarre da sè le scoperte di significato e di valore genera passione vera e convinta di far vivere e crescere ciò che si riconosce autentico e proprio, passione che non ha bisogno di plauso e di consenso esterno, ben altro dal compiacimento per la mancia di apprezzamento ricevuta nel dare prova e nel fare mostra di ciò che appare al giudizio altrui degno e meritevole. La questione del valore di ciò che si fa di sè e della propria vita, del modo in cui è intesa e risolta è comprensibilmente centrale, così rilevante da richiedere di non essere lasciata nelle nebbie dell'inconsapevolezza e delle autopersuasioni non soggette a attenta verifica. Capita, proprio per questo motivo, che una parte di se stessi, intima e profonda, tanto scomoda quanto intelligente e saggia, tanto impertinente quanto appassionata alla verità, che è la sola forza che può spingere e guidare a rendersi liberi e a crescere, non dia manforte alla celebrazione degli allori, che viceversa ci metta lo zampino per rendere tangibile che l'edificio del successo, dell'autoaffermazione nei modi e sulle basi dette all'inizio, non sta su, che se sta su lo fa solo poggiando su basi di ingenuità e di credulità imbarazzanti quando viste da vicino e lucidamente. Non aprire gli occhi implica portarsi dietro l'idea che la propria vita stia realizzandosi, quando tutto si regge su conferme esterne, a loro volta tutt'altro che intelligenti e fondate su capacità autonoma di giudizio. L'inconscio, la parte che diverge e che non dà manforte, è spesso la sola parte dell'individuo che ha intenzione e capacità di vedere oltre la patina bella fatta di illusioni, è la sola parte dell'essere che non dà tregua, che cerca di aprire falle, di dare spunti per capire, per aprire gli occhi finalmente. L'inconscio è il guastafeste che nello svolgersi dell'esperienza mette ostacoli, che a volte mette il freno, l'intralcio di una ben sgradita ansietà, di un impaccio, di una amnesia improvvisi, di un malumore inaspettato, di una caduta di interesse e di entusiasmo, che paiono incomprensibili, di un imbarazzo improvviso che così esposti e con trepidazione allo sguardo esaminante altrui pare il peggio da mostrare. L'inconscio fa vedere da un lato quanto quello sguardo altrui, così cercato e ben gradito quando applaude, è così tanto temuto quando rischia di decretare l'insuccesso, la magra figura, sia rilevante e decisivo e dall'altro, non solidarizzando e anzi mettendo intralci e freni alla foga della buona riuscita, vuol far capire che c'è qualcosa che conta di più della buona o perfetta riuscita. Cosa può valere di più?  L'inconscio non ha dubbi, ciò che vale e che è all'altezza dell'essere individui, dell'essere umanamente compiuti, è prima di tutto aprire gli occhi, primo passo, tanto importante quanto impegnativo e anche non immediatamente piacevole, per prendere visione della condizione dipendente, pur ben addobbata, camuffata e travestita da capacità di autoaffermazione, in cui ci si è incastrati, una condizione, tutt'altro che matura e di cui compiacersi, condizione di bravi bambini impegnati a recitare bene e a produrre ciò che vale per meritarsi il ben volere e l'apprezzamento altrui. L'inconscio per porre in crisi, per indurre a un riesame attento il proprio modo di procedere, può spingere la sua iniziativa ben oltre. Uno stato interiore segnato da ansietà continua, oscurato da caduta di fiducia, da infelicità disarmante, da blocco di ogni spinta di desiderio e di iniziativa, valgono a dettare le priorità, a mettere sotto esame e verifica, a fare stima onesta e vera di un corso di vita, guardando ben oltre le apparenze, così consegnato a regolazione esterna, così dipendente, così fasullo, così mancante di realizzazione autonoma e vera. Lo scopo che ha in testa e in animo l'inconscio è di rendere prima di tutto ben visibile all'individuo il rischio di vendersi, casomai fino al termine del suo cammino di vita, eventualità non così remota, all'illusione di una vita ben spesa e realizzata, prestando fede e facendo conto su ciò che altri e il pensiero comune considerano valere, per aprire la strada invece alla scoperta del significato, del fascino e della validità di una vita spesa per sviluppare pensiero proprio e autonomo, per far vivere ciò che, in unità col proprio profondo, si arriva a riconoscere da sè e con i propri occhi come valore da difendere e da realizzare.

