Rimetto in primo piano un mio scritto di qualche tempo fa, in cui affronto una questione che considero fondamentale.
Il legame con tutto ciò che, esterno a sè, si presenta come un insieme strutturato e organizzato (la cosiddetta realtà), fruibile come supporto e veicolo d'esperienza, capace di offrire soluzione pronta per ogni necessità, di indicare modelli, percorsi, tappe da seguire per dare risposta a ogni esigenza di soddisfazione e di espressione personale, di crescita e di autorealizzazione, è questione da tenere ben presente per capire la problematica del rapporto con se stessi, con tutto ciò che si propone nell'esperienza interiore. Ho più volte sottolineato nei miei scritti la pericolosità e l’insensatezza di opporre rifiuto preconcetto e di squalificare come insano e deleterio tutto ciò che da dentro se stessi, dal proprio profondo, si impone come disagio interiore. Il rifiuto è ripudio di una parte capace, creativa e intelligente di sè, la squalifica è bocciatura della propria interiorità, che nel sentire, pur doloroso e tormentato, in realtà dice, suggerisce, vuol far comprendere qualcosa di centrale e di decisivo di se stessi, vuole aprire e promuovere processi trasformativi e di crescita importanti, necessari e favorevoli. Ebbene, a spingere fortemente verso una simile intolleranza e fuga dal proprio sentire disagevole e sofferto, con un atteggiamento e con un modo di pensare che sentenzia, dandolo per scontato ed evidente, che si tratterebbe solo di disturbo, se non di malattia, che menoma e danneggia, è proprio il legame di dipendenza dall’esterno, da un insieme vissuto come fonte vitale, capace, in apparenza, di dare risposta pronta a tutto, di offrire essenza, contenuto e senso del vivere. Guai a perdere contatto e legame stretto con l‘esterno, a sentirsi in qualche misura tagliati fuori, ostacolati nel mantenere scambio e presenza nell’insieme dato, guai a limitare o compromettere il contatto con altri individui ritenuti decisivi e fondamentali, guai ad allentare il legame con la realtà esterna! Pare e è temuta come una drammatica perdita di sé. Se da dentro se stessi la propria interiorità col malessere esercita una presa, questa è vissuta prima di tutto come un preoccupante ostacolo, come l'impedimento all’abbraccio col fuori, dove pare ci sia tutto. La presa forte dell’intimo che coinvolge e che trattiene, certamente non è l'espressione di un pericoloso cedimento, di un guasto o di una malattia, ma di una decisa e incalzante sollecitazione del profondo all'avvicinamento e al dialogo con se stessi, perchè si esca dalla condizione di passiva adesione a modalità e a scelte di vita non comprese davvero, perchè prima di tutto le si guardi nell'intimo, per avviare scoperta e formazione di idea propria e autonoma attorno alla propria vita ( può rendersi indispensabile un aiuto per formare e per sviluppare questa capacità di rapporto con l'intima esperienza). Viceversa la presa interna di sensazioni difficili e impegnative appare subito come una disgrazia, come una pericolosa causa di ritardo rispetto alla corsa comune, come un rischio di deriva e di caduta nell’abisso del niente. Simile visione del rapporto con la propria interiorità e dell’intimo legame con se stessi, se da un lato è conseguenza di una abituale lontananza da sè e della mancanza di familiarità col dialogo interiore, di assenza di fiducia nel rapporto con la propria interiorità e di ignoranza del significato dell'esperienza profonda, dall'altro è certamente alimentata, esasperata dall’angoscia di perdere la continuità del contatto e dello scambio con ciò che, esterno a sè, da troppo tempo è vissuto come il riferimento fondamentale, come l’habitat naturale, come l'alimento vitale unico e insostituibile. Il vincolo a se stessi, reso obbligato e stringente dal malessere interiore, è vissuto come rischio di uscita dal reale, come pericoloso fattore di isolamento e di privazione, quasi di sradicamento, senza speranza e senza promessa. E’ decisamente un paradosso. Andare verso se stessi è in realtà il primo, necessario movimento vitale, per congiungersi a sé, per trovare la propria "terra", per ritrovare fondamento e radici, per cominciare davvero a vedere con i propri occhi, a comprendere per intimo sentire, per orientarsi. Ben sostenuti da un profondo che dà e che dice, come mirabilmente il proprio inconscio sa fare con i sogni, oltre che col sentire (serve però un aiuto per comprendere e scoprire tutto questo), in questo incontro con la propria interiorità si potrebbe finalmente riconoscere se stessi, non per ciò che è riconoscibile dagli altri, non per ciò che può rendere adeguati o validi ai loro occhi, ma per ciò che si è davvero, per ciò che si prova, per ciò da cui si è mossi e che vive dentro sè. Andare verso se stessi significherebbe cominciare a ritrovarsi, uscendo dalla condizione di sconosciuti a se stessi, spesso impegnati in un movimento ritenuto tanto normale quanto nella sostanza sterile e insensato, paghi solo di non esser da meno d’altri o fuori dai circuiti comuni d'esperienza. L'incontro con se stessi potrebbe avviare un percorso di presa di coscienza e di sviluppo di pensiero, che da semplici consumatori di una vita già pensata e fruibile nelle forme date, potrebbe rendere protagonisti e artefici di comprensione propria dei significati, di scoperta di ciò che per sè vale