Vanno di pari passo. Vittimismo e bisognosità (parlo di bisognosità come modo di porsi, come atteggiamento bisognoso nei confronti delle questioni e delle necessità della propria vita) si sostengono e corroborano a vicenda. Sono le architravi di un modo di stare al mondo che non riconosce come senso del vivere la ricerca e la creazione di pensiero proprio, la scoperta e la realizzazione con passione, responsabilità e impiego di forze e di risorse tratte da sè, di progetto proprio e originale. La bisognosità viceversa induce a avere fame di soluzioni di pronto impiego, con l'animo di chi è pronto a lamentarne la mancanza, a rigirare su altro e su altri il compito e la responsabilità di provvedere, con l'occhio attento a scorgere difetti e inadempienze in altri e in altro, con la tendenza a vivere vittimisticamente ogni percezione di insoddisfazione e di mancanza, come fossero un torto subito, una pena indebita patita. Quando l'interiorità preme e incide con forza, quando col malessere dà fermo e insistito richiamo a rivolgere l'attenzione non all'esterno, ma all'intimo, quando dà pungolo e occasione di riconoscere la propria condizione, di guardare dentro ciò che si sta facendo di se stessi, la risposta più frequente è di rinforzo vittimistico e bisognoso. Come fosse un peso e una calamità patita, come fosse una anomalia, un torto della natura o la conseguenza di qualcosa di maligno e sfavorevole che dall'esterno affligge e che non concede l'auspicata tranquillità, considerata naturale e di diritto, non c'è nessuna disponibilità a intendere il proprio malessere come specchio per conoscersi, a valorizzarlo come terreno vivo per vedere fino in fondo la verità della propria condizione, con i vuoti di realizzazione, di ricerca e di crescita personali da colmare, riconducendoli prima di tutto a sè, riconoscendo la responsabilità piena nel proprio modo di procedere e di condurre la propria vita. Tanta psicoterapia è cercata appositamente per far quadrare e per rendere più robusta la propria concezione vittimistica e bisognosa, casomai per cercare a ritroso la causa del malessere attuale in responsabilità familiari genitoriali, per trovare il trauma psichico maledetto o benedetto, che spieghi tutto, dalla cui influenza essere aiutati con varie tecniche a liberarsi, con lo scopo, perlomeno con l'auspicio, di ripartire sollevati, rimettendo in esercizio e in corsa il solito modo di procedere senza più intralci. Questo accade ben facilmente quando la psicoterapia non è proposta e capacità di dare aiuto per imparare a ascoltare l'interiorità, a comprenderne il linguaggio, per riconoscere nel malessere e nella crisi i segnali e le tracce vive, che sono ben presenti, per avvicinarsi a vedere il vero della propria condizione, del proprio modo di procedere e di stare in rapporto, spesso in non rapporto, con l'intimo di sè, per raccogliere dal proprio profondo, dal sentire e dai sogni, tutti gli stimoli e le guide per una profonda trasformazione, per la scoperta dell'autentico di sè, per la costruzione, in unità con se stessi e lavorando sulla propria intima esperienza, di una visione propria, originale e vera, di se stessi e della propria vita, di ciò che vale e che da dentro di sè vuole vivere e essere realizzato, non assumendo altro come modello e regola, che è nell'insieme la risposta coerente, sintona e congrua al malessere interiore, allo scopo che vuole perseguire. La psicoterapia prende spesso viceversa la forma di una ingegneria della risoluzione dei problemi psicologici, ben compiacendo alla attesa vittimistica e bisognosa di chi cerca aiuto, come se nel malessere ci fosse guasto e conseguenza di qualche alterazione e compromissione dell'equilibrio psichico, presunto fisiologico e normale, che si cerca di spiegare cercandone, come già detto, nella biografia una causa, nell'educazione, nel condizionamento dell'ambiente, nei mancati o distorti apporti delle figure più significative, nell'esperienza di momenti critici, di eventi traumatici e così via. Non di rado, è la proposta della psicoterapia di tipo cognitivo comportamentale, oggi assai diffusa, è riversata sul conto del proprio malessere interiore, che sia ansia o altro che non dà tregua, l'idea che sia la conseguenza e l'espressione di un malfunzionamento o con linguaggio più tecnico di un modo disfunzionale di pensare e di reagire, da mettere in officina di riparazione. Ancora la lettura vittimistica e l'urgenza bisognosa hanno modo di affermarsi e di prevalere indisturbate, trovando semmai nella terapia, in spiegazioni di presunte cause a sè sfavorevoli, in interventi correttivi di risposte definite disfunzionali, più forte sostegno nella tesi che il malessere interiore è comunque l'espressione di un guasto, vissuto come nocivo e sfavorevole, da sanare, di una anomalia da contrastare, per rendersi liberi, senza ostacoli interiori, di riprendere, casomai con qualche aggiustamento e migliore adattamento, il procedere e la corsa soliti. Questi se non altro gli auspici. Non si possono però fare i conti senza l'oste, dove l'oste è l'interiorità che non si piega e che non ci sta a farsi travisare, dove l'oste è il rendiconto sincero, è la verità che vuole emergere e che presenta e ripresenterà il conto. Non c'è però rinuncia, dove bisognosità e vittimismo continuano a dominare incontrastati, alla pretesa di mettere a tacere un'interiorità che insiste. Se, come spesso capita, a più o meno breve distanza, ci si ritroverà a patire nuovo disagio ecco che, con l'idea di una ricaduta della "maledetta malattia", così spesso è inteso il malessere interiore, si cercherà ancora di far quadrare i conti secondo tesi e criteri di bilancio vittimistico bisognoso. Travisare è facile, persistere pure, ma l'oste non smetterà comunque di presentare il conto vero, in attesa ferma e paziente che la risposta sia finalmente di responsabilità e non di ottuso vittimismo e di cocciuta bisognosità.
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