domenica 1 giugno 2025

Sentire e pensare

Nel confronto con l'esperienza interiore, con quanto si prova di emozioni, di stati d’animo, si tende spesso a separare presto vissuto e pensato, a trattare quanto vissuto interiormente solo come vago indizio o pretesto per passare in fretta a sovrapporgli significati e spiegazioni, tanto in apparenza plausibili e convincenti, quanto arbitrarie. Perché arbitrarie? Quando ciò che si sente non è raccolto e fedelmente riconosciuto in ciò che originalmente propone, ogni volta rispettandone l’unicità e non considerandolo copia o ripetizione di altro già sperimentato o sperimentato da altri, quando non è ascoltato con attenzione nel suo dire, ma reso solo espressione tipica di qualcosa che si presume di sapere, che già si ha in testa, che spesso si trae da idee abituali e comuni, ogni spiegazione messa sopra alla propria esperienza interiore, al proprio sentire è arbitraria, incongrua, come accade nel rapporto con l'altro quando già si commenta e si parla sopra ciò che l’altro sta dicendo, senza stare ad ascoltarlo, rimanendo zitti e col desiderio di farsi portare a comprendere. Nel rapporto col proprio sentire, particolarmente quando sofferto e difficile, è operazione assai frequente cercare di spiegarne il perché e il percome, facendo ricorso a giri di ragionamento, cercando in cause ipotetiche e in apparenza plausibili le ragioni del disagio, incastrandone in soliti schemi già noti tutto il senso. Accade dunque che il sentire non sia ascoltato in ciò che dice e rivela, in ciò che vuole condurre a riconoscere. Si pensa che ciò che si sente nasca sempre da una causa esterna e che ne sia risposta condizionata, un effetto, una automatica reazione. Il sentire non è conseguenza di una causa, una sorta di risposta riflessa, il sentire è ben altro e di più, è luogo d'esperienza e fondamento vivo di ricerca, è via e guida di conoscenza, è proposta intelligente. Col ragionamento viaggiamo liberi in lungo e in largo e costruiamo ipotesi tanto ben disegnate e sagomate quanto spesso sterili e lontane da ogni relazione con l'esperienza intima, tanto ben ricamate quanto spiantate e perciò senza alcuna corrispondenza con noi. Il sentire ci riporta al terreno vivo e reale di ciò che ci coinvolge e che ci riguarda davvero. Il nostro sentire ci permette in una forma sensibile di entrare puntualmente in rapporto con ciò che abbiamo necessità di avvicinare, di capire di noi stessi, un pò come conoscere una cosa toccandola, sentendola, un pò come camminare a piedi nudi e sentire il terreno, apprezzando tutte le caratteristiche vere del cammino che stiamo facendo passo dopo passo. Se col ragionamento risistemiamo le cose, spesso e volentieri, a piacimento, nel sentire non ci tacciamo nulla. Se si ha a cuore la conoscenza del vero di se stessi, è necessario dunque riservare grande attenzione al sentire, averne rispetto, imparare ad ascoltarlo sempre, senza rifiuti, senza separazioni di comodo tra bel sentire o brutto, è fondamentale non dare per scontato nulla sul suo conto, non trarre rapida conclusione che dipenda da questo o da quell'altro, che ne sia ovvio il senso, per viceversa imparare a riconoscere con sguardo attento ciò che sta rivelando, dicendo. Per intima esperienza e imparando a raccogliere ciò che il sentire produce, tenendo strettamente vincolato il pensare al sentire, si può davvero capire, conoscere. Separando il pensiero dal sentire e consentendo al pensiero scisso di tenere in pugno la conoscenza come ragionamento, ci si chiude a qualsiasi possibilità di capire se stessi. Solo facendo esperienza col sentire e mettendoci, attraverso riflessione, come allo specchio per vedere cosa succede dentro le nostre sensazioni e stati d’animo, cosa ci rimandano di vissuto, di attuale e vivo di noi stessi, possiamo fare conoscenza fondata e vera, utile e feconda. Solo imparando da un lato a concederci al nostro sentire spontaneo e vero, perché ci permei, ci renda partecipi e coinvolti e così