e del suo perchè, di progetto autonomo. Tutto va però formato e sviluppato, cosa che nella modalità solita di procedere, dove tutto è immediatamente fruibile e traducibile, è una sorta di novità incomprensibile, se non di anomalia. Per andar dietro, per sintonizzarsi col senso comune e con idee già in uso, per farsi condurre, confermare e dare convalide esterne, ci vuol solo spirito adattivo e gregario, non importa se in apparenza, camuffato da illusorio possesso di spirito critico e di autonomia, spesso solo di facciata e inconsistenti. Per formare visione e conoscenza proprie, per dare forma sentita, coerente con se stessi, alla propria vita, per generare il proprio, per farlo crescere, con soddisfazione nuova e profonda, serve ben altro, è necessario un lavoro, una ricerca personale, prima di tutto è necessario convergere verso se stessi, imparare ad ascoltarsi, a cercare nell'intimo del proprio sentire le guide per capirsi, per capire. Capita invece, succede frequentemente, che anzichè riconoscere nell'esperienza della stretta interiore, del malessere vivo, la possibilità e la necessità non rinviabile di incontro con se stessi, il richiamo a una verifica approfondita, anzichè proporsi come priorità l'ascolto e la comprensione di sè, si respinga fermamente, si squalifichi disinvoltamente (prendendo per oro colato l'equazione: doloroso= sfavorevole e dannoso) ogni pungolo e richiamo che venga dall'interno, perchè difficile e sofferto, perchè discordante dalle attese e scomodo, a prendere contatto con se stessi, a iniziare a interrogarsi nel vivo, a ritrovarsi davvero. Ben connessi con l'esterno e disconnessi da sè, in fuga, pur senza ammetterlo, da ogni tentativo di veder chiaro e puntuale, di capire davvero cosa si sta facendo, paghi di definizioni e di perché convenzionali, di spiegazioni arrangiate, anzi, in non pochi casi, con la clausola, benedetta da mentalità corrente, che saper vivere significa saper stare a mezz'aria (spensieratezza, leggerezza, non dar peso…), alla fin fine ci si adatta alla passività dell'andar dietro, alla provvisorietà, all’indecifrabilità del proprio essere, incuranti di sapere, compiaciuti di rinviare, di tener lontana la verifica, di sopire la preoccupazione di trovare il filo vero ed unitario del proprio procedere e fare. In questo modo di procedere ciò che conta non è prendere davvero in mano la propria vita, che richiede fermarsi per entrare in contatto, in ascolto e in sintonia con la propria interiorità, sia per vedere nitidamente, con coraggio e sincerità, il vero della propria condizione attuale, sia per comprendere della propria vita il significato e lo scopo autentico come profondamente concepito, desiderato, voluto. Tutto questo è fuori dal proprio sguardo e dalle proprie mire, perchè sembra bastare ciò che si conosce o che ci si illude di conoscere di se stessi e del significato della propria esperienza, perchè ciò che conta e urge è non perdere contatto con altro, è non intralciare l'andar avanti tra una cosa e l'altra, legati a questo o a quello, è non incontrare ostacolo o ritardo nell'inseguimento di una cosa o dell'altra, su cui esercitare o mantenere la presa. Nella condizione di simbiosi con altro da sè, in cui, scontatamente, quasi automaticamente, ci si fa dare da altro un che di essenziale (e fatalmente ci si lega a questo altro, consegnandogli il proprio apporto vitale di tempo, di energie e di dedizione, per confermarlo e per tenerlo in vita), non si sa e non si vuol vedere con chiarezza cosa sta accadendo, ci si persuade che tutto è normale, facendo conto su esempio e credo comune, su comune andazzo. Tutto è normale e l'interiorità che stacca, che col malessere complica, che vorrebbe far vedere chiaro, è giudicata subito l'anomalia da mettere a tacere. La simbiosi con altro da sè, sia che questo altro sia cosa, mentalità, abitudine o persona, una o più, elette a riferimento o a ragione di vita, è continuamente confermata come condizione di vita irrinunciabile e sana, con tutta la consacrazione fatta dal pensiero comune, che per esempio incoraggia e premia l'attaccamento alla "realtà", che stigmatizza ogni movimento di ripiegamento, di avvicinamento a sè, a meno che non sia fugace e finalizzato al pronto rientro nell'insieme. Non da meno la simbiosi è sostenuta e prontamente rinvigorita dall’apparato di sostegno delle stesse cure di non pochi curanti, che non smentiscono certo l’idea che prima di tutto bisogna scacciare la crisi interiore, staccare dal dentro, per rinsaldare i legami col fuori. L’invito a spensierarsi, a dar peso e valore esclusivo a quel che c’è, ai legami con altri e con altro, a rinsaldarli, a renderli motivanti o rimotivanti per riprendersi, a leggere il malessere interiore solo in dipendenza e in funzione d'altro, l’aggiunta di droghe (psicofarmaci) per metter ordine, per tentare di zittire l’ansia e ogni altro fastidioso sentire, per ripristinare l’ordinato "sano" procedere libero da richiami interiori, sono il contributo curativo all’andar via da sé. Sono la riconferma della fatalità, dell'ovvietà della simbiosi con l’esterno, con altro, che già scontatamente darebbe volto, contenuto e definizione alla propria vita, senza necessità di capire nulla, senza possibilità di cambiare nulla, di scoprire e di generare nulla di diverso, di aprire nuove strade, originali e conformi a se stessi.