Ripropongo con qualche integrazione un mio scritto di molti anni fa su un argomento che, a chi voglia soffermarsi sulla qualità dell'aiuto che vorrebbe ricevere da uno psicoterapeuta, potrebbe rivelarsi utile. Quali sono le basi necessarie e irrinunciabili per svolgere il lavoro di psicoterapeuta? L'unico strumento di cui lo psicoterapeuta non dovrebbe essere privo è la capacità riflessiva. Non sto parlando di riflessione e di capacità riflessiva come solitamente si intendono e si praticano e che si traducono nel confezionare sul conto dell'esperienza e di ciò che si vive qualche spiegazione ragionata. Sto parlando di capacità riflessiva come capacità di entrare in rapporto e di prendere visione senza distorsioni dell'intimo di stati d'animo, di emozioni, di esperienze interiori di cui si è portatori, dentro cui si è coinvolti. Il suo possesso da parte dello psicoterapeuta non è per nulla scontato, coincide con lo sviluppo di una matura capacità di ascolto e di dialogo con la propria interiorità, frutto di un approfondito lavoro su se stesso. Non è affatto garantito da studi, da iter formativi in scuole, da apprendimento di tecniche, da possesso di titoli e della stessa abilitazione a svolgere la professione di psicoterapeuta. Il possesso dello strumento riflessivo è però fondamentale. Se non ha capacità di rapportarsi a se stesso, se non sa accogliere e raccogliere i suoi vissuti ed ascoltarli, lo psicoterapeuta è sospeso nel vuoto. Se non sa da un lato lasciarsi prendere, investire, coinvolgere pienamente (nel suo spazio intimo) dalla spinta interiore, dall'emozione, dal sentire e dall'altro non sa prenderne distanza per vedersi riflessivamente, per vedere come dentro uno specchio ciò che gli appartiene, per riconoscere cosa di sé gli si rivela nell’esperienza che vive, cosa interiormente ha preso forma, lo psicoterapeuta vaga nel nulla o procede pericolosamente. Manca infatti dello strumento fondamentale per scoprire cosa di volta in volta gli accade, per orientarsi, per capire l'esperienza e la dialettica interiore. Rimane tutt'uno e adeso inconsapevolmente a ciò che si muove in lui, non lo vede, non lo comprende. Nel rapporto con la propria intima esperienza dà credito alle spiegazioni che mette in campo, spiegazioni più o meno sofisticate e in apparenza coerenti, che, capaci di dargli sostanziale conferma nelle sue persuasioni consuete, ricalcano e ricombinano schemi e attribuzioni di significato diligentemente appresi, fino a convincersi di aver fatto chiarezza o, sarebbe meglio dire, fino a porre e a rafforzare dentro sé, con le sue parole e con i suoi ragionamenti, una solida barriera impermeabile al contatto e allo scambio vivo con se stesso, col suo sentire. Privo di capacità riflessiva, di capacità di ascolto e di visione di ciò che la sua esperienza interiore gli vuole rendere riconoscibile, armato di interpretazioni e di spiegazioni concepite in separata sede col ragionamento e messe sopra a ciò che vive interiormente, lo psicoterapeuta rimane nascosto a se stesso. Non ha occasione di capirsi, di ferirsi anche, di vedere di sè ciò che (diverso dalle sue attese e dalle sue persuasioni) può risultargli doloroso o scomodo vedere, non ha capacità di trasformarsi e di far crescere se stesso, di fare dell'umano più vera e profonda esperienza e conoscenza. Dicevo che vaga nel nulla pericolosamente. Sì, perché, oltre a non fare nulla di utile per se stesso, nella relazione con l'altro è possibile che faccia disastri e senza, per giunta, arrivare a rendersene conto. Vittima ad esempio della necessità di meritare l'approvazione e la considerazione, il consenso dell'altro, di provarsi e di dar prova di essere all'altezza del suo "ruolo", capace, bravo nel verso della capacità di spiegare tutto, di risolvere i problemi, senza che tutto questo gli risulti ben visibile come base vera di conoscenza di se stesso su cui soffermarsi e aprire un confronto approfondito con se stesso, lo psicoterapeuta rischia di tornare a agire queste spinte, finendo per condurre o per confermare l'altro nella dipendenza dalla sua autorità e capacità di risposta. Rischia di non vedere la sua speculare dipendenza dall'altro, che con il suo presunto, come fosse scontato e immodificabile, bisogno di riceverle da lui, lo confermi nella sua capacità di dargli spiegazioni e risposte, nel possesso di questa prerogativa. Sarebbe viceversa compito prioritario dello psicoterapeuta aiutare l'altro a formare e a sviluppare capacità di dialogo con la propria interiorità, a scoprire e a impadronirsi di questa possibilità di conoscenza, in