facendo ci guidi, anche se a volte per percorsi difficili o dolorosi, solo imparando a riflettere, perciò a rispecchiarci e a riconoscere ciò che il nostro sentire nella sua forma, nei suoi modi ci rivela di ben fondato e vivo di noi stessi, possiamo tenere ben unito il nostro pensare, il nostro intento di vedere, di capire, col nostro sentire, evitando che il nostro pensiero (raziocinante), scisso dal sentire, prenda indirizzo avulso, forma astratta e arbitraria, fuorviante e inconcludente. Va detto poi che il nostro profondo, che genera e plasma per intero il nostro sentire, che ci propone percorsi a volte non facili, ma sensati, attraverso cui capire, imparando a non fuggire, ma standoci all’interno e dall’interno prendendo visione e consapevolezza, è anche assai generoso di indicazioni e di suggerimenti per capire, con lucidità e ampiezza di orizzonte, noi stessi e quanto sta accadendo, attraverso i sogni. Certo i sogni non vanno letti in chiave concreta o interpretati frettolosamente e con disinvoltura, esercitando nei loro confronti lo stesso arbitrio del dare spiegazioni impiegato col sentire, come detto in precedenza. I sogni vanno analizzati con cura fin nei dettagli e scoperti nella loro originale proposta, perché possano dire e dare ciò che racchiudono. Sono una risorsa preziosissima, nei sogni c'è capacità, come in nient’altro, di leggere dentro di noi, di sviluppare pensiero fondato e non spiantato. I sogni sono il prodotto più fine e maturo dell'intelligenza dell'inconscio, dell'intelligenza che portiamo dentro di noi, nel nostro profondo. La strada per capire noi stessi e il senso di ciò che ci accade interiormente, accettato e accolto nella sua integrità e interezza, non è certo facile e immediata, ma possibile, purchè con ciò che vive dentro di noi sappiamo aprire un rapporto vero, un dialogo rispettoso e capace di attingere a ciò che la nostra interiorità sa offrirci e vuole proporci.  Se si tratta ciò che si prova, particolarmente quando insolito o sofferto, come cosa, come sintomo da consegnare a qualche esperto, che, emettendo una diagnosi e applicando un trattamento, tratti parte viva di se stessi come oggetto da manipolare, da mettere a tacere o da correggere, si sceglie una soluzione relativamente comoda, anche se destinata a non produrre nulla di positivo nel rapporto con se stessi, a far persistere lontananza e incomprensione,  diffidenza e timore verso parte intima di sé, relegata, liquidata, senza darsi possibilità di conoscerla in ciò che è e che vale davvero, nell'anomalo, nel patologico, augurandosi solo che passi, che, chissà come, si riaggiusti, che non si ripresenti. Nulla interiormente accade senza uno scopo. Lo si comprende cominciando a lavorarci sul serio, dando voce a quella parte di sé che prende voce nel  malessere e nella crisi (e non per fare danno, ma casomai per indurre a prendere se stessi e la propria sorte sul serio), iniziando a ricucire quel contatto col dentro, a tessere quel dialogo con se stessi che manca, imparando a raccogliere e a ascoltare e comprendere l'intimo significato di ogni momento del proprio sentire, dando occasione ai propri sogni di introdurre alla conoscenza di se stessi  e di fare da guida nel mettere assieme il proprio, ciò che davvero appartiene e che corrisponde a sé. Un lavoro impegnativo, ma necessario, scegliendo chi sappia aiutare a farlo, a meno, in presenza di malessere interiore che non cede, che insiste nel voler aprire la strada a prese di coscienza del vero e a trasformazioni importanti, di non voler passare una vita nella paura e nell'ostilità verso parte di se stessi, fraintesa come nemica e da tenere a bada, quando è ben altro, prolungando all'infinito un equivoco madornale. Presunte vittime di ciò che di se stessi non si sa comprendere, si rischia di proseguire crisi dopo crisi nella recriminazione e nel lamento, casomai cercando consolazione nel pensiero che cosa analoga accade a altri, nel mal comune cercando mezzo gaudio.