precedenza ignote. Lo psicoterapeuta deve però possedere lui per primo capacità riflessiva, capacità di dialogo aperto e trasparente con la propria interiorità, per favorire questa possibilità nell'altro. Lo psicoterapeuta, se privo di capacità riflessiva, rischia invece e sciaguratamente di incoraggiare l'altro alla dipendenza e, come fa con se stesso, all'impiego passivo di formule e di risposte pronte. Può indurre l'altro a non ascoltarsi pazientemente e attentamente, a non concedersi all'incontro e al dialogo con la propria interiorità, con ciò che da dentro gli si propone, all'inizio oscuro, temuto. Può incoraggiare o dar manforte alla tendenza già presente nell'altro a mettere a tacere l'esperienza interiore, specie se dolorosa e ardua, a difendersene prima di tutto, a tentare di neutralizzarla con qualche spiegazione o ricerca di cause del malessere interiore in apparenza plausibili, che illudono di aver portato alla radice del problema, ma estranee all'intenzione, al senso di quel sentire doloroso, arduo, cui, per mancanza di capacità di rapporto con l'esperienza interiore, di capacità riflessiva, non è concesso vero ascolto. Tant'è che non è infrequente che a dispetto della convinzione di aver compiuto un passo decisivo chiarendo le sue (presunte) cause, il malessere insista come e più di prima, perchè incompreso nel suo senso, perchè non affatto assecondato negli scopi di presa di coscienza e di trasformazione personale, assolutamente utili e necessari, che spingeva a realizzare. Sono disastri veri e propri, perché costituiscono impedimento alla scoperta di sé e al cambiamento nel rapporto con se stessi e con la propria vita, tanto fortemente voluti dal profondo dell'individuo, quanto incompresi, ignorati. Lo psicoterapeuta può, anzichè aprirlo a se stesso, riconsegnare l'altro alla "normalità", può cioè contribuire a mantenerlo in un'idea di sé che profondamente non gli corrisponde, può (malgrado l'illusione di averlo aiutato a capire, a capirsi) chiuderlo a se stesso, mantenendolo nell'ignoranza delle sue risorse interiori, dei suoi più originali orientamenti, della sua capacità più profonda, del suo progetto. Se privo di capacità riflessiva lo psicoterapeuta non ha capacità di accedere alla vita interiore, di capirne il linguaggio e le ragioni, rischia, malgrado le pretese e le buone intenzioni, di riprodurre, pur se in una forma più sofisticata, logica e pensiero convenzionali, rischia, come fa con se stesso, di tenere l'altro in quei confini e limiti ristretti. Serve allo psicoterapeuta un bagaglio di sapere e di conoscenze apprese, perchè abbia e dia garanzia di poter svolgere bene e utilmente il suo lavoro, la sua funzione con l’altro? Parlo a partire dalla mia esperienza di analista e con riferimento all'esperienza analitica. Ogni esperienza analitica produce, crea il suo sapere. Non serve sapere già e prima, anzi, teorie e spiegazioni già confezionate e pronte, che pretendano di spiegare tutto, possono solo coprire col preconcetto ciò che invece ha necessità di manifestarsi nella sua unicità. E' il lavoro analitico a generare tutto. Ogni individuo nel suo percorso analitico è intento a un discorso originale, tutto da scoprire e da rispettare nella sua unicità. Lo psicoterapeuta, l'analista deve possedere la capacità di dialogo con l'esperienza interiore, la capacità riflessiva di cui dicevo prima. L’analista, possedendola, può trasmettere all’altro questa capacità di avvicinare e di dialogare con l’esperienza interiore, può farla crescere in lui sempre più, liberandolo dalla paura e dalla incapacità di comunicare con se stesso. L'analista, quanto più si è cercato e ha esercitato nel rapporto con se stesso apertura e dialogo, continuità di ricerca, tanto più può rivolgersi utilmente all'altro per sostenerne, con pazienza e con fiducia, il viaggio di ricerca dentro se stesso. Se lo psicoterapeuta, se l'analista è solo imbottito di teorie e di sapere già formato e preso in prestito, tenderà soltanto a ripetere ciò che ha appreso, a girarlo sull'esperienza che incontra, sua e dell'altro. Discepolo sciocco di qualche maestro, non importa se autorevolissimo e famoso, si limiterà a ripeterne il pensiero in una forma imbalsamata e stantia. Non prenderà su di sè il compito e il peso di portare avanti da sè la ricerca, di misurarsi col diverso, con l'imprevedibile, col nuovo che perennemente si dà dentro se stesso e dentro l'altro. Non consegnerà analogo compito e non coltiverà nell'altro analoga capacità verso se stesso.
sabato 6 gennaio 